Quanto conterà Facebook nelle prossime elezioni americane
Le inserzioni a pagamento di Trump sono tante e più efficaci rispetto a quelle dei Democratici, ma forse ci diamo troppa importanza
Una decina di giorni fa, la pagina Facebook della senatrice Elizabeth Warren, candidata alle primarie Democratiche per le elezioni presidenziali statunitensi, ha pubblicato un post insolito: cominciava dicendo che Mark Zuckerberg, fondatore e CEO del social network più diffuso al mondo, aveva appoggiato pubblicamente il presidente Donald Trump. «Probabilmente sei scioccato, e ti stai chiedendo come possa essere vero. Beh, non lo è», continuava il post, che il comitato elettorale di Warren ha pubblicato come annuncio pubblicitario sponsorizzato.
Con quel messaggio, Warren voleva criticare Facebook per la recente decisione di permettere la pubblicazione di messaggi politici che contengono cose false: una linea aziendale molto criticata e che è stata giustificata con la libertà di espressione, ma che secondo Warren è un semplice cavillo che permette a Facebook di continuare a ricevere i soldi dal comitato elettorale di Trump.
We intentionally made a Facebook ad with false claims and submitted it to Facebook’s ad platform to see if it’d be approved. It got approved quickly and the ad is now running on Facebook. Take a look: pic.twitter.com/7NQyThWHgO
— Elizabeth Warren (@ewarren) October 12, 2019
Dell’impatto di Facebook sulle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 si è scritto moltissimo, così come delle interferenze russe sulla campagna elettorale, che si svolsero in buona parte attraverso il social network. Uno degli aspetti più raccontati fu il grosso squilibrio tra gli investimenti fatti da Trump rispetto alla sua avversaria Hillary Clinton per quanto riguarda le inserzioni a pagamento: 44 milioni di dollari contro 28 milioni. Si parlò a lungo di questo dato, con alcuni osservatori che attribuirono a Facebook un ruolo determinante nella vittoria di Trump.
Il New York Times ha fatto un punto su quale sia la situazione quattro anni dopo, concludendo che le cose non sembrano granché cambiate.
Che le campagne elettorali siano combattute in larga parte online non è certo una novità, ma soltanto un partito politico sembra aver ricevuto il messaggio. Mentre il comitato elettorale di Trump ha messo le operazioni digitali al centro delle attività per la sua rielezione, i Democratici faticano a imparare le lezioni della campagna del 2016 e ad adattarsi a un panorama politico costruito intorno ai social media.
Secondo una serie di esperti indipendenti e legati ai due principali partiti contattati dal New York Times, Trump dominerà la campagna elettorale su Facebook nel 2020, e lo farà con un distacco non attribuibile unicamente al fatto che è il presidente uscente, e quindi con maggiori visibilità e possibilità economiche rispetto agli avversari. Per farsi un’idea sulla priorità assegnata ai social media da Trump, l’uomo che nel 2016 ne dirigeva le operazioni digitali è stato promosso a capo dell’intera campagna elettorale.
Al centro degli sforzi del comitato di Trump, spiega il New York Times, c’è «la vendita del proprio prodotto – Trump – fabbricando in serie pubblicità personalizzate, testando aggressivamente la risposta sui contenuti e raccogliendo dati in modo da rendere ancora più precisi i messaggi successivi». In particolare, il comitato elettorale di Trump insiste su messaggi concreti e rivolti specificamente alla propria base elettorale, invitandola costantemente a mobilitarsi, che sia per fare una donazione o per andare fisicamente al seggio a votare. I Democratici al contrario sono più inclini a messaggi trasversali e pacifici, rivolti a un pubblico ampio, che funzionano bene in televisione ma che non sono molto efficaci sui social network, ha spiegato Elizabeth Spiers, a capo di un’agenzia di comunicazione politica digitale.
Facebook è ancora il social network più utilizzato del mondo, ma negli ultimi anni i suoi utenti sono cambiati molto dal punto di vista demografico: i giovani lo hanno progressivamente spopolato, e gli adolescenti in molti casi nemmeno prendono in considerazione l’idea di iscriversi. Le persone sopra i 65 anni sono la fascia demografica in maggiore aumento su Facebook negli Stati Uniti, secondo l’istituto Gallup, una fascia elettorale in cui Trump va particolarmente bene.
In generale, poi, i toni aggressivi e sensazionalistici da sempre usati da Trump nella sua comunicazione politica si adattano meglio a Facebook, un social network che premia con visibilità i contenuti che generano reazioni, commenti e condivisioni, anche se queste sono negative o divisive. I contenuti dei Democratici, in confronto, tendono a essere meno commentati, e per questo funzionano meno. «C’è una tendenza algoritmica che premia l’odio, la negatività e la rabbia» ha detto Shomik Dutta, un consulente politico specializzato nel digitale.
Nonostante Facebook abbia preso molte precauzioni dopo lo scandalo del Russiagate per provare a evitare nuove interferenze straniere, le sue stesse regole che permettono le notizie false nei post dei politici inquinano il dibattito pubblico, secondo molti. Trump per esempio ha pubblicato di recente diversi post che accusavano il suo avversario Joe Biden di aver offerto un miliardo di dollari di aiuti all’Ucraina in cambio della sospensione di un’indagine giudiziaria sulla società energetica per cui lavorava suo figlio Hunter. È un’accusa dimostrata come falsa da varie inchieste giornalistiche, tanto che il network televisivo CNN si era rifiutato di trasmettere lo spot. Facebook però ha respinto la richiesta di Biden di rimuovere il contenuto. Il video ha almeno 5 milioni di visualizzazioni.
Nel 2016, un documento interno di Facebook aveva notato come, al di là della differenza di investimenti, i contenuti pubblicati dal comitato elettorale di Trump sul social network erano «molto più complessi», tra le altre cose perché erano rivolti in media a 2,5 milioni di utenti ciascuno, contro gli 8 milioni di quelli di Clinton.
Gli inserzionisti possono decidere molto precisamente a chi mostrare i propri contenuti, scegliendo tra moltissimi parametri, dalla fascia d’età al luogo di residenza agli interessi culturali. Il comitato elettorale di Trump produsse 5,9 milioni di contenuti singoli, generati grazie a migliaia di variazioni sulle stesse basi, dai colori alle parole, tenendo traccia dei risultati ottenuti da ciascuno in modo da migliorare sempre di più l’efficacia dei messaggi. Il comitato di Clinton, per contro, produsse 66mila contenuti singoli.
Tradizionalmente, il primato per quanto riguarda l’attenzione alle nuove forme di comunicazione negli Stati Uniti apparteneva ai Democratici: molto nota è per esempio l’importanza avuta da internet e dai social network nelle vincenti campagne elettorali di Barack Obama nel 2008 e nel 2012. Con Trump, le cose si sono ribaltate, e ora sono i Repubblicani a essere più avanti: Zac Moffatt, capo di un’agenzia di consulenza politica Repubblicana, ha spiegato al New York Times che questo dipende dal fatto che quando Trump mise in piedi il suo comitato elettorale, nel 2015, i consulenti politici più importanti scelsero di lavorare per i candidati “istituzionali”. Quelli rimasti erano “outsider” che in molti casi avevano idee radicali sull’utilizzo dei social network nelle campagne politiche: idee che poi hanno pagato.
Le cose non sembrano cambiate molto in vista della campagna elettorale per le presidenziali, che entrerà nel vivo tra pochi mesi ma che di fatto è iniziata da tempo. Nella settimana in cui è stata annunciata la procedura di impeachment contro Trump, per esempio, il comitato elettorale del presidente ha speso 2,3 milioni di dollari in pubblicità su Facebook e Google, cioè circa la metà di quanto hanno speso i principali candidati Democratici dall’inizio delle loro campagne elettorali. Sono state notate anche ardite sperimentazioni nell’e-commerce: sul sito di Trump sono disponibili magliette e gadget con slogan nati poche ore prima, pronti per essere stampati e spediti a casa degli acquirenti, un sistema molto efficace per finanziare la campagna elettorale.
I 19 candidati Democratici hanno speso finora complessivamente 32 milioni di dollari in pubblicità su Facebook, più di quelli spesi per pubblicità televisive. Per la prima volta, Facebook sta diffondendo i dati precisi sugli importi investiti, e anche sulle fasce demografiche privilegiate da ciascun candidato. Biden, per esempio, ha investito soltanto il 15 per cento per pubblicità mostrate a utenti sotto ai 25 anni. Il suo sfidante Bernie Sanders, al contrario, circa tre quarti del suo budget per gli utenti sotto ai 45 anni.
Secondo Laura Edelson, ricercatrice della New York University che si occupa di campagne politiche online, ha detto che l’approccio del comitato di Trump, paragonato a quello dei Democratici, «è come una macchina da corsa che gareggia con un Maggiolone Volkswagen». Alcuni funzionari del partito specializzati nelle operazioni digitali hanno dato la colpa a una classe dirigente anziana e troppo timida rispetto ai tentativi di inserzioni spregiudicate che imitino quelle dei Repubblicani.
Nelle ultime settimane, le pubblicità di Biden sui social network sono diminuite: il suo comitato elettorale ha deciso di tagliare i fondi destinati alle inserzioni online, tanto che – da candidato favorito e con maggiori risorse economiche – è arrivato a essere il sesto tra i candidati Democratici in questa categoria di spese. Il comitato di Biden ha preferito destinare quei fondi alle pubblicità televisive. Qualcuno ha commentato con sorpresa questo dato, ma il sondaggista e analista politico Nate Silver, tra i principali esperti di campagne elettorali americane al mondo, ha scritto che non è per niente sorprendente. Il problema, dice Silver, è che spesso si sovrastima l’efficacia delle inserzioni politiche online.
It's not baffling at all! It has an incredibly simple explanation, in fact, although one that implicitly undercuts the article's thesis:
There's nothing magic about digital ad spending. https://t.co/U5ebkM1Kt7
— Nate Silver (@NateSilver538) October 20, 2019
Silver ha di fatto criticato l’impostazione dell’articolo del New York Times, che secondo lui fornisce una visione un po’ mistica dell’efficacia delle inserzioni politiche, soprattutto per quanto riguarda le capacità dei comitati elettorali di sviluppare messaggi personalizzati sulla base dei dati raccolti. Silver contesta la considerazione che le inserzioni su Facebook di Trump abbiano avuto un grande impatto, aggiungendo che sarebbe ingenuo pensare che i consulenti politici dei Democratici siano «tutti degli idioti» perché non fanno la stessa cosa. L’analista Matt Grossman ha sostenuto che addirittura le pubblicità su Facebook servano soprattutto a raccogliere donazioni, più che a convincere gli elettori: e raccolgono più soldi di quanto costano, quindi sono convenienti.
Trump spent $44 million on Facebook ads (and Clinton spent $28 million) in 2016. That's small in the context of a presidential campaign! By comparison, Trump received $2.6 *billion* worth of earned online media, and about $5b worth of earned media overall. https://t.co/Xtteo8cCRx
— Nate Silver (@NateSilver538) October 20, 2019
Secondo Silver, dal punto di vista delle campagne elettorali Facebook è influente in quanto piattaforma su cui la gente si informa, molto più di quanto lo sia come sito sul quale compaiono inserzioni pubblicitarie politiche. In occasione delle presidenziali del 2016, l’agenzia mediaQuant provò a conteggiare quanto spazio mediatico gratuito avesse ottenuto Trump. Calcolò quanto sarebbero costate le inserzioni sui media che parlarono di Trump, e stabilì che aveva ottenuto circa 5 miliardi di dollari di spazi gratuiti, di cui 2,6 miliardi online. Una cifra molto più alta rispetto ai 44 milioni spesi in inserzioni su Facebook.