Possiamo essere riconosciuti da come ci muoviamo?
Un nuovo studio ha usato l'apprendimento automatico per scoprirlo, ipotizzando che il modo in cui muoviamo i muscoli sia una specie di impronta digitale
Per la maggior parte di noi è normale associare alle persone che ci sono più care un particolare modo di camminare, oppure una certa postura quando sono sedute, arrivando a riconoscerle per quello. Un gruppo di ricercatori francesi e australiani ha scoperto che questo fenomeno potrebbe essere più complesso e fondato di quanto pensavamo finora: uno studio pubblicato sul Journal of Applied Physiology ipotizza che ciascuno di noi abbia un proprio modo di muoversi che lo distingue da tutti gli altri, una maniera di coordinare i muscoli unica, alla stregua di un’impronta digitale.
Saper riconoscere le persone dal modo di muoversi non è soltanto una dote che si acquisisce frequentando e osservando a lungo una persona a noi vicina: è uno dei principi su cui si basano le più avanzate forme di videosorveglianza, come ha spiegato il New York Times. Ma queste valutazioni – sia quelle di ciascuno di noi, sia quelle degli algoritmi che regolano i riconoscimenti tramite video – si basano su molti fattori, come l’altezza dei soggetti, le proporzioni tra gambe e busto, la forma delle spalle, il modo di tenere le mani. Quello che hanno osservato gli scienziati del nuovo studio è diverso, perché hanno provato a verificare se questa presunta unicità nei movimenti sia qualcosa di più profondo, letteralmente: se cioè dipenda dal modo in cui i muscoli di ciascuno di noi si comportano quando facciamo un movimento qualsiasi.
Per farlo, sono stati selezionati 80 uomini e donne di altezze e pesi diversi, che hanno pedalato su alcune cyclette regolate individualmente, in modo che ciascuno mantenesse la stessa postura. I ricercatori hanno quindi attaccato degli elettrodi a otto muscoli delle gambe dei soggetti del test, impostandoli affinché ne registrassero l’attività elettrica alla base della contrazione muscolare. Questi “segnali di attivazione” sono stati registrati durante una serie di pedalate di 90 secondi ciascuna, a diverse velocità. Poi ai soggetti è stato chiesto di camminare su un tapis roulant, anche in questo caso a diverse velocità.
Giorni dopo, una parte dei volontari è stata fatta tornare nel laboratorio, dove ha ripetuto tutto un’altra volta, sempre monitorata con gli elettrodi. I dati registrati sono stati inseriti in un software di apprendimento automatico, cioè un programma che riconosce dei pattern prestabiliti e li rielabora statisticamente per migliorare le prestazioni di un algoritmo. Semplificando molto una cosa complicata, quindi, un software che osservando una cosa precisa impara, immagazzinati dati a sufficienza, a riconoscerla.
All’inizio, i ricercatori hanno detto al software a quali soggetti corrispondevano i movimenti muscolari registrati, in modo che imparasse ad associare a ciascun volontario i dati relativi agli impulsi elettrici
Dopo questa fase, l’algoritmo è stato messo alla prova: le rilevazioni sui singoli muscoli sono state rese anonime, e sono state sottoposte nuovamente al software perché le riconoscesse. In più del 99 per cento dei casi è stato in grado di associarli alla persona giusta, grazie ai pattern individuali che aveva imparato. Quando gli sono stati sottoposti i dati relativi a due soli muscoli, è riuscito comunque a riconoscerli in più dell’80 per cento dei casi.Ma soprattutto, l’algoritmo è stato in grado di riconoscere i soggetti dell’esperimento sulla base delle rilevazioni registrate nella seconda sessione al laboratorio, avvenuta a giorni di distanza dalla prima: con i nuovi dati relativi ai movimenti di otto muscoli, li ha riconosciuti correttamente oltre il 90 per cento delle volte per le pedalate, e oltre l’85 per cento per le camminate. Le percentuali, come nel caso dei dati della prima sessione, scendevano se l’algoritmo aveva a disposizione i dati su un numero inferiore di muscoli.
Se finora era noto e dimostrato che il modo di muovere i muscoli cambiasse da individuo a individuo, il gruppo di scienziati ritiene di aver dimostrato che queste differenze non dipendono da variabili casuali, ma che sono legate – in un modo ancora da comprendere appieno – ad alcune caratteristiche uniche per ciascuno di noi, che rimangono le stesse anche se osservate a giorni di distanza.
François Hug dell’Università di Nantes, che ha firmato l’articolo, ha spiegato al New York Times che le scoperte dello studio sono importanti perché «capire come controlliamo i movimenti rimane una delle sfide più grandi in molti settori scientifici diversi». Il punto è che anche i movimenti umani apparentemente più semplici sono in realtà estremamente complessi: «Un bambino di 5 anni può maneggiare gli oggetti meglio di un robot». Per questo lo studio potrebbe aiutare, per esempio, la robotica e l’ingegneria biomedica, ma anche la fisioterapia, gli allenamenti sportivi personalizzati e in generale il modo in cui la scienza considera le reazioni individuali agli interventi chirurgici e alle malattie.