Riparleremo di obiezione di coscienza
La sentenza della Corte Costituzionale su Marco Cappato e l'aiuto al suicidio investe di responsabilità dirette il Parlamento e il Servizio Sanitario Nazionale
Esprimendosi sul caso di Marco Cappato, il politico e attivista dell’associazione Luca Coscioni accusato di avere aiutato a suicidarsi Fabiano Antoniani, più noto come dj Fabo, la Corte Costituzionale ha stabilito che – a determinate condizioni, su tutte la volontà della persona malata – aiutare una persona a morire non è punibile, ammettendo così indirettamente il suicidio assistito e chiamando in causa il Servizio Sanitario Nazionale. La sentenza è stata molto criticata, soprattutto da ambienti vicini alla religione cattolica, e nell’ipotesi di una futura approvazione di una legge sul cosiddetto “fine vita” (che la stessa Corte ha considerato indispensabile) si è già parlato della possibilità che i medici possano fare obiezione di coscienza.
L’obiezione di coscienza
L’obiezione di coscienza è la possibilità stabilita in certe leggi di sottrarsi ad alcuni obblighi stabiliti dalla legge stessa: per motivi di coscienza (parola molto vaga che potrebbe essere ricondotta all’etica, ma molto più spesso alla religione). Nell’ordinamento giuridico italiano sono esistite tre forme di “obiezione”: al servizio militare obbligatorio (che non esiste più), alla sperimentazione sugli animali e in campo sanitario (in quest’ultimo caso riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza e la legge sulla riproduzione medicalmente assistita).
– Luca Sofri: Coscienze gratis
Sono tre forme di obiezione ad altrettante leggi o norme che sotto l’ombrello di uno stesso nome hanno o hanno avuto significati e soprattutto conseguenze molto diverse tra loro, soprattutto per il conflitto che si crea tra i differenti diritti dei soggetti coinvolti e per la natura della cosa a cui ci si sottrae: a un obbligo nel primo caso, quando la leva era obbligatoria; alla libera scelta di fare quel mestiere e in quel preciso luogo di lavoro nei secondi due casi. L’obiezione in campo medico e sanitario è l’unico caso in cui, di fatto, le conseguenze della scelta dell’obiezione non ricadono su chi fa quella scelta ma paradossalmente lo premiano, mentre il prezzo di quell’obiezione lo paga qualcun altro a cui viene negato un diritto previsto dalla legge.
La legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare stabiliva un’alternativa: lo Stato rispettava e riconosceva alcune personali ragioni di sottrazione alla legge, ne toglieva le conseguenze penali e civili e offriva un’opzione alternativa (il servizio civile). La legge sull’obiezione alla sperimentazione animale segue un principio simile: insiste sull’offerta di modalità alternative alla sperimentazione con gli animali, le promuove, e prevede comunque il ricollocamento di chi lavora nel settore. In entrambi questi casi le conseguenze di una sottrazione personale alla norma ricadono principalmente su chi fa la scelta di sottrarsi.
In campo medico, invece, chi sceglie la disobbedienza professionale non ha né doveri specifici (come di dichiarare la propria posizione o essere inserito in un albo apposito) né oneri compensativi. A volte le cose sono ribaltate, e chi non obietta fatica a crescere professionalmente. Non solo: i dati sull’obiezione alle interruzioni di gravidanza in Italia dicono che si è creata una situazione in cui – approfittando di una parte della legge e della presunta universalità del diritto della propria coscienza – si è cercato di costruire un’obiezione concretissima e sistemica che ha conseguenze molto reali sulla salute e sui diritti riproduttivi delle donne, e che le mette in una posizione di disuguaglianza a seconda del luogo di residenza, dello stato socioeconomico e del reddito. Insomma, l’obiezione di coscienza fa sì che la legge di fatto non venga applicata regolarmente.
Il “fine vita”
La sentenza della Corte Costituzionale sul caso di Marco Cappato non ha a che fare con l’eutanasia ma con il suicidio assistito. Nel suicidio assistito il farmaco necessario a uccidersi viene sì prescritto da un medico, ma poi assunto in modo autonomo dalla persona malata. Nell’eutanasia, invece, il medico ha un ruolo fondamentale: nell’eutanasia attiva somministra il farmaco, in quella passiva sospende le cure o spegne i macchinari che tengono in vita la persona. In Italia l’eutanasia attiva e il suicidio assistito, così come l’aiuto al suicidio, sono vietati.
L’eutanasia passiva, invece, dal gennaio del 2018 è regolata dalla legge sul testamento biologico approvata durante la scorsa legislatura: stabilisce che nessun trattamento sanitario (comprese nutrizione e idratazione artificiali) possa essere iniziato o proseguito senza il consenso «libero e informato» della persona interessata, che può dunque rifiutarsi anche preventivamente, anche se questo dovesse provocargli la morte. In quella legge non si parla in alcun modo di obiezione di coscienza, nonostante poco dopo la sua approvazione, l’allora ministra della Salute Beatrice Lorenzin avesse dichiarato che si sarebbe impegnata a garantirla.
Mentre in alcuni paesi come Svezia, Finlandia e Norvegia l’obiezione all’interruzione di gravidanza non è concessa, nei paesi che hanno delle leggi sul “fine vita” l’obiezione è prevista, come nei Paesi Bassi: con l’obbligo però per il medico obiettore di indicare alla persona interessata un collega che non sia obiettore.
Le reazioni
Dopo la sentenza su Cappato, l’arcivescovo e teologo Bruno Forte sul Corriere della Sera ha detto che nel pronunciamento della Corte – che comunque deve essere ancora depositato – avrebbe voluto «ci fosse un richiamo esplicito all’obiezione di coscienza». E ancora: «L’assenza di un riferimento chiaro all’obiezione di coscienza potrebbe essere interpretata come un obbligo. Quando ti pronunci su una materia così delicata, il minimo è che tu dia spazio al rispetto delle coscienze, dei tanti medici credenti e non che non potrebbero mai farlo. Non puoi costringerli». Lo stesso pensiero è stato espresso dal cardinale Giovanni Angelo Becciu, considerato molto vicino al Papa, dal Centro studi Livatino, un’unione di giuristi che studia «temi riguardanti il diritto alla vita, la famiglia e la libertà religiosa in un’ottica di coerenza col diritto naturale», e dalla Conferenza episcopale italiana (CEI), che in una nota ufficiale ha scritto che i vescovi si «attendono che il passaggio parlamentare riconosca nel massimo grado possibile» i loro valori «anche tutelando gli operatori sanitari con la libertà di scelta».
– Giulia Siviero: L’obiezione di coscienza non è un’obiezione
Sulla questione del “fine vita” si sono poi attivati, da settimane e con le consuete campagne di disinformazione, anche quei gruppi che hanno legami con le organizzazioni della destra cristiana nel mondo, con i partiti dell’estrema destra locale e che si oppongono all’aborto, ai diritti riproduttivi, ai matrimoni gay, ai diritti LGBTQI, al divorzio e agli studi di genere. Pro Vita e Famiglia, legata all’organizzazione del Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona dello scorso marzo, ha promosso l’affissione in varie città di cartelloni in cui vengono presentate una serie di persone che – secondo Pro Vita – “potranno farsi uccidere” qualora passasse in Italia una legge sul “fine vita”: chi viene bullizzato a scuola, chi scopre di avere un tumore, chi è depressa perché tradita, chi non riesce a lottare contro l’anoressia, chi ha perso il lavoro.
Ancora prima che la sentenza uscisse, infine, quattromila medici cattolici (che rappresentano comunque il 2 per cento circa dei medici italiani) hanno dichiarato di essere pronti a fare obiezione di coscienza nel caso in cui il Parlamento legiferasse a favore del suicidio medicalmente assistito. Non solo. Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Fnomceo), ha chiesto «al legislatore che sarà chiamato a normare questa delicatissima materia» di sollevare i medici stessi «dal compito finale, affidando l’estremo atto, quello della consegna del farmaco, a un ‘pubblico ufficiale’, a un funzionario individuato per questo ruolo»: «Quello che chiediamo è di poter continuare a fare i medici, così come abbiamo sempre fatto. Medici che hanno il dovere di tutelare la vita, la salute fisica e psichica, di alleviare la sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana». Lo scorso aprile lo stesso Anelli inviò una comunicazione ai presidenti dei vari ordini e al Comitato di Bioetica Nazionale dicendo che se anche cambiasse la legge in tema di “fine vita”, i medici dovrebbero comunque seguire le indicazioni del codice deontologico che all’articolo 17 attualmente dice che “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte”.
Mario Riccio, medico anestesista che si occupò del caso di Piergiorgio Welby e che è uno dei responsabili dell’Associazione Luca Coscioni, ha criticato le dichiarazioni di Anelli e in generale quelle di chi vuole stabilire la superiorità di un codice deontologico su una legge dello Stato. Riccio ha spiegato al Post che «abbiamo esempi storici chiari in cui il codice è stato modificato, ad esempio con l’entrata in vigore della legge 194. Se prima il codice vietava di eseguire interruzioni volontarie di gravidanza, dall’entrata in vigore della nuova normativa, quell’articolo fu abolito. Se in Italia venisse approvata una legge sul fine vita, l’articolo 17 del codice dovrebbe dunque e di conseguenza essere cancellato, cosa che si può fare dato che il codice non è immutabile. Noi medici, così come ogni altro cittadino, siamo assoggettati prioritariamente alla legge».
Secondo Riccio l’obiezione di coscienza è un falso problema. «Nessuno sta parlando di impedire a qualcuno di sottrarsi a una pratica che per coscienza non condivide. E nessuno sta parlando di imporre a tutti i medici un obbligo. Ritengo grave che il presidente della Fnomceo, che dovrebbe essere super partes e avere rispetto di tutti i suoi rappresentanti, parli invece a nome di tutti i medici su una questione etica, proponendo addirittura al legislatore l’introduzione di un pubblico ufficiale per la consegna del farmaco».
Nella sentenza della Consulta si fa invece un esplicito riferimento al Servizio Sanitario Nazionale: «Ora leggeremo per intero la sentenza, ma nel suo comunicato la Corte Costituzionale ha detto che la prestazione dovrà avvenire all’interno del Servizio Sanitario Nazionale. La equipara dunque a una normale prestazione sanitaria. Non solo: questa indicazione implica che non nascano delle cliniche private e che un cittadino non debba spendere dei soldi. L’utente dovrà avere la possibilità di ricevere il trattamento in regime di convenzione».
Riccio è in generale favorevole all’obiezione di coscienza, a patto che questa sottrazione sia accompagnata da misure compensative: «Auspico che una futura legge contenga l’obiezione di coscienza, in un modo che andrà però pensato e delimitato». La discussione dovrebbe tenere conto non solo degli operatori sanitari e dei loro diritti, ma anche delle persone che sceglieranno di accedere al trattamento sul “fine vita”. E dovrebbe considerare il rischio che – come già si è visto con la 194 – l’obiezione di coscienza possa essere utilizzata come un metodo per limitare un diritto.