Dovremmo telefonarci di più?

Lo sostiene una giornalista dell'Atlantic, che ha riscoperto l'efficienza del telefono dopo anni passati solo a scriversi

Da ormai diversi anni, le chiamate telefoniche hanno perso la loro rilevanza tra i mezzi di comunicazione impiegati dalle nuove generazioni: già nel 2014 i messaggi testuali erano diventati più comuni tra gli americani sotto i 50 anni, e in generale anche in Europa è sempre più comune sentire commenti irritati verso l’abitudine di telefonare – ormai considerata invadente – in casi in cui sarebbe sufficiente un messaggio. Sull’Atlantic, la giornalista Amanda Mull ha raccontato allora di un suo esperimento: tornare a usare le telefonate per parlare con amici e colleghi.

Più che un esperimento, racconta Mull, la sua è stata una scelta di vita imposta alle persone intorno a sé.

Mull scrive di aver iniziato con il suo capo, dopo aver sviluppato una insofferenza per le interminabili conversazioni su Slack, la popolare app per le comunicazioni interne aziendali che ha ormai sostituito le email in moltissimi uffici nel mondo. Su Slack, racconta Mull, l’attesa per le risposte altrui, riempita soltanto dall’avviso che “Paul sta scrivendo…”, l’aveva estenuata: voleva sapere cosa ne pensava dei suoi articoli in tempo reale, senza aspettare 30 secondi alla volta perché finisse di scrivere il messaggio. Mull ha iniziato proponendo a Paul di confrontarsi al telefono, facendo poi lo stesso con i suoi amici, ottenendo generalmente reazioni entusiaste.

Applicazioni di messaggistica come WhatsApp, Instagram Direct, Telegram o WeChat hanno trasformato radicalmente il modo di comunicare di centinaia di milioni di persone, se non miliardi. Ormai è difficile trovare regioni del mondo dove non siano utilizzate, e soprattutto nelle fasce d’età più giovani hanno quasi rimpiazzato i precedenti metodi di comunicare. Rimanendo nel più famigliare contesto europeo o nordamericano, ma che per molti versi è simile a quello del resto del mondo, ci sono ricerche secondo le quali i giovani di venti o trent’anni sono diventati insofferenti verso le telefonate, delegando ai messaggi tutte o quasi le proprie comunicazioni.

Anche Mull era fatta così, ma si è resa conto pian piano di una cosa in realtà piuttosto scontata: e cioè che quasi sempre per decidere una cosa via email o messaggio ci voleva molto più tempo rispetto al parlarsi a voce. Come ha spiegato Guhan Subramanian, direttore del Programma sulla negoziazione ad Harvard, ogni discussione è fatta di continue domande e contro-domande, molto più rapide se poste a voce rispetto ai messaggi. «Volevo che i miei pollici avessero la serata libera», ha scritto Mull riassumendo le comuni fatiche di una lunga discussione per chat.

Ma oltre ai problemi tecnici, a dissuadere Mull dalle discussioni per messaggio hanno contribuito le strane dinamiche che sembrano ormai regolare l’etichetta delle chat: specialmente per i giovani, sono spariti i concetti di fine e di inizio per le conversazioni, diventate una specie di flusso ininterrotto.

A differenza di un tempo – il tempo degli SMS, per intenderci – ci si aspetta spesso una risposta immediata a un messaggio in chat, allo stesso modo in cui ci si aspetta una risposta a una telefonata. Ma se per una telefonata è piuttosto semplice dirsi indisponibili, non sempre è facile evitare di rispondere a un messaggio. Lo si può ignorare rispondendo a distanza di ore, ma è una pratica considerata un po’ maleducata, e con la frequenza con cui la maggior parte di noi consulta lo smartphone la scusa “l’ho visto solo ora” è diventata poco credibile.

Rimangono persone che possono trovarsi meglio con i messaggi, che consentono una riflessione maggiore sulle parole impiegate: ma è sotto gli occhi di tutto che è spesso difficile rendere il tono e il contesto di una conversazione parlata per scritto. Capita, perciò, che quello che uno scrive sia molto diverso da quello che l’altro legge, nonostante gli aiuti forniti dalle emoji. Ma come nota Mull, c’è una certa contraddizione nello scervellarsi per rendere il più possibile naturale una conversazione scritta, quando a distanza di un solo clic c’è la possibilità di parlarsi direttamente.

E poi, dice Mull, delle telefonate non rimane traccia, a differenza dei messaggi che possono essere ripescati in qualsiasi momento, anche quelli scritti troppo precipitosamente. In un certo senso, questo meccanismo ha fatto la fortuna di Snapchat prima, e delle Instagram Stories poi: esiste evidentemente il desiderio diffuso di contenuti che spariscano dopo un certo periodo di tempo, in un’epoca in cui la maggior parte di noi ha qualche commento online vecchio di anni che preferirebbe non saltasse mai fuori.

Secondo Jonny Gerkin, uno psichiatra della University of North Carolina, molte persone sono ormai restie a telefonare perché convinte che l’interlocutore possa non prendere bene la cosa. Secondo Gerkin, però, allo stesso tempo la maggior parte delle persone concorda sui limiti delle conversazioni scritte. Per questo, suggerisce un metodo elementare: sfidare il luogo comune secondo il quale le chiamate sono ormai una cosa invadente, chiedendo alla persona con cui vogliamo parlare se desidera come noi farlo a voce. Dipende tutto dal tipo di comunicazione: come sostiene Sherry Turkle del Massachusetts Institute of Technology, ci sono quelle – pratiche, logistiche, non urgenti – per cui i messaggi scritti sono più adatti; e poi ci sono quelle più complesse e articolate, per cui parlarsi è imbattibile.

Mull conclude avanzando un’ipotesi che può sembrare paradossale: queste incertezze sul tipo di mezzo di comunicazione da usare, e questa timidezza rispetto alle conversazioni a voce, potrebbe riguardare i Millennial – cioè i nati tra gli anni Ottanta e la metà dei Novanta – ma non la cosiddetta Generazione Z, cioè quella dei nati tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila. I primi hanno infatti vissuto a cavallo tra un mondo e l’altro, quello prima delle chat istantanee e quello successivo, e questo ha reso difficile una vera padronanza dello strumento. I ventenni e gli adolescenti di oggi, al contrario, potrebbero avere più facilità a districarsi: e lo dimostrerebbe la popolarità in questa fascia generazionale dei contenuti video, da quello degli youtuber a quelli su TikTok, che possono essere interpretati come una forma di rigetto verso l’ubiquità delle conversazioni scritte tipiche del mondo online conosciuto da chi appartiene alla generazione precedente.