Cosa sta succedendo in Libano
Una tassa sulle chiamate con WhatsApp annunciata dal governo ha provocato enormi proteste in tutto il paese, e contro tutte le forze politiche libanesi
L’annuncio di una nuova tassa sulle chiamate fatte con WhatsApp e altri servizi simili ha fatto nascere le più partecipate e violente proteste della storia recente del Libano, che in pochi giorni sono arrivate a far traballare il governo di unità nazionale del primo ministro Saad Hariri.
Venerdì ci sono state manifestazioni a Beirut e Tripoli, le più importanti città del paese, e nonostante fosse tutto cominciato in modo pacifico la giornata è finita con violenti scontri tra manifestanti e polizia. Ci sono stati danneggiamenti e feriti, e a Tripoli una persona è morta dopo che la guardia personale di un politico aveva iniziato a sparare contro i manifestanti. La legge sulle chiamate con WhatsApp è stata nel frattempo ritirata, ma sabato le manifestazioni sono ricominciate per il terzo giorno consecutivo e Hariri ha minacciato di dimettersi se entro tre giorni i suoi alleati di governo non approveranno importanti riforme economiche.
«Ai libanesi non sono mancati motivi per protestare, negli ultimi anni», ha scritto la corrispondente del New York Times da Beirut: «l’economia è sterile e costringe molti giovani a emigrare in cerca di lavoro, le discariche e le spiagge sono stracolme di spazzatura e il governo è da tempo incapace di approvare riforme. Ma l’ultimo mese ha portato più delusioni del solito: ci sono stati problemi di valuta, una crisi del grano e del gas e, questa settimana, il governo si è dimostrato così impreparato da aver dovuto chiedere aiuto ai paesi vicini per spegnere una serie di grossi incendi boschivi».
Le proteste sono iniziate giovedì sera, dopo che il governo aveva annunciato di voler introdurre una tassa sulle telefonate fatte con WhatsApp, Facebook Messenger e FaceTime, un tentativo di raccogliere nuovi fondi in mezzo a una grave crisi fiscale. Il Libano, racconta sempre il New York Times, è già uno dei paesi della regione con i più alti costi per i servizi telefonici – le due compagnie telefoniche del paese sono pubbliche – e la notizia non è stata accolta bene dalla popolazione. In poche ore sono cominciate piccole proteste nel centro di Beirut. Secondo il Washington Post, la partecipazione alle manifestazioni è cresciuta improvvisamente quando ha cominciato a circolare un video che mostrava la guardia personale di un ministro sparare in aria per allontanare dei manifestanti.
Venerdì le proteste sono ricominciate, con la partecipazione di migliaia di persone: i giornali scrivono che c’erano anche famiglie con bambini e gente di ogni schieramento politico, in un clima molto pacifico. Fino a sera le manifestazioni sono continuate senza incidenti gravi, ma alla fine sono cominciati scontri piuttosto violenti con la polizia, con negozi danneggiati, barricate e fuochi accesi nelle strade. In serata, in un discorso alla nazione, Hariri ha accusato i partiti che sostengono il suo governo di aver bloccato le riforme che servono al paese e ha minacciato di dimettersi se entro tre giorni non gli fossero arrivate proposte concrete di misure da adottare per uscire dalla crisi.
Durante le proteste, in molti hanno chiesto le dimissioni del governo, accusando Hariri e altri politici di corruzione e di essere i responsabili delle gravi disfunzioni del paese. A differenza di quanto successo in passato, ha scritto il New York Times, le proteste hanno coinvolto tutti: «nei quartieri sunniti, i manifestanti hanno stracciato i poster di Hariri, il più potente sunnita del paese. Nelle zone a maggioranza sciita del sud del Libano ci sono stati cori contro Nabih Berri, il presidente del parlamento, la cui popolarità è solitamente altissima. Nelle zone controllate da Hezbollah [gruppo radicale sciita presente soprattutto nel sud del Libano] ci sono stati attacchi contro gli uffici dei parlamentari di Hezbollah».
Hariri è stato confermato primo ministro lo scorso gennaio, a nove mesi di distanza dalle elezioni, dopo lunghe trattative. In Libano la formazione di un governo è spesso un’operazione lunga e complicata, non solo a causa dell’esito delle elezioni ma per il sistema politico, che cerca di mantenere un difficoltoso equilibrio tra le principali religioni ed etnie del paese. Si poggia infatti su due accordi: uno prevede che i seggi del Parlamento siano equamente divisi tra musulmani (circa il 45 per cento della popolazione) e cristiani (il 55 per cento); l’altro che il presidente debba essere sempre un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del Parlamento un musulmano sciita.
Per questo Hariri, che è sunnita, ha ottenuto nuovamente la carica di primo ministro nonostante il suo partito avesse perso moltissimi seggi alle precedenti elezioni.
Il suo governo, che era partito sapendo di dover affrontare una situazione economica molto difficile e con uno dei debiti pubblici più alti del mondo, è stato comunque fallimentare e incapace di trovare sostegno per approvare le riforme che tutti ritengono necessarie. Nel suo discorso di venerdì sera, Hariri ha detto che «le riforme non significano necessariamente nuove tasse» e ha chiesto che entro lunedì tutte le forze politiche si accordino per sostenere le riforme promesse dal governo. Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha detto sabato che il messaggio dei manifestanti era «arrivato chiaro» ma ha respinto le richieste di dimissioni di Hariri, spiegando che formare un nuovo governo potrebbe essere molto complicato e potrebbe bloccare nuovamente la politica per mesi.