• Mondo
  • Sabato 5 ottobre 2019

Come andò l’ultima volta con l’impeachment

La storia dello scandalo che coinvolse Bill Clinton e Monica Lewinsky, e del modo disastroso in cui lo gestirono i Repubblicani

Bill Clinton e Monica Lewinsky alla Casa Bianca. (Getty Images)
Bill Clinton e Monica Lewinsky alla Casa Bianca. (Getty Images)

La scorsa settimana il Partito Democratico statunitense ha annunciato di voler avviare la procedura di impeachment contro il presidente Donald Trump, accusato di aver fatto pressioni su una forza straniera per ottenerne un vantaggio politico, chiedendo al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di indagare su un presunto caso di abuso di potere compiuto da Joe Biden. Trump è accusato di aver violato il suo giuramento, la sicurezza nazionale e l’integrità del processo elettorale americano, visto che Biden potrebbe essere il suo sfidante alle prossime presidenziali.

L’impeachment, la procedura prevista dalla Costituzione americana per rimuovere un presidente in carica colpevole di determinati e gravi reati, ha un iter preciso. Attualmente sei commissioni della Camera dei Rappresentanti stanno indagando sulla vicenda. Dopo questa fase, la Camera voterà sugli articoli di impeachment che verranno presentati: se saranno approvati, a maggioranza semplice, Trump sarà formalmente sotto impeachment, e comincerà il suo processo al Senato. Al termine – dopo deposizioni, perquisizioni, arringhe e tutto quello che prevede un normale processo – il Senato voterà per la rimozione del presidente, che deve essere approvata con due terzi dei voti, cioè 67 senatori.

L’impeachment è una cosa rara e molto grave nella politica americana, iniziata finora soltanto due volte e mai portata a termine. La prima fu nel 1868, quando Andrew Johnson fu accusato di aver violato una legge che regolava i limiti del suo potere di veto, rimuovendo l’allora ministro della Guerra. Per un solo voto, il Senato non riuscì ad approvare la sua rimozione. La seconda volta, molto più recente, risale alla presidenza di Bill Clinton, e al celebre “caso Monica Lewinsky”, la stagista della Casa Bianca con cui ebbe una prolungata relazione sessuale. È una storia molto raccontata, citata periodicamente in occasione di scandali sessuali nella politica e che in questi giorni è ricordata in quanto unico precedente per quello che sta per succedere al Congresso con il quale abbia senso fare confronti.

Bill Clinton e Monica Lewinsky alla Casa Bianca. (Getty Images)

Lo scandalo
Monica Lewinsky, allora 22enne laureata in psicologia, cominciò un tirocinio alla Casa Bianca nell’estate del 1995, grazie a raccomandazioni familiari. Alla fine di quell’anno a Lewinsky fu affidato un incarico nell’ufficio legislativo che la portava a consegnare più volte al giorno documenti nello Studio Ovale. Entrò così in confidenza con Clinton, e i due iniziarono una relazione affettiva che venne notata con preoccupazione da altri dipendenti della Casa Bianca. Nell’aprile del 1996 Lewinsky venne trasferita al Pentagono, dove conobbe la dipendente Linda Tripp, a cui raccontò della sua relazione con Clinton spiegando di avergli praticato più volte del sesso orale alla Casa Bianca, peraltro anche mesi dopo la fine del suo incarico lì.

A distanza di mesi, Tripp cominciò a registrare le sue conversazioni con Lewinsky, su consiglio dell’amica e agente letterario Monica Goldberg. Poi contattò Michael Isikoff, giornalista del settimanale Newsweek, raccontandogli la storia senza fare il nome di Lewinsky. Una fonte anonima, intanto, fece una segnalazione vaga su Lewinsky agli avvocati che stavano rappresentando Paula Jones, una donna che tre anni prima aveva denunciato Clinton per delle presunte molestie sessuali avvenute quando era governatore dell’Arkansas.

Siamo nei primi giorni del gennaio del 1998: gli avvocati di Jones chiesero a Lewinsky una testimonianza sulla sua esperienza alla Casa Bianca, nella quale negò per iscritto di aver avuto rapporti sessuali con Clinton. Lewinsky, in più, chiese a Tripp di mentire sotto giuramento. Nel frattempo Tripp consegnò le sue registrazioni a Kenneth Starr, un procuratore indipendente che da anni indagava su ogni possibile misfatto della famiglia Clinton, su mandato del Congresso dominato dai Repubblicani. Starr fece incontrare nuovamente Tripp con Lewinsky, facendole registrare la conversazione in accordo con l’FBI. Subito dopo, Tripp raccontò la storia agli avvocati di Jones.

Il 17 gennaio il sito scandalistico Drudge Report pubblicò un articolo in cui scrisse che Newsweek aveva deciso di non pubblicare uno scoop su una relazione tra Clinton e una stagista della Casa Bianca. Lo stesso giorno Clinton, testimoniando al processo Jones, negò sotto giuramento di avere avuto rapporti sessuali con Lewinsky. La storia diventò subito enorme, ovviamente, e la stampa non parlava d’altro: il 26 gennaio, quasi dieci giorni dopo, Clinton ne parlò per la prima volta in pubblico, dicendo: «Non ho avuto rapporti sessuali con quella donna, la signora Lewinsky. Non ho mai detto a nessuno di mentire, non una sola volta. Queste accuse sono false».

Le indagini
La storia montò ulteriormente nei mesi successivi, occupò il dibattito pubblico e specialmente i talk show televisivi, che assunsero un’importanza fino a quel momento inedita. Clinton ne parlava sporadicamente, dicendo di non volersi dimettere e giurando di non aver mai ostacolato la giustizia, come sostenevano i suoi avversari secondo i quali aveva chiesto a Lewinsky di mentire al processo. In tutto questo, Starr stava mettendo assieme la sua inchiesta, quella che nel caso di Trump spetterà alle commissioni della Camera. Trovò un accordo con Lewinsky: la piena immunità – aveva mentito sotto processo – in cambio di una piena testimonianza.

Lewinsky fornì a Starr anche un vestito sul quale sosteneva fossero ancora presenti tracce dello sperma di Clinton, cosa che sarebbe poi stata successivamente confermata con un test del DNA. Starr fece quindi arrivare a Clinton un mandato per comparire davanti a un gran giurì, concedendogli termini molto permissivi per una situazione del genere (ma era pur sempre il presidente degli Stati Uniti): una deposizione in collegamento video privato, alla presenza dei suoi avvocati, e per un tempo limitato.

La deposizione avvenne il 17 agosto: a Clinton venne chiesto se avesse detto la verità testimoniando che «non c’è assolutamente sesso di alcun tipo» con Lewinsky. Lui rispose: «Dipende dal significato della parola “è”», alludendo al fatto che al momento della testimonianza i rapporti erano finiti. La difesa di Clinton, ribadita pubblicamente dopo la testimonianza (che comunque sarà poi diffusa), era che non aveva considerato quelli tra lui e Lewinsky “rapporti sessuali”: non aveva mentito, dal punto di vista legale, anche se ammetteva di non essere stato preciso.

La difesa pubblica di Clinton venne esplicitata quel giorno: il presidente si scusò profondamente con gli elettori, con Lewinsky, con sua moglie Hillary, e con chiunque fosse stato danneggiato da quella storia. Nelle successive occasioni pubbliche disse di aver sbagliato, di aver peccato. Contemporaneamente criticò i metodi di Starr e l’invadenza delle sue indagini, cercando di mostrarsi concentrato sui suoi doveri di presidente, presentandoli come nettamente separati dalle accuse scandalistiche.

Il 20 agosto gli Stati Uniti lanciarono un attacco aereo contro alcuni obiettivi di al Qaida in Afghanistan e in Sudan, in risposta ai recenti attentati alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania. I suoi oppositori lo accusarono di aver usato gli attacchi per distrarre l’opinione pubblica, paragonandoli al film Sesso e potere, uscito l’anno prima e incentrato su una vicenda simile: un presidente che inizia una finta guerra in Albania per coprire uno scandalo sessuale. Anthony Zinni, generale dell’esercito presente al momento della decisione, ha raccontato all’Atlantic che Clinton prese l’unica decisione possibile, e che sarebbe stato criticato anche se non avesse autorizzato i bombardamenti, venendo accusato di essere debole per via dello scandalo.

Impeachment
Di impeachment i Repubblicani avevano in realtà già parlato mesi prima dello scandalo, per via di un’inchiesta sulle donazioni straniere ricevute da Clinton. Ma con l’emergere della vicenda Lewinsky si accodarono all’indagine di Starr, senza condurne di proprie, e aspettandone le conclusioni che arrivarono nel settembre del 1998. L’imponente documentazione a corredo fu resa pubblica da un voto della Camera, in quello che molti considerano il primo di una lunga serie di errori dei Repubblicani. I documenti infatti descrivevano in modo prolisso ed estremamente dettagliato la natura dei rapporti tra Clinton e Lewinsky, tanto che venne giudicato morboso, umiliante e non necessario dai Democratici. Allo stesso tempo quei documenti erano le uniche prove a sostegno del processo di impeachment, e il fatto che fossero pubbliche non rendeva facile il compito dell’accusa.

Il 5 ottobre la Commissione per la Giustizia della Camera votò per avviare la procedura di impeachment accusando Clinton di aver mentito sotto giuramento e di aver ostacolato le indagini. La procedura fu approvata tre giorni dopo dalla Camera, che era a maggioranza Repubblicana. Mancava un mese alle elezioni di metà mandato, e i Repubblicani, su decisione del loro leader al Congresso Newt Gingrich, fecero dello scandalo e dell’impeachment il tema principale della loro campagna elettorale. Ma avevano fatto male i conti: pur mantenendo la maggioranza alla Camera, i Democratici guadagnarono 5 seggi (al Senato la situazione rimase la stessa).

I Repubblicani capirono che la grande attenzione messa sull’impeachment li aveva indeboliti: l’economia americana era in una fase di grande espansione, e Clinton godeva già di suo di un ampio consenso. Davanti alle accuse rabbiose e morbose dei Repubblicani la maggior parte delle persone si schierò dalla parte del presidente, la cui approvazione arrivò a crescere del 10 per cento nei sondaggi, raggiungendo il 70 per cento.

A questo si aggiungeva che, vista la sostanziale mancanza di precedenti, la commissione Giustizia della Camera non sapeva bene come procedere: agì basandosi vagamente su quello che era successo con l’indagine su Richard Nixon 25 anni prima. Sean Wilentz, docente di storia di Princeton che fu convocato proprio per questo, ha raccontato all’Atlantic che cercò subito di spiegare ai Repubblicani della commissione «che l’impeachment era una cosa terribile, per quanto riguarda la Costituzione, che votare per l’impeachment per motivi di parte o di interesse personale era quello che i padri fondatori avevano temuto». L’11 dicembre la commissione votò comunque per sottoporre alla Camera tre articoli di impeachment, aggiungendone un quarto il giorno successivo: il primo accusava Clinton di aver mentito davanti al gran giurì; il secondo sosteneva che lo avesse fatto nella deposizione per il caso Jones; il terzo lo accusava di aver ostacolato la giustizia, istruendo Lewinsky e la sua segretaria Betty Currie su cosa dire al processo, nascondendo i regali ricevuti da Lewinsky e cercando di trovarle un lavoro per influenzarne la testimonianza; e il quarto lo incolpava di aver abusato del suo potere cercando di fermare le indagini sull’impeachment.

Qualche settimana prima, l’editore pornografico Larry Flint aveva messo in palio un milione di dollari per chiunque potesse provare una relazione extraconiugale di un membro del Congresso o del governo. Flint, un personaggio storico della cultura popolare americana, era un convinto sostenitore di Clinton e voleva sbugiardare quei Repubblicani che si mostravano così indignati per lo scandalo Lewinsky, e raggiunse il suo scopo. I Repubblicani che avevano tradito le mogli erano parecchi, tra cui lo stesso speaker uscente della Camera Newt Gingrich, ma la sua campagna colpì principalmente il politico che sarebbe dovuto diventare speaker della Camera, e quindi leader dei Repubblicani al Congresso: Bob Livingston, tra principali leader del partito e tra i più convinti sostenitori dell’impeachment, aveva una relazione extraconiugale che fu scoperta da Flint.

Nella tesa seduta finale del dibattito sull’impeachment alla Camera, il 19 dicembre 1998, Livingston intimò a Clinton di dimettersi: l’aula rumoreggiò, e qualcuno gli gridò «dimettiti tu!». Lui chiese il silenzio, e annunciò che faceva quella richiesta soltanto perché avrebbe rinunciato a sua volta all’incarico di speaker della Camera, chiedendo scusa alla sua famiglia. La sua decisione spiazzò tutti, tanto che anche i Democratici si alzarono in piedi ad applaudirlo.

La Camera approvò due dei quattro articoli di impeachment, quello sulla falsa testimonianza davanti al gran giurì e sull’intralcio alla giustizia. Nel gennaio del 1999 iniziò il processo al Senato, guidato da 13 membri della commissione Giustizia della Camera che agivano sostanzialmente come pubblici ministeri. Tra loro c’era James Rogan, un deputato che aveva capito che i Repubblicani si erano cacciati in un gran guaio. All’Atlantic ha raccontato che Trent Lott, tra i leader del partito al Senato, gli disse: «Non ci importa se avete delle foto di Clinton in piedi sopra a una donna morta con una pistola fumante in mano. Ho 55 senatori Repubblicani, sette dei quali devono essere rieletti il prossimo anno in elezioni molto incerte. Voi della Camera siete saltati giù da una scogliera, e non vi seguiremo».

I senatori Repubblicani, quindi, non ne volevano sapere, perché avevano visto gli effetti dell’impeachment sulle elezioni di metà mandato e avevano capito che dal punto di vista legale il caso era più che mai traballante. Il Senato votò infine il 12 febbraio, dopo giorni di dibattiti in aula: 45 senatori votarono per rimuovere Clinton per falsa testimonianza, e 50 per ostruzione alla giustizia. Ma servivano 67 voti, e l’impeachment fallì.

Bill McCollum, allora deputato Repubblicano, ha spiegato all’Atlantic che la procedura doveva essere svolta comunque, nonostante fosse evidente che non sarebbe andata a buon fine: «quando c’è un presidente che viola la legge in tribunale, in una deposizione o davanti a un gran giurì, e non lo persegui, indebolisci la fiducia delle persone nel sistema giudiziario. Non riguardava davvero quello che successe alla Casa Bianca o Monica Lewinsky: riguardava l’applicazione della legge».

Dopo
In molti credono che il caso Lewinsky fu determinante nella sconfitta del Democratico Al Gore, vice presidente di Clinton, alle presidenziali del 2000, perse contro George W. Bush per qualche centinaio di voti nello stato della Florida, e soltanto dopo un contestatissimo riconteggio dei voti. Anche se Clinton aveva retto nei consensi e anche se l’impeachment era poco popolare tra gli elettori, i sondaggi sulla stima umana per il presidente mostrarono un netto calo. Gore si trovò quindi davanti a una scelta difficile, e decise di prenderne pubblicamente le distanze durante la campagna elettorale.

In molti però ritengono che quella decisione fu deleteria: perché apparve sleale con il suo vecchio presidente, la cui eredità politica era ancora straordinariamente popolare, senza comunque riuscire a mostrarsi moralmente diverso da lui. I quotidiani americani scrissero che dopo le elezioni Clinton rimproverò duramente a Gore la sua decisione, sostenendo che avrebbe potuto vincere se non avesse rinnegato l’amministrazione precedente. Oggi è diffusa l’opinione secondo cui il dibattito sullo scandalo, che andò avanti più o meno due anni, segnò un punto di svolta nella vita politica statunitense, che da quel momento sarebbe stata sempre più polarizzata e violenta.

Clinton aveva evitato l’impeachment, ma l’indagine sul suo conto riprese quando finì il suo mandato da presidente: alla fine si accordò ammettendo di aver dato falsa testimonianza, pagando una multa di 25mila dollari e ottenendo una sospensione di cinque anni della sua licenza di avvocato in Arkansas.

Monica Lewinsky, diventata una celebrità suo malgrado e trovandosi al centro del primo vero scandalo globale dell’era di internet, pubblicò un libro sulla storia e negli anni successivi lanciò marchi, fece varie apparizioni televisive diventando anche conduttrice e strinse molti accordi pubblicitari, sostenendo di dover pagare le spese legali degli anni precedenti. Nel 2005 si trasferì a Londra per riprendere gli studi di psicologia, e per una decina d’anni sparì dalla circolazione. Tornò a far parlare di sé a partire dal 2014 dando diverse interviste, e impegnandosi attivamente nella sensibilizzazione sui temi della gogna pubblica e del bullismo, partendo dalla sua esperienza. Negli ultimi tempi è diventata tra le altre cose molto popolare su Twitter, dove scherza spesso sullo scandalo di cui fu protagonista.

Lo psicologo Adam Grant aveva chiesto: “Qual è il peggior consiglio professionale che abbiate mai ricevuto?», domanda alla quale Lewinsky ha risposto: «Un tirocinio alla Casa Bianca sarebbe fantastico sul tuo curriculum».