Nelle province orientali dell’Indonesia si protesta ancora
Almeno 20 persone sono morte e altre 70 sono state ferite, in una storia di razzismo, discriminazioni e forse fake news
Almeno 20 persone sono morte e altre 70 sono state ferite durante due manifestazioni di protesta in Papua e Papua Occidentale, province dell’Indonesia che si trovano nell’isola della Nuova Guinea e dove, dallo scorso agosto, si protesta spesso contro le discriminazioni razziali e a favore dell’indipendenza.
Lunedì almeno quattro persone sono morte dopo che la polizia, come mostrano alcuni video, ha cominciato a sparare contro centinaia di studenti che si erano riuniti per protestare contro il razzismo fuori dall’università di Jayapura, capitale della provincia di Papua. La manifestazione non era stata autorizzata. Due studenti intervistati dal Guardian hanno detto che le persone stavano tornando a casa quando sono intervenuti gli agenti: «Improvvisamente la polizia ha iniziato a correre velocemente verso la massa degli studenti e ho visto che hanno iniziato a sparare contro di loro. Sono stati sparati dei colpi in aria e verso gli studenti. La polizia ha sparato anche dei gas lacrimogeni». E ancora: «Non so perché la polizia abbia iniziato a sparare. Gli studenti erano rumorosi e urlavano “oop oop”, ma è normale. Non sono sicuro di cosa sia successo, forse le forze di sicurezza sono state prese dal panico». Un secondo testimone ha detto che la polizia ha sparato agli studenti mentre scappavano e che «ha permesso ai non papuani che avevano delle armi di intimidire i papuani indigeni».
Un portavoce dell’esercito ha smentito questa ricostruzione, dicendo che una folla di studenti arrabbiati ha attaccato un soldato (che poi è morto) e altri agenti di polizia con machete e pietre, costringendoli a rispondere con gli spari e a uccidere tre persone.
Sempre lunedì almeno altre 16 persone sono morte a Wamena, durante una rivolta che secondo gli attivisti è stata scatenata dalla notizia – non confermata – di un insegnante che la scorsa settimana avrebbe chiamato “scimmia” uno studente delle superiori. Gli attivisti sostengono che la protesta sia iniziata come una marcia pacifica e che poi la polizia e i militari abbiano cominciato a sparare. Diverse case e negozi sono stati bruciati e la maggior parte delle persone che sono morte era rimasta intrappolata all’interno di questi edifici.
La notizia dell’insulto razzista è stata smentita dalla polizia, che ha detto di non aver trovato riscontri: il capo della polizia di Wamena Rudolf Alberth Rodja l’ha definita una bufala, chiedendo ai cittadini di non crederci e dicendo anzi che quella falsa informazione era stata intenzionalmente diffusa per generare rivolte. Quello della notizie false è un tema piuttosto discusso in Indonesia, sfruttato dagli stessi politici per screditare i loro avversari: le rivolte iniziate lo scorso maggio dopo l’esito delle elezioni presidenziali e a seguito di una serie di notizie fuorvianti o false ne sono un esempio. A metà agosto, nel corso di alcuni arresti mostrati in un video, i poliziotti avevano però effettivamente insultato gli studenti che protestavano utilizzando epiteti razzisti, tra cui “scimmie”, e dicendo di voler “cacciare i papuani” da Giava.
Negli ultimi giorni le proteste iniziate ad agosto contro le discriminazioni e a favore dell’indipendenza sembravano essersi placate. Papua e Papua Occidentale facevano parte delle Indie orientali olandesi e nel 1969 furono annesse all’Indonesia con un referendum molto discusso perché a votare furono solo circa mille uomini e donne scelti dal governo militare indonesiano, su una popolazione di 800mila abitanti. Da allora i movimenti indipendentisti hanno chiesto diverse volte che il referendum venga ripetuto, questa volta allargando il voto a tutti i papuani. Dal referendum del 1969 i movimenti indipendentisti hanno organizzato una guerriglia a bassa intensità contro le forze indonesiane, che hanno risposto schierando contingenti militari nella regione e impedendo a organizzazioni non governative e osservatori internazionali di visitarla. Secondo le scarse testimonianze che provengono dalla regione, nel corso degli anni le forze di indonesiane hanno compiuto numerosi abusi, come assassinii, arresti illegali, torture e intimidazioni. Ancora oggi decine di attivisti si trovano in prigione per aver sostenuto pacificamente il movimento per l’indipendenza.