La sentenza di condanna contro gli indipendentisti catalani, spiegata
E perché si discute di quello che ha deciso il Tribunale Supremo spagnolo, raccontato attraverso due tesi opposte
Lunedì il Tribunale Supremo spagnolo, alto tribunale con sede a Madrid con funzioni simili alla nostra Corte di Cassazione, ha diffuso la sentenza di condanna ai leader indipendentisti catalani imputati nel processo relativo ai fatti che portarono alla dichiarazione unilaterale di indipendenza della Catalogna, nell’ottobre 2017 (la spiegazione lunga dei fatti legati al processo, qui). La sentenza, che potrà essere impugnata solo di fronte al Tribunale Costituzionale spagnolo e poi eventualmente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, è stata molto commentata: è stata considerata durissima dagli ambienti indipendentisti catalani, giusta dalla grande maggioranza dei politici spagnoli e una «vergogna» dall’estrema destra rappresentata dal partito politico Vox.
Fin dall’inizio, il processo contro i leader indipendentisti catalani era stato oggetto di enormi discussioni. Molti giuristi avevano criticato l’impostazione del caso proposta della Procura (la Fiscalía), che aveva tirato in ballo uno dei reati più gravi previsti dalla Costituzione spagnola, quello di ribellione. Le polemiche sono andate avanti per mesi e sono diventate ancora più intense negli ultimi due giorni, dopo la diffusione della sentenza, che secondo il País ha chiuso «il capitolo giudiziario di una delle crisi istituzionali più gravi che ha affrontato il sistema democratico [spagnolo] istituito dalla Costituzione del 1978».
Le condanne e i punti chiavi della sentenza
I giudici del Tribunale Supremo hanno condannato per il reato di sedizione nove dei 12 imputati del processo, cioè tutti quelli che da circa due anni si trovano in prigione come misura di custodia cautelare.
La sedizione è un reato previsto dal Codice penale spagnolo e si verifica quando c’è una protesta pubblica e violenta contro l’autorità e l’ordine pubblico, senza però che la stessa violenza sia «strumentale e funzionale» ai fini che sono alla base della rivolta. Quest’ultima condizione definisce invece il reato di ribellione, più grave della sedizione. Il Tribunale Supremo ha deciso che non c’erano gli elementi per parlare di ribellione, nonostante la Procura generale spagnola la pensasse diversamente. Fin dall’inizio del processo, l’inclusione della ribellione tra le accuse era stata al centro di moltissime discussioni, soprattutto considerato il carattere pacifico del movimento indipendentista catalano.
È inoltre grazie all’iniziale accusa di ribellione che il processo si è svolto a Madrid, invece che in un tribunale della Catalogna, un fatto che secondo alcuni critici è stato una violazione del principio del “giudice naturale”, che prevede che chiunque debba essere giudicato dal tribunale competente previsto dalla legge, e non dal tribunale che vuole il presidente o il governo.
Nella sentenza di lunedì, il Tribunale Supremo ha inoltre negato l’esistenza del “diritto a decidere“, usato durante il processo dagli avvocati difensori per giustificare le azioni dei loro clienti tra il settembre e l’ottobre 2017. Secondo il Tribunale, il “diritto a decidere” sarebbe una cosa diversa dal “diritto di autodeterminazione dei popoli” riconosciuto dall’ONU, organizzazione che in diverse sue dichiarazioni avrebbe comunque sottolineato l’illegittimità di applicare questo diritto per rompere l’integrità territoriale di stati sovrani e indipendenti, come la Spagna.
Quattro degli imputati sono stati poi condannati per malversazione, cioè uso illecito di fondi pubblici, un reato molto meno grave della ribellione e della sedizione. In pratica, il Tribunale ha stabilito che alcuni ex ministri dell’allora governo indipendentista guidato da Carles Puigdemont usarono fondi per «spese estranee a qualsiasi fine pubblico lecito», come per esempio la produzione del materiale elettorale per il referendum illegale dell’1 ottobre.
Il Tribunale Supremo ha condannato nove dei 13 imputati a scontare pene comprese tra i 9 e i 13 anni di carcere. Gli unici tre imputati che non erano in prigione durante il processo sono stati condannati per disobbedienza: dovranno pagare una multa e per un anno e otto mesi non potranno ricoprire cariche pubbliche elettive.
Cosa si dice della sentenza
Per capire le critiche che sono state fatte alla sentenza c’è da partire dalla tesi di fondo esposta dal Tribunale Supremo. Secondo i giudici, nell’autunno 2017 i dirigenti indipendentisti catalani violarono la legalità democratica con l’obiettivo di convincere il governo centrale di Madrid ad accettare un referendum concordato sull’autodeterminazione della Catalogna, minacciando in caso contrario di procedere alla dichiarazione d’indipendenza unilaterale, che poi però ci fu. In altre parole: il Tribunale ha riconosciuto che i leader indipendentisti sapevano fin da subito che la via dell’unilateralismo sarebbe stata impraticabile: tutto quello che il governo Puigdemont fece in quelle settimane fu finalizzato a esercitare pressioni sul governo spagnolo, che però non cedette.
Una delle critiche alla sentenza più ordinate e complete pubblicate in questi ultimi due giorni è quella di Ignacio Escolar, direttore del giornale online il Diario, con sede a Madrid. Il Diario non ha posizioni favorevoli all’indipendentismo catalano, ma ha una sezione opinioni che a differenza di molti altri giornali spagnoli ha dato ampio spazio a diversi punti di vista. In un editoriale pubblicato sul suo giornale, Escolar ha criticato diversi aspetti della sentenza, che sono stati ripresi anche da altri opinionisti e sono stati la base delle critiche di molti esperti penalisti spagnoli.
La critica più importante riguarda il reato di sedizione, che prevede necessariamente la violenza, anche se non con l’intensità necessaria per poter parlare di ribellione. Nella sentenza, il Tribunale sembra riconoscere che non ci fu violenza: parla del compromesso alla non violenza dei due imputati che ai tempi dei fatti erano i leader delle due principali organizzazioni indipendentiste catalane, Jordi Cuixart e Jordi Sànchez; parla della legalità in cui si era sempre mossa l’Assemblea nazionale catalana, organizzazione di cui era a capo Sànchez; riconosce, come detto, che l’obiettivo ultimo dei politici catalani era fare pressioni sul governo spagnolo, e non dichiarare unilateralmente l’indipendenza. Dice in pratica che non ci fu un colpo di stato, che non fu preparato un piano violento, che non si volle rendere veramente indipendente la Catalogna da un giorno all’altro con una dichiarazione fatta in Parlamento senza alcun valore legale.
Quindi, si chiede Escolar, come fare a condannare una protesta non violenta con pene simili a quelle previste per un omicidio, soprattutto considerando il fatto che in Spagna non esiste un delitto di ribellione senza la violenza, e che la convocazione di referendum illegali non è più reato dal 1995?
La risposta, dice Escolar, si trova nella pagina 283 della sentenza, dove «il Tribunale Supremo crea una pericolosa giurisprudenza con conseguenze ancora da determinare». «Il diritto a protestare non può trasformarsi in un esotico diritto a impedire fisicamente agli agenti incaricati di attuare un ordine giudiziario». Nel caso delle proteste avvenute l’1 ottobre, continua la sentenza, l’autorità del potere giudiziario fu “sospesa” per essere sostituita dalla volontà di chi aveva convocato il referendum. Il problema, commenta Escolar, è che la definizione data dal Tribunale per giustificare la violenza, e quindi il reato di sedizione, potrebbe essere applicata anche alle proteste dei movimenti ecologisti, per esempio, o a tutti gli atti di resistenza passiva.
La tesi di Escolar è che la giustizia spagnola abbia forzato l’interpretazione di alcuni articoli del codice penale per dare una condanna “esemplare” agli indipendentisti catalani, che invece avrebbero dovuto avere un processo più giusto. Ciò non toglie che Escolar, come molti altri, sia estremamente critico con tutti i leader indipendentisti coinvolti nei fatti dell’autunno 2017, che accusa di avere violato numerose leggi spagnole.
Una posizione diversa da quella di Escolar è stata espressa tra gli altri dal País, il principale giornale spagnolo da sempre su posizioni anti-indipendentiste e critiche in particolar modo verso il governo Puigdemont.
In un editoriale pubblicato lunedì, la redazione del País ha sostenuto che la sentenza del Tribunale Supremo è stata il risultato della rigida applicazione delle leggi penali di uno stato di diritto, come è la Spagna, e non un giudizio parziale né una «vendetta», come invece l’aveva definito Oriol Junqueras, vicepresidente del governo Puigdemont e imputato a cui è stata inflitta la condanna più dura. Le condanne tra i 9 e i 13 anni di carcere «sono state proporzionali alle rispettive responsabilità avute negli eventi dimostrati» durante il processo.
Riferendosi alla valutazione che ha fatto il Tribunale dell’uso della violenza, il País ha una posizione diversa rispetto a quella di Escolar. Ha scritto che «il diritto di manifestazione non può essere confuso con la resistenza all’autorità», e «l’esercizio delle libertà e dei diritti civili non ha niente a che fare con la convocazione di un referendum sull’autodeterminazione incompatibile con la legge sia interna sia internazionale». In pratica, ci sarebbe una linea precisa che divide il diritto di manifestare e la resistenza all’autorità – in questo caso per lo più resistenza passiva – e i leader indipendentisti avrebbero ordinato di superarla, per esempio durante le manifestazioni che si tennero il 20 settembre fuori dal ministero dell’Economia a Barcellona, durante un’operazione delle forze di sicurezza spagnole all’interno dell’edificio.
La conclusione del País è che il processo contro i leader indipendentisti catalani è stato giusto e la sentenza proporzionata ai crimini commessi. Questa è anche la posizione di buona parte della forze politiche spagnole con dimensione nazionale, tra cui il Partito Socialista di Pedro Sànchez (sinistra), Ciudadanos (centrodestra) e il Partito Popolare (destra).