La schiavitù in Mauritania
Abolita, criminalizzata e negata dal governo è invece una pratica tuttora diffusa e tollerata: e il paese ha appena ottenuto un seggio nel Consiglio dell’ONU per i diritti umani
Giovedì, l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha eletto quattordici nuovi membri che comporranno per un periodo di tre anni, a partire da gennaio 2020, il Consiglio dei diritti umani (un organismo politico con un mandato molto esteso in materia di promozione e difesa dei diritti umani nel mondo). Gli stati eletti sono Armenia, Germania, Indonesia, Isole Marshall, Namibia, Paesi Bassi, Polonia, Corea, Sudan, Venezuela, Libia e Mauritania. Come già accaduto in passato, la presenza tra i membri del consiglio di alcuni paesi non democratici e al cui interno i diritti umani vengono palesemente violati ha attirato numerose critiche e messo in dubbio la credibilità dell’organismo stesso.
Le ultime e maggiori denunce riguardano il Venezuela, dove il regime di Nicolás Maduro è da molti considerato autoritario, la Libia, per i campi di detenzione e tortura di migranti, e la Mauritania, dove la schiavitù è stata ufficialmente abolita nel 1981 ma non è mai veramente scomparsa.
La Mauritania è un paese dell’Africa nord-occidentale, in gran parte occupato dal deserto. A partire dall’indipendenza (era una colonia francese fino al 1960) nel paese si sono susseguiti numerosi colpi di stato, l’ultimo dei quali, nel 2008, ha portato al potere l’ex generale dell’esercito Mohamed Ould Abdel Aziz che, per due volte, nel 2009 e nel 2014, è stato eletto presidente. Le presidenziali dello scorso giugno sono state vinte da Mohamed Ould Ghazouani, esponente del partito al governo, ex ministro della Difesa e definito dal molti il “delfino” di Abdel Aziz. Dopo i risultati ci sono state manifestazioni e proteste di piazza, per denunciare brogli e irregolarità durante lo scrutinio, a cui il presidente uscente ha risposto con centinaia di arresti e il blocco di internet in tutto il paese. Mohamed Ould Ghazouani, così come Abdel Aziz, appartengono alla cosiddetta élite arabo-berbera.
La Mauritania rappresenta una specie di ponte tra il Maghreb arabo del Nord Africa e l’Africa sub-sahariana. Il potere è distribuito in un rigido sistema di caste in cui la popolazione di origine arabo-berbera (che è la minoranza) occupa il vertice della piramide sociale e gerarchica e i mauritani neri (divisi in diverse etnie) occupano invece i gradini più bassi: sono discriminati, esclusi, sottorappresentati, faticano ad accedere all’istruzione e svolgono mestieri che gli arabi-berberi considerano degradanti e sporchi. Vengono spesso descritti come liberti contemporanei, ma parte di loro continua ad essere esplicitamente sfruttata attraverso un vero e proprio sistema di schiavitù, prassi tollerata sia a livello religioso che politico, nonostante il governo mauritano insista nel dire che il fenomeno è scomparso, elogiandosi per averlo sradicato.
Non ci sono statistiche su quante persone siano schiavizzate in Mauritania. Ma secondo il Global Slavery Index del 2018, il rapporto della ONG australiana Walk Free che misura le forme contemporanee di schiavismo come lavoro e matrimoni forzati, la Mauritania è il sesto paese al mondo per percentuale di schiavi sul totale della popolazione: si stima che 95 mila persone, su 4 milioni, vivano in schiavitù.
Gli schiavi appartengono ai gruppi afro-mauritani e sono soprattutto haratin, etnia autoctona che costituisce circa il 40 per cento della popolazione. Lo status di schiavo viene tramandato da madre in figlio: gli schiavi sono proprietà dei loro padroni, vivono sotto il loro diretto controllo, possono essere prestati, dati in dono o ereditati, e non ricevono alcuna paga per il loro lavoro. Gli schiavi allevano il bestiame o fanno i contadini nelle terre dei loro padroni, mentre le donne sono principalmente impegnate nel lavoro domestico e sono spesso sessualmente abusate e violentate perché restino incinte e possa nascere così un altro schiavo. I figli delle schiave sono infatti schiavi a loro volta, non possono ricevere alcuna istruzione e cominciano a lavorare fin da piccolissimi.
Nel 2018, il fotografo Seif Kousmate intervistò per un mese schiavi ed ex schiavi della Mauritania. Durante questo periodo fu arrestato e la polizia confiscò il suo cellulare, il suo computer e le sue sim. Kousmate è comunque riuscito a pubblicare la sua inchiesta sul Guardian. Tra le altre cose, ha raccontato la storia di Fatimatou e di sua figlia Mbarka, schiave di una famiglia nella regione di Aleg, a duecentocinquanta chilometri dalla capitale, Nouakchott. «Mi chiamavano “Fatma la serva”: curavo il bestiame, preparavo da mangiare e portavo l’acqua dal pozzo. Ho perso due figli perché mi hanno proibito di occuparmi di loro. Sono stata costretta a riprendere il lavoro subito dopo il parto». Fatimatou è stata liberata nei primi anni Novanta dall’organizzazione SOS Slaves e oggi vive con la sua famiglia vicino a Nouakchott.
Di fatto, la schiavitù in Mauritania è stata abolita nel 1981 (è stato comunque l’ultimo paese al mondo ad averlo fatto), è stata criminalizzata nel 2007 e nel 2015 è stata approvata una legge anti-schiavitù che facilita le denunce e istituisce un tribunale speciale per indagare sui crimini di schiavitù. Ma solo in teoria. Nonostante le norme approvate, molte organizzazioni per i diritti umani denunciano infatti da anni la persistenza della schiavitù nel paese, il disimpegno del governo nel combatterla e l’inesistenza di condanne definitive per coloro che vengono accusati di questo reato. Anzi si hanno continue notizie di arresti e procedimenti giudiziari contro gli attivisti delle organizzazioni anti-schiavitù.
Nel marzo del 2018 in un rapporto presentato a Dakar, Amnesty International aveva denunciato che i difensori dei diritti umani, che quotidianamente combattono la schiavitù e le discriminazioni, vivono in perenne pericolo: «Difensori dei diritti umani, blogger, attivisti impegnati contro la schiavitù e altri oppositori del governo hanno subìto intimidazioni, aggressioni e procedimenti giudiziari a causa delle loro attività pacifiche. I diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica sono stati limitati. È stato negato l’accesso al paese agli attivisti per i diritti umani provenienti dall’estero. Tortura e altri maltrattamenti in custodia sono stati la norma. I gruppi etnici haratin e afromauritani sono stati sistematicamente discriminati. È proseguita la pratica della schiavitù».
Alle ultime elezioni presidenziali si è candidato anche Biram Dah Abeid, militante dell’IRA (Iniziativa per la rinascita del movimento abolizionista), discendente di schiavi più volte incarcerato per il suo attivismo politico. Nel 2018, durante la Conferenza sulla lotta allo schiavismo organizzata dalla Fondazione Reuters a Bruxelles, aveva dichiarato che in Mauritania «la dignità dell’essere umano è considerata un valore impuro e un attentato all’identità culturale e religiosa, al contrario di schiavismo, inferiorità razziale e disuguaglianza fra i sessi». Aveva anche parlato della complicità di molti paesi dell’Europa e del mondo nel voler continuare a ignorare le condizioni in cui vivono molte persone del suo paese, un paese ricco di risorse minerarie e al centro di molti interessi economici stranieri.