A che punto siamo con l’impeachment
I Democratici hanno iniziato ad ascoltare le testimonianze di diversi funzionari coinvolti nella campagna contro l'Ucraina, e puntano a incriminare Trump entro la fine dell'anno
La procedura di impeachment contro il presidente americano Donald Trump, avviata tre settimane fa dai Democratici per indagare le presunte pressioni fatte da Trump a governi stranieri per danneggiare alcuni suoi avversari politici, sta producendo nuovi sviluppi praticamente ogni giorno, tanto che gli stessi giornalisti americani fanno fatica a seguirla.
Ieri c’è stata la testimonianza di Gordon Sondland, attuale ambasciatore degli Stati Uniti all’Unione Europea, e l’altroieri era stato il turno di Michael McKinley, ex collaboratore del Segretario di Stato Mike Pompeo. Entrambi hanno corroborato informazioni pubblicate dai giornali e aggiunto pezzi della storia, come del resto avevano già fatto altri testimoni convocati nei giorni precedenti. Sondland e McKinley sono solo gli ultimi di una serie di collaboratori o ex collaboratori della Casa Bianca sentiti ufficialmente dalla Camera, che sta conducendo l’indagine.
L’impeachment è essenzialmente un processo politico che secondo l’interpretazione più accettata dai giuristi ha come obiettivo quello di individuare eventuali abusi di potere compiuti dal presidente degli Stati Uniti. Prevede una prima fase di indagine, con testimonianze e richieste di accesso agli atti, e una seconda di dibattimento vero e proprio che si terrà al Senato. Al momento siamo ancora alla fase delle testimonianze, che dovrebbe durare diverse settimane: gli osservatori si aspettano un primo voto formale entro dicembre, mentre il processo vero e proprio dovrebbe tenersi nei primi mesi dell’anno prossimo, peraltro in concomitanza con le primarie Democratiche per scegliere l’avversario di Trump alle elezioni del 2020.
Il quadro sembra comunque piuttosto chiaro: nei primi mesi del 2019 Trump e alcuni suoi collaboratori fecero diverse pressioni per spingere il governo ucraino e il suo neoeletto presidente Volodymir Zelensky a fornire materiale imbarazzante su Joe Biden – ex vicepresidente e possibile avversario di Trump nel 2020 – o il Partito Democratico. Il figlio di Biden, Hunter, era membro del consiglio di amministrazione di una società energetica ucraina, e una teoria complottista molto popolare nella destra americana sostiene che Biden avesse fatto licenziare un procuratore che stava per indagare sugli affari della società (questa tesi è stata smentita più volte anche da funzionari del governo americano). Gli strumenti usati da Trump sono stati diversi, ma il più rilevante è stata la minaccia di bloccare un pacchetto di aiuti da circa 400 milioni di dollari al governo ucraino.
Al momento i Democratici stanno cercando di dimostrare il legame fra alcune richieste di Trump all’Ucraina e il tornaconto personale che ne avrebbe ricavato, e stanno ottenendo alcuni risultati concreti. Ieri Sondland è stato ascoltato per circa nove ore, e fra le altre cose ha spiegato che Trump da diversi mesi aveva incaricato il suo avvocato personale, Rudy Giuliani, di occuparsi dei rapporti con l’Ucraina: cosa che fa pensare che Trump la considerasse una questione legata ai suoi interessi politici più che alle strategie di politica estera degli Stati Uniti. Sondland ha spiegato di essersi accorto «con molto ritardo» che l’obiettivo di Giuliani «poteva essere quello di costringere gli ucraini ad aprire un’inchiesta su Biden o suo figlio, e coinvolgere l’Ucraina nella campagna per le presidenziali del 2020».
Alcuni collaboratori di Trump stanno inoltre rendendo il compito della Camera piuttosto facile. In una conferenza stampa tenuta ieri, il capo dello staff della Casa Bianca Mick Mulvaney ha ammesso esplicitamente che gli aiuti economici all’Ucraina erano stati trattenuti, fra le altre ragioni, affinché l’Ucraina aprissero un’indagine sulla presunta interferenza di funzionari ucraini nelle elezioni presidenziali del 2016.
È un’altra teoria complottista che va molto di moda nella destra americana, secondo cui gli ucraini sarebbero intervenuti nella campagna elettorale per aiutare i Democratici. Sarebbero stati loro, per esempio, a far trapelare alla stampa le mail rubate a Hillary Clinton a diversi funzionari del partito – uno dei più grossi scandali della campagna del 2016 – per far ricadere la colpa sul governo russo e quindi di riflesso su Trump e i Repubblicani. La teoria è talmente strampalata che è stata smentita più volte dai giornali e anche dagli stessi funzionari della Casa Bianca che si occupano di Ucraina, ma Trump ha dimostrato di crederci lo stesso.
La cosa interessante, come ha fatto notare il New York Times, è che Mulvaney ha detto davanti a decine di giornalisti quello che i Democratici speravano che riferisse nel corso di una testimonianza. Trump, in sostanza, ha usato la potenza militare ed economica degli Stati Uniti per cercare di ottenere elementi potenzialmente imbarazzanti su un suo avversario politico.
Um, I know there's a lot of focus on Doral right now, but Mick Mulvaney just straight-up admitted that there was a quid pro quo re: withholding Ukraine aid.
Can we get more Mulvaney pressers, please? 🤣#thursdaythoughts #pelosiownstrump #EmolumentsClause pic.twitter.com/z8zvEj2SXo— Holly Figueroa O'Reilly (@AynRandPaulRyan) October 17, 2019
Maggie Haberman, rispettata giornalista del New York Times che segue la Casa Bianca, ha ipotizzato che la strategia di Mulvaney sia stata quella di «ridurre la pressione dicendo le cose ad alta voce», cercando peraltro di distrarre i giornalisti dalla testimonianza di Sondland. La Casa Bianca, ed è un altro tema rilevante, non ha moltissimi strumenti per impedire ai propri funzionari di essere ascoltati dalla Camera, nonostante abbia ordinato ai propri dipendenti di non collaborare con la procedura: negli anni scorsi proprio i Repubblicani avevano garantito poteri più ampi ai deputati, che di fatto consentono loro di emanare convocazioni legalmente vincolanti. È il motivo per cui i Democratici non hanno ancora tenuto un solo voto sull’impeachment, mentre in passato la Camera aveva dovuto chiedere con una esplicita votazione che gli venissero garantiti alcuni poteri: non ce n’è più bisogno.
Nelle testimonianze, inoltre, le persone convocate parlano sotto giuramento e sono tenute a dire la verità, cosa che ha spinto diversi funzionari che lavorano ancora oggi nell’amministrazione ad essere più trasparenti di quanto probabilmente sperava la Casa Bianca. Qualche giorno fa George Kent, il funzionario del Dipartimento di Stato a capo di quelli che si occupano di Ucraina, ha raccontato che la Casa Bianca lo aveva praticamente escluso dai colloqui fra Trump e Zelensky, e che gli aveva chiesto di tenere «un profilo basso» proprio sul tema di cui si occupava maggiormente.
Diversi collaboratori di Trump stanno invece facendo grande resistenza e per il momento non hanno deciso di rispondere alla convocazione della Camera: su tutti ci sono Rudy Giuliani e Mike Pompeo, forse i due collaboratori di Trump più alti in grado coinvolti in questa storia. Ma nei prossimi giorni i Democratici potrebbero decidere di avere elementi sufficienti per articolare le accuse, e fare a meno di avviare una battaglia legale per obbligarli a presentarsi.
Nancy Pelosi, speaker della Camera e di fatto leader dei Democratici, ha lasciato intendere più volte che la Camera dovrebbe concludere le proprie indagini entro il 2019. A quel punto dovrà decidere con un voto a maggioranza semplice se incriminare formalmente Trump, e con quali accuse: a meno di grosse sorprese Trump sarà ufficialmente oggetto di impeachment – al momento soltanto 8 deputati Democratici sono contrari alla procedura – e a quel punto entrerà in gioco il Senato.
Secondo la procedura prevista dalla legge, verrà istituito un processo in cui i senatori avranno il ruolo di giudici e ascolteranno la versione dei fatti delle parti coinvolte – la Camera, cioè l’accusa, e gli avvocati del presidente, cioè la difesa – supervisionati dal giudice a capo della Corte Suprema. Non esistono regole predefinite per un processo del genere: le decide il Senato con una risoluzione prima di ascoltare le parti. Alla fine del processo, l’aula tiene un voto per decidere se rimuovere o meno il presidente: per farlo decadere dal suo incarico serve la maggioranza di due terzi dei senatori, cioè 67 senatori. Al momento i Repubblicani controllano 53 seggi più il presidente dell’aula, cioè il vicepresidente Mike Pence, mentre i Democratici si fermano a 45 più 2 senatori indipendenti che votano spesso assieme al partito (uno dei due è Bernie Sanders).
Tralasciando il fatto che l’eventualità di rimuovere Trump è davvero remota – servirebbe il voto favorevole di 20 senatori Repubblicani, il cui elettorato apprezza tantissimo Trump – l’ambiguità con cui la Costituzione tratta la procedura di impeachment potrebbe rendere la fase del processo tutto sommato rapida e indolore.
Sarà Mitch McConnell, capogruppo dei Repubblicani al Senato, che gestirà il processo, e ovviamente avrà tutto l’interesse a farlo durare il meno possibile. In una riunione tenuta due giorni fa con alcuni senatori Repubblicani, McConnell ha fatto capire loro che il processo potrebbe tenersi durante il periodo in cui il Congresso è chiuso per le vacanze di Natale, che iniziano il 13 dicembre.