Molte persone non si curano come dovrebbero
I progressi nella medicina rischiano di essere inutili se non si trova un modo per convincere le persone a cambiare abitudini e curarsi nel modo giusto
A metà degli anni Novanta, si cominciò a diffondere negli Stati Uniti una nuova terapia che avrebbe portato a un notevole aumento del tasso di sopravvivenza tra le persone affette da HIV, il virus che causa l’AIDS. Lo scopo delle terapie con farmaci cosiddetti antiretrovirali era quello di ridurre al minimo la presenza del virus nell’organismo, riattivare il sistema immunitario e impedire la trasmissione ad altre persone. Perché sia efficace, la terapia prevede l’assunzione quotidiana di diversi farmaci, che devono essere assunti con una regolarità minima del 95 per cento: se assunti in modo saltuario, infatti, non solo rischiano di essere inutili ma potrebbero rendere il virus più resistente. Oggi, dopo più di vent’anni dall’introduzione dei farmaci antiretrovirali, i risultati di diversi studi indicano un’aderenza media che non supera l’80 per cento e precipita, in alcuni casi, fino al 27 per cento.
In medicina, il grado di adesione di un paziente alle indicazioni ricevute dal medico si definisce compliance. Oltre alla regolare assunzione dei farmaci prescritti, la compliance del paziente comprende la sua capacità di apportare e mantenere cambiamenti nelle abitudini di vita (come smettere di fumare, fare attività fisica, rispettare indicazioni nella dieta) e di attenersi al percorso di eventuali visite, esami e sedute di riabilitazione, così come prescritto dal medico.
Nel caso dell’HIV le cause della non-compliance sono varie e vanno dalle condizioni psicologiche, sociali ed economiche dei pazienti, alla loro insofferenza verso i pesanti effetti collaterali, ma quello della scarsa aderenza alle cure mediche è un problema che non riguarda solo i malati di HIV.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): «i problemi legati all’aderenza ai farmaci vengono osservati in tutte le situazioni in cui è richiesta una gestione autonoma della terapia, indipendentemente dal tipo di malattia, dalla gravità e dall’accessibilità delle cure». In media, si calcola che nei paesi sviluppati, solo il 50 per cento dei pazienti con malattie croniche rispetti le indicazioni ricevute dal medico e che la percentuale scenda nei paesi meno ricchi.
Le malattie croniche per cui il problema della compliance è più urgente sono l’ipertensione, il diabete e l’asma. La compliance al trattamento per chi soffre di ipertensione prevede, oltre all’assunzione di farmaci per abbassare la pressione, un’adeguata attività fisica e una dieta a basso contenuto di calorie e sale. Negli Stati Uniti solo un paziente iperteso su due rispetta queste raccomandazioni. Tra i pazienti che soffrono d’asma, nei paesi sviluppati la compliance è del 28 per cento e la stessa percentuale è in Europa quella dei pazienti con diabete di tipo 2 che raggiungono un buon livello di controllo glicemico. Negli Stati Uniti i pazienti con questa malattia che seguono completamente le cure non sono più del 2 per cento.
Tra i pazienti affetti da malattie croniche, gli adolescenti sono quelli più a rischio: man mano che crescono e si allontanano dal controllo dei genitori, diventano meno regolari nell’assunzione dei farmaci, e cominciano a trasgredire rispetto alle “regole” imposte dalla loro condizione. Un esempio abbastanza sorprendente è quello della celiachia: alcuni studi hanno stimato che il 40 per cento dei pazienti celiaci cominci a trasgredire (mangiando pasta, pane e altri alimenti a base di farina) quando diventa adolescente, soprattutto se non ha sintomi gravi. Un altro campo in cui la compliance risulta particolarmente difficile è quello dei pazienti psichiatrici: si stima che le persone a cui sono stati prescritti psicofarmaci contro la depressione che aderiscono alle cure siano il 70 per cento.
In un report pubblicato nel 2003, l’OMS portò il problema della non-compliance all’attenzione pubblica e della comunità scientifica. In questo documento, l’OMS citava uno studio di qualche anno prima, che affermava che aumentare l’efficacia degli interventi sulla compliance potrebbe avere un impatto maggiore sulla salute pubblica di qualsiasi altro progresso in medicina.
Inutile dire che seguire le cure è uno dei fattori determinanti per l’efficacia di una terapia. Ma non solo: i rischi legati all’assunzione di farmaci fatta in modo inappropriato possono essere anche molto gravi e vanno dallo sviluppo di una dipendenza o resistenza ai farmaci fino a effetti collaterali, tutte cose che richiedono poi ulteriori interventi. In questo senso, risolvere il problema della non-compliance porterebbe, oltre che a migliori risultati a livello di salute pubblica, anche a significativi risparmi per tutto il sistema sanitario.
Recentemente, in Italia è stata istituita la Giornata nazionale per l’aderenza alla terapia che si celebra il 12 aprile: si calcola infatti che sulla spesa pubblica la non-compliance pesi più di 11 miliardi di euro ogni anno. In particolare l’aderenza alle cure mediche sembra abbassarsi con l’alzarsi dell’età dei pazienti (a cui vengono prescritte più terapie, ma che sono anche meno ligi nel rispettarle) e per questo in un paese come l’Italia, con un’età media particolarmente alta, il problema non è trascurabile.
Il report dell’OMS poneva anche il problema di come intervenire in modo efficace su questo problema, invitando la comunità scientifica e i professionisti della salute a spostare l’attenzione dai pazienti per concentrarsi sul loro stesso ruolo. Bisogna interrogarsi sull’efficacia dei servizi e delle strutture sanitarie nel creare un rapporto terapeutico basato sulla fiducia e sul coinvolgimento della persona nel suo stesso processo di cura. Se infatti la prima tendenza della ricerca medica era quella di cercare nei pazienti le cause della loro scarsa aderenza alle cure (per esempio nelle loro condizioni socio-economiche e psicologiche o nel livello di istruzione), col tempo si è cominciato a spostare l’attenzione sulla relazione tra il medico e il paziente o il team di professionisti che lo ha preso in cura. Per esempio, nel caso dell’HIV, è dimostrato che una bassa compliance è correlata a uno scarso coinvolgimento del paziente nelle decisioni relative alla propria terapia.
Negli ultimi anni si è cominciato a studiare la relazione e la comunicazione tra medici e pazienti nel tentativo di individuare e portare dei cambiamenti all’interno delle strutture sanitarie e, ancora prima, nel percorso di studi dei professionisti della salute. Tra le conclusioni a cui si sta giungendo c’è che il medico non può limitarsi a fare una diagnosi e proporre una terapia farmacologica, ma deve diventare promotore dello stato di salute generale del paziente, convincendolo della necessità di certi cambiamenti e poi accompagnandolo nella graduale adozione di un diverso stile di vita.
Perché questo avvenga, serve un coinvolgimento di tutta la struttura ospedaliera o ambulatoriale, oltre che degli specialisti. In Italia, chi si sta avvicinando a questo nuovo approccio alla cura è Centro Medico Santagostino, una rete di poliambulatori specialistici distribuita nel nord d’Italia con un modello sanitario innovativo. Dalla sua nascita, nel 2009, il Santagostino si è posizionato sul tema della qualità della presa in carico, garantendo tempi di visita adeguati a una buona diagnostica e favorendo in questo modo una relazione di ascolto e fiducia tra medico e paziente.
Negli anni, Centro Medico Santagostino ha continuato a interrogarsi sul cambiamento che il ruolo del medico sta attraversando. Oggi infatti i pazienti hanno numerose fonti di informazione (internet prima di tutte) e hanno spesso un’opinione sul proprio problema e sulla cura di cui hanno bisogno. Di fronte a questo, il medico non può più essere assertivo come una volta, deve saper ascoltare il paziente, adattare il proprio linguaggio alla persona che ha davanti e collaborare con lei nell’elaborazione di un percorso di cura davvero efficace.
Il progetto ― ancora in fase di test nelle strutture di Centro Medico Santagostino ― è quello di creare un percorso di “coaching” non solo per pazienti con malattie croniche, ma in generale per tutte le persone che si trovano di fronte a una prescrizione medica che preveda un cambiamento. L’obiettivo finale sarà quello di allestire dei veri e propri centri dedicati. «I medici sono abituati a pensare alla diagnosi e alla prescrizione di una cura, ma dobbiamo preoccuparci anche di quello che succede dopo» ha raccontato al Post Michele Cucchi, psichiatra e direttore sanitario della struttura, «Un esempio banale è quello del mal di schiena: ci sono tantissimi giovani che ne soffrono e il medico non può più limitarsi a curare solo il sintomo perché spesso questi dolori sono legati a una postura sbagliata, a uno stile di vita sedentario, a cattive abitudini che vanno cambiate prima che il disturbo diventi cronico» .
Il “coach” sarà uno specialista della salute (psicologo, nutrizionista o fisioterapista) formato per diventare esperto del processo di cambiamento e lavorerà con i pazienti sia singolarmente che in piccoli gruppi. L’approccio è quello della medicina funzionale, quindi non alternativo né in conflitto con la medicina curativa, ma volto ad ampliare l’intervento di cura a una visione a lungo termine e d’insieme della persona.
Questo articolo fa parte di un progetto sponsorizzato da Centro Medico Santagostino.