Jeremy Rifkin, profeta imperfetto
Abbiamo parlato con uno dei saggisti e attivisti più discussi al mondo, in Italia per presentare un libro sul collasso della «più grande bolla finanziaria della storia»
«Siamo di fronte alla più grande bolla finanziaria della storia. Vale 100 miliardi di euro e io penso che collasserà, insieme a tutto il sistema economico basato sui combustibili fossili, intorno al 2028». Jeremy Rifkin è uno dei più famosi e discussi attivisti ambientali del pianeta e, mentre è seduto in una sala dell’albergo Four Seasons di Milano per presentare il suo ultimo libro, Un Green New Deal Globale, pubblicato da Mondadori, parla della fine del capitalismo e dell’avvento di un nuovo mondo ecologicamente sostenibile con la naturalezza di chi descrive il sorgere del Sole domattina. «Ci serve un piano», continua, «e velocemente». Ma nelle sue parole non si sente la disperata urgenza e l’indignazione di Greta Thunberg: Rifkin parla con la sicurezza inscalfibile di qualcuno che il futuro lo ha già visto.
Sono in molti a credere che Jeremy Rifkin sia in effetti una specie di profeta. In oltre venti best-seller pubblicati negli ultimi 40 anni ha dipinto grandi scenari futuristici, arrivando a volte a cogliere temi e argomenti che sarebbero divenuti rilevanti con anni di anticipo. Ha partecipato a un numero incalcolabile di conferenze in giro per il mondo. È ascoltato dalle persone più potenti della Terra, siano essi manager della Silicon Valley, ministri europei o leader cinesi, ma è anche odiato dalla destra conservatrice, che lo accusa di usare l’ambientalismo come scusa per introdurre nuove tasse e aumentare i poteri dello Stato. Ed è detestato da una parte significativa della comunità scientifica, che non gli perdona le sue dure critiche contro le biotecnologie e la genetica, portate avanti spesso con toni e tattiche spregiudicate.
Il libro che sta presentando in Italia è un saggio lungo poco più di duecento pagine, zeppo di cifre, dati e fatti che Rifkin utilizza con abilità per dipingere quella che secondo lui è l’inevitabile soluzione al cambiamento climatico: un’alleanza di governi, mercati e comunità locali per cambiare il nostro sistema economico dal basso. Il tour di presentazioni del libro è intenso. Martedì a Milano il suo ufficio stampa aveva fissato mezza dozzina di interviste, mentre nel pomeriggio lo aspettava un incontro con i ragazzi di Fridays for Future, il gruppo di manifestanti contro il cambiamento climatico ispirato da Greta Thunberg. Il giorno prima era a Roma per dare altre interviste e incontrare il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. A settembre ha presentato il libro in Germania, dove è una specie di star, oltre che un consulente della cancelliera Angela Merkel, invitato con tutti gli onori alle feste del suo partito. Nelle prossime settimane sarà il turno di Spagna e Francia.
A Milano, nella saletta scelta per le interviste, Rifkin accoglie i giornalisti in piedi e con un sorriso affabile. Sul tavolo c’è una grossa tazza di caffè decaffeinato. «Non vuoi vedere gli effetti che fa l’eccesso di caffeina su un uomo di 76 anni», scherza Rifkin, nella prima di diverse battute sulla sua età. Di caffeina comunque non ha bisogno: nonostante gli anni Rifkin trabocca di energia e sembra far fatica a rimanere seduto per l’ora intera che dura l’intervista. Quando parla del libro, però, diviene calmo, preciso e concentrato sul suo interlocutore. Snocciola numeri e date con agilità e senza bisogno di consultare appunti.
La tesi del suo libro, in sostanza, è che l’industria dei combustibili fossili è destinata a collassare su sé stessa entro i prossimi dieci anni. Questo collasso porterà con sé l’avvento di un nuovo modello sociale ed economico, innescato e facilitato dagli Stati, ma basato soprattutto sulla cooperazione orizzontale e sulle comunità locali. Nella parte più originale e convincente del suo libro, Rifkin descrive come molto presto le grandi società petrolifere ed energetiche dovranno fare i conti con i loro “stranded asset”, letteralmente i “beni spiaggiati”: investimenti costati miliardi di dollari destinati a rimanere infruttuosi a causa della concorrenza sempre più efficace delle fonti di energia rinnovabili.
Rifkin prevede che presto le concessioni estrattive di petrolio e gas acquistate per centinaia di milioni di dollari saranno abbandonate perché infruttuose, che i gasdotti e gli oleodotti oggi in costruzione sono destinati a non essere mai attivati, mentre le nuove centrali a gas saranno già divenute anti-economiche rispetto a pannelli solari e generatori eolici quando arriverà il momento di metterle in funzione. I mercati azionari internazionali starebbero già reagendo a questo pericolo imminente. «Negli ultimi anni», spiega Rifkin, «11 mila miliardi di dollari sono stati disinvestiti dal settore, è la più grande fuga di massa da un settore economico della storia». È questa la bolla a cui Rifkin si riferisce, destinata a scoppiare generando cambiamenti sismici in tutta l’economia mondiale.
Il problema, al momento, è che questa grande massa di capitali fuggiti dall’industria dei combustibili fossili non ha ancora una via di sbocco. Non esistono grandi progetti di riconversione alle energie rinnovabili pronti a essere messi in moto non appena arriveranno i soldi per finanziarli. «Chiedete a un sindaco di una delle 9 mila città che hanno aderito agli accordi sul clima di Parigi», dice Rifkin con un sorriso sardonico. «Vi farà vedere una decina di autobus elettrici e una quindicina di edifici a impatto zero». È qui che entrano in gioco i gruppi di individui e le comunità locali. Secondo Rifkin, il cosiddetto “Green New Deal” sarà un fenomeno decentralizzato. Non saranno gli Stati e i governi a creare giganteschi conglomerati pubblici incaricati di gestire la costruzione di infrastrutture miliardarie. Saranno invece cooperative di cittadini, amministrazioni locali e piccole comunità a farsi carico di questo compito, sfruttando – un pezzetto per volta – l’enorme massa di capitali liberati dai disinvestimenti nell’industria fossile. «La soluzione sono le cooperative, l’azione diffusa dal basso», sostiene Rifkin. «Se sei una grande società verticale, come fai a installare un pannello solare sopra ogni tetto? Il sole e il vento sono fonti di energia distribuite, devi raccoglierle un poco per volta e quindi condividerle collettivamente».
Per essere un libro sul cambiamento climatico, Un Green New Deal Globale parla poco dell’attuale crisi climatica. I dati principali e le più fosche previsioni sul futuro sono elencati rapidamente nelle pagine dell’introduzione. Dal primo capitolo, invece, Rifkin inizia a occuparsi di quello che gli interessa veramente: dipingere un grande affresco immaginifico su come questo “Green New Deal” mondiale si svilupperà nei prossimi decenni. Leggendo il suo libro e ascoltandolo argomentare, Rifkin dà l’impressione di parlare di qualcosa che considera sicuro, inesorabile: degli eventuali ostacoli si occupa rapidamente, oppure nemmeno li considera (in tutto il libro, per esempio, non si parla una sola volta delle proteste dei “gilet gialli”, nate dall’aumento di una tassa sui carburanti).
A Rifkin i dettagli interessano relativamente poco. Quando si tratta di spiegare come finanziare la parte statale del suo piano, per esempio, Rifkin scrive che in gran parte i soldi esistono già e quelli che mancano si potranno trovare mettendo qualche tassa in più ai supericchi e tagliando un po’ di spese militari. Anche se il libro è pieno di numeri e citazioni (le note occupano 30 pagine in fondo al volume), Rifkin non li utilizza per definire un piano concreto, un programma economico con i suoi costi, i suoi vinti e vincitori. Quello che gli interessa è dipingere un cammino che, nelle sue pagine, appare inevitabile.
Come la pochette di seta lucida infilata nel taschino della giacca, il tono profetico e la capacità di cogliere in anticipo temi e argomenti che sono o saranno al centro del dibattito politico è un marchio di fabbrica per Rifkin. Figlio di una famiglia benestante di Denver, in Colorado, che gli ha permesso di frequentare le migliori università del paese, Rifkin ebbe il suo battesimo politico alla fine degli anni Sessanta con le proteste contro la guerra del Vietnam. Il suo interesse passò presto dalla politica internazionale allo strapotere delle grandi aziende. La sua prima protesta contro l’industria petrolifera risale al 1973, quando insieme a un gruppo di attivisti gettò una serie di barili di petrolio vuoti nel porto di Boston, in ricordo delle proteste per il té dei rivoluzionari americani due secoli prima. All’epoca, più che per i danni causati dall’industria petrolifera all’ambiente, Rifkin era preoccupato dal suo potere economico. A fare da ponte verso il terreno della difesa dell’ambiente e del cambiamento climatico sarebbe stata la questione più controversa della sua carriera, che ancora gli suscita le critiche più profonde: la battaglia contro le biotecnologie.
Iniziata tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta come una lotta politica contro i laboratori che producevano armi per la guerra batteriologica, la protesta di Rifkin si trasformò presto in una guerra generalizzata contro le nuove tecnologie di manipolazione genetica. La sua campagna contro quelli che divennero noti come “Organismi Geneticamente Modificati”, o OGM, ebbe un successo travolgente e, anche se alla fine le sue richieste per un bando totale furono respinte, la sua visibilità aumentò moltissimo. Trascinato dal suo successo, Rifkin ingaggiò una sfida personale con la comunità scientifica, accusandola di essere composta da arroganti tecnocrati che pretendevano il diritto di prendere decisioni che invece avrebbero dovuto appartenere alla politica e al dibattito pubblico.
Tra i suoi libri, pochi hanno suscitato reazioni più indignate di Dall’alchimia all’Algenia, un attacco frontale alle biotecnologie, alla genetica e alla teoria dell’evoluzione di Darwin pubblicato nel 1983. La critica più feroce a questo testo fu quella del biologo di Harvard Stephen Jay Gould, che nel suo articolo “L’integrità e Mr. Rifkin” definì il libro di “un trattato di propaganda anti-intellettuale astutamente mascherato da testo accademico”. Gould accusava Rifkin di utilizzare tutti i più disonesti trucchi retorici conosciuti per dare sostanza a un attacco ingiustificato; e per farlo, sosteneva, finiva con il commettere una montagna di errori. Come quando per mettere in dubbio la teoria della selezione naturale di Darwin, Rifkin sostenne che il naturalista britannico era stato influenzato nelle sue elaborazioni teoriche dalla sua visita alle isole Galapagos, che Rifkin descrisse come un luogo selvaggio in cui condor e giaguari inseguono le loro prede o divorano carogne tra i fumi tossici dei vulcani. Gould, correttamente, ricorda che nessuno di questi animali vive alle Galapagos, un arcipelago che colpì Darwin per la ragione opposta: era un paradiso naturalmente pacifico e privo di predatori terrestri.
Lo scontro tra Rifkin e la comunità scientifica proseguì per quasi due decenni. Nel 2001 il settimanale Time dedicò alla lunghissima questione un articolo in cui Rifkin era definito “L’uomo più odiato dalla scienza”. Tra le campagne intraprese negli anni, Time ricordava il suo tentativo di bloccare la partenza di uno Space Shuttle sostenendo il rischio che un incidente facesse piovere plutonio sulla Florida. Rifkin venne descritto come «un esperto nell’arte marziale dell’attivismo», padrone di ogni sorta di tecnica, leale e sleale, e arrivato a un tale livello di successo da potersi permettere uno studio di avvocati in grado di sfornare sei cause all’anno contro grandi società, governi e laboratori di biotecnologie.
Oggi Rifkin liquida in fretta quel periodo e sostiene che adesso il suo ufficio legale si occupa di altro: l’epoca delle grandi battaglie legali è terminata. Rifkin ha siglato una specie di armistizio con la comunità scientifica e nella sua battaglia per la difesa dell’ambiente si è allineato con il consenso della maggior parte degli esperti. Anche se rimane un fermo nemico degli OGM, nonostante le sue argomentazioni sulla loro pericolosità si siano dimostrate infondate, il tema non è più al centro dei suoi interessi. E quella con gli scienziati non è l’unica tregua che Rifkin ha stipulato. L’attivista anti-compagnie petrolifere pronto a fare causa al governo statunitense sembra essere arrivato a un qualche tipo accordo anche con l’establishment politico ed economico. Lo si vede per esempio nel suo ambiguo rapporto con il capitalismo.
Rifkin si è spesso occupato in passato della fine del lavoro manuale, sostituito da un grado sempre più alto di automatizzazione. Ne parlò la prima volta nel 1995, in uno dei suoi libri di maggior successo – La fine del lavoro – in cui ipotizzava un mondo utopico, post-capitalista e post-scarsità non così diverso da quello immaginato da Karl Marx. Oggi gli stessi argomenti sono molto frequenti nel dibattito che si svolge nelle università e sulle pagine dei principali quotidiani internazionali, in cui si affrontano catastrofisti e teorici dell’avvento di un “comunismo automatizzato di lusso“. Ma come ha scritto Howard A. Doughty nella recensione di uno dei suoi numerosi libri sul tema, per quanto Rifkin utilizzi argomenti che appaiono simili a quelli dei teorici di sinistra più radicali, è difficile togliersi la sensazione che se Evo Morales e Alexis Tsipras sono da una parte della barricata, il business di Rifkin è dispensare consigli all’altro lato.
È una sensazione difficile da togliersi anche oggi, in cui più che di automatizzazione Rifkin preferisce parlare di clima. «Per tutta la vita ho criticato vari aspetti del capitalismo di mercato», scrive Rifkin nel suo ultimo libro. «Questa volta, tuttavia, e con questo sconvolgimento, il mercato è un angelo custode che vigila sull’umanità». Mentre Greta Thunberg utilizza i forum mondiali in cui viene ospitata per criticare ferocemente l’attuale classe dirigente, Rifkin parla in modo entusiasta degli impegni presi dagli Stati per combattere il cambiamento climatico. Quella che per molti è l’anonima e poco convincente agenda climatica e sociale adottata dall’Unione Europea, “Europa 2020”, per Rifkin è uno «storico cambio di paradigma». Sembra inevitabile, visto che in quanto consulente della Commissione Europea ha avuto un ruolo importante nell’ispirarla. Nella recensione del libro per il New York Times, Jeff Goodell sembra cogliere la stessa trasformazione quando descrive Rifkin come troppo impegnato a «baloccarsi con le tecnologie e le teorie economiche» per occuparsi di aspetti centrali della crisi climatica, come la giustizia sociale o l’oltraggio morale.
Rifkin si difende sostenendo di non essere un ingenuo ottimista. «Vado a letto disperato, ma mi sveglio ottimista», racconta mentre spiega che ci saranno grandi difficoltà nel mettere in atto il percorso che delinea, ma che questi ostacoli potranno essere superati con la mobilitazione dal basso. Se da un lato Rifkin sembra impegnato soprattutto a trovare argomenti per farsi ascoltare dai potenti, dall’altro non ha ancora perso la sua vena originale di attivista che punta prima di tutto a mobilitare le persone in nome di una causa. Le pagine migliori del suo libro sono probabilmente quelle in cui fa appello ai giovani e in cui chiede loro di impegnarsi nella politica e nella vita delle loro comunità, celebrando i risultati di Alexandria Ocasio-Cortez e Greta Thunberg.
Rifkin, insomma, è una figura strana: un profeta di successo che invece di essere riscoperto tardivamente, quando le sue previsioni inascoltate si rivelano corrette, ha ottenuto in vita l’attenzione dei potenti, anche se probabilmente per farlo ha dovuto pagare un prezzo, cioè ritagliare il suo messaggio in modo da tenere fuori tutto ciò che i potenti non vogliono sentirsi dire. Nonostante questo – e gli errori e le critiche – Rifkin rimane un autore da centinaia di migliaia di copie e un simbolo dell’attivismo per milioni di persone. Questo è forse il suo più grande successo e lui, in qualche modo, sembra saperlo. Quando gli chiediamo qual è il suo più grande risultato dopo mezzo secolo di attivismo, risponde di getto: «Hanging on there». Resistere ancora. Sembra difficile dargli torto.