Guida alle ennesime elezioni israeliane
Si terranno martedì per la quarta volta in sei anni, ma stavolta Netanyahu rischia grosso
La politica israeliana è una delle più turbolente del mondo occidentale. Dalla fondazione dello stato a oggi si sono succeduti 34 governi, in media uno ogni due anni. Martedì 17 settembre si terranno le quarte elezioni politiche dal 2013 a oggi. La fragilità del sistema politico israeliano è causata in parte da una legge elettorale puramente proporzionale, creata per dare visibilità e rappresentanza alle molte minoranze del paese e che ha finito per accentrare molto potere nelle mani dei partiti più piccoli. Sono loro che hanno permesso al primo ministro uscente Benjamin Netanyahu di governare ininterrottamente per quasi dieci anni, e sono loro che potrebbero causare la sua definitiva sconfitta politica.
Dal 2009 ai primi mesi del 2019 il governo di Israele è stato sostenuto da una coalizione di destra formata dal Likud, il principale partito di centrodestra, nazionalista e liberale, e una serie di partiti della destra identitaria e religiosa che sono spesso riusciti a dettare l’agenda del governo. Provengono proprio da destra alcune delle misure più controverse che il governo israeliano ha promosso in questi anni, dal progressivo ampliamento delle colonie in Cisgiordania alla legge che definisce Israele uno stato esclusivamente ebraico, passando per la criminalizzazione delle attività delle ong internazionali. Persino l’ultima promessa elettorale in ordine di tempo, l’annessione della Valle del Giordano, in passato è stata spesso evocata dalla destra radicale.
Netanyahu è riuscito a intestarsi in maniera così efficace le leggi e l’approccio del governo che ha aumentato i propri consensi: alle ultime elezioni, che si sono tenute nell’aprile del 2019, il Likud di Netanyahu ha ottenuto il 26,46 per cento dei voti, il suo miglior risultato da sedici anni a questa parte. Il rovescio della medaglia è che il rapporto fra Netanyahu e alcuni dei suoi alleati si è inevitabilmente compromesso.
L’ex vice primo ministro Moshe Ya’alon ha mollato Netanyahu tre anni fa, quando si è accorto che si stava spostando verso destra, mentre Avigdor Lieberman – storico leader di Israel Beytenu, partito di destra secolare che rappresenta soprattutto gli immigrati russi – si è rifiutato di entrare nella maggioranza di governo dopo le elezioni del 2019, accusando Netanyahu di essere ostaggio della destra religiosa. Il mancato sostegno di Lieberman ha impedito a Netanyahu di raggiungere la maggioranza in Parlamento – senza di lui la coalizione di destra è rimasta a 60 seggi su 120, a solo un seggio di distanza dalla maggioranza – provocando di fatto nuove elezioni.
Lieberman si era opposto soprattutto a un disegno di legge in discussione da diversi anni che avrebbe obbligato gli ebrei ultraortodossi a fare il servizio militare, da cui sono esentati per motivi religiosi. Il suo elettorato è principalmente laico ed era favorevole a includerlo nel programma di governo; i partiti della destra religiosa, rinvigoriti da un discreto successo elettorale, sostennero invece che gli ultraortodossi debbano continuare a essere esclusi dalla leva, che in Israele è obbligatoria.
Secondo un’analisi di qualche tempo fa del quotidiano Haaretz, Lieberman ha provocato le elezioni per cercare di proporsi come un’alternativa a Netanyahu nel breve-medio termine. La scommessa ha pagato a metà. Israel Beytenu ha recuperato molti consensi e secondo i sondaggi oggi otterrebbe una decina di seggi in Parlamento, il doppio di quelli che ha adesso.
Il problema, almeno per Lieberman e più in generale per l’opposizione israeliana, è che la popolarità di Netanyahu è stata appena scalfita. Il suo consenso non è stato intaccato nemmeno dalle tre indagini in cui è coinvolto, una delle quali è persino arrivata all’incriminazione ufficiale di Netanyahu per corruzione, né dal suo stretto legame col presidente statunitense Donald Trump, che in Israele è molto amato. Anche nei sondaggi più recenti la popolarità di Netanyahu come primo ministro supera di diversi punti quella di Benny Gantz, l’attuale capo dell’opposizione.
Anshel Pfeffer, corrispondente dell’Economist da Gerusalemme e autore di una recente biografia di Netanyahu, ha spiegato che il consenso del primo ministro israeliano deriva da quattro fattori. Secondo Pfeffer, Netanyahu «ha consegnato agli israeliani dieci anni di relativa pace e prosperità economica, gode di un forte consenso fra l’elettorato di destra e dell’assenza di alternative nell’opposizione».
Della popolarità di Netanyahu fra l’elettorato di destra abbiamo già parlato. Per quanto riguarda l’economia, Israele è stato uno dei pochi paesi industrializzati a non subire le conseguenze della crisi economica: anzi, dal 2009 il PIL israeliano si è impennato crescendo a cifre inimmaginabili per molti paesi europei, intorno al 3-4 per cento. Secondo molti, però, la chiave del successo di Netanyahu risiede nell’aver garantito agli israeliani dieci anni di relativa pace e sicurezza. Matti Friedman, un giornalista nato in Canada che nel 1995 si è trasferito in Israele, lo ha spiegato in un recente articolo ospitato dal New York Times.
In estrema sintesi, nei dieci anni prima che Netanyahu andasse al governo la paura di morire ci accompagnava nei luoghi pubblici. C’era la possibilità che tuo figlio saltasse in aria sul bus che lo riportava a casa da scuola. Negli ultimi dieci anni questa possibilità ha smesso di esistere. Davanti a questo, tutto il resto finisce in secondo piano. Qualsiasi sia il merito effettivo di Netanyahu, molti elettori continuano a pensare che sia un motivo sufficiente per tenerlo al governo.
Friedman si riferisce alla cosiddetta Seconda Intifada, la seconda rivolta popolare palestinese nei confronti dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, in cui secondo le stime morirono più di settecento civili israeliani in decine di attentati suicidi, bombardamenti e aggressioni a Gerusalemme e nelle colonie israeliane. Dal 2009 in avanti la tensione con i gruppi armati palestinesi è tornata alta soltanto in un paio di occasioni – la guerra di un mese e mezzo combattuta a Gaza nel 2014, e la cosiddetta “intifada dei coltelli” fra 2015 e 2016 – ma senza particolari minacce per i civili.
La strategia di Netanyahu è sempre stata rivolta a conservare una specie di pace nel breve-medio termine, nella speranza di mantenere l’attuale status quo – sbilanciato a favore degli israeliani – evitando accuratamente ogni eccesso. È per questo motivo che nei dieci anni da primo ministro ha portato avanti una sola guerra, che peraltro cercò di evitare fino all’ultimo. Ed è per questo motivo, dall’altra parte, che ha completamente trascurato i negoziati di pace coi palestinesi, preferendo concentrare i suoi sforzi su nemici più convenzionali come l’Iran o Hezbollah.
Su Haaretz, Anshel Pfeffer ha scritto che la proposta di Netanyahu di annettere la Valle del Giordano dimostra solo il «disprezzo» che prova nei confronti dell’elettorato conservatore, che non ha ancora capito la sua strategia.
Torniamo indietro di cinque mesi e ricordiamo cosa promise allora, poco prima delle elezioni che perse. In un’intervista parlò di annettere la colonia di Ma’aleh Adumim. In un’altra disse che avrebbe esteso la sovranità su quella di Gush Etzion. Ora sta promettendo la stessa cosa per la Valle del Giordano. Come in una favola, volteggia sulla Cisgiordania scegliendo ogni volta di spargere polverina magica su un posto diverso. Eppure, durante i negoziati per formare un nuovo governo dopo le ultime elezioni, si rifiutò di fornire maggiori dettagli ai suoi alleati di destra quando cercarono di costringerlo a dare seguito alle sue promesse. Stavolta non sarà diverso.
La progressiva scomparsa dal dibattito pubblico della prospettiva di una pace duratura coi palestinesi – e la sua scarsa credibilità sul tema della sicurezza – ha molto indebolito la sinistra, che prima dell’insediamento di Netanyahu ne aveva fatto il suo tema principale. «La parola “pace” è diventata volgare», aveva ammesso la politica di centrosinistra Tzipi Livni – definita anche «uno dei migliori primi ministri che Israele non ha mai avuto» – durante la conferenza stampa in cui annunciava lo scioglimento del suo partito, due mesi prima delle scorse elezioni.
Rimossa la prospettiva di pace, la sinistra israeliana non è riuscita a trovare un messaggio convincente né sulla sicurezza né sull’economia. Alle elezioni di aprile il partito Laburista aveva ottenuto il peggior risultato di sempre, cioè il 4,43 per cento dei voti. Il suo leader Avi Gabbay – un imprenditore dalla scarsa carriera politica e un passato da ministro dell’Ambiente di Netanyahu – si è dimesso poche settimane dopo la sconfitta. Meretz, l’unico partito laico di sinistra, aveva superato di pochi decimi la soglia di sbarramento.
In vista delle elezioni di martedì i due partiti hanno cercato di risolvere i propri problemi guardando al passato. I Laburisti hanno rieletto Amir Peretz, un anziano leader già capo del partito fra 2005 e 2007, e impostato una campagna elettorale su temi prevalentemente economici. Meretz ha unito le forze con Ehud Barak, ultimo primo ministro espresso dal centrosinistra fra 1999 e 2001. Secondo i sondaggi, entrambi otterranno più o meno gli stessi seggi delle ultime elezioni, rispettivamente 6 per i Laburisti e 4 per Meretz.
Già dalla scorsa elezione, molti elettori di centrosinistra si sono spostati su Kahol Lavan, “Blu e Bianco”, il partito nato in febbraio dalla fusione di due partiti centristi e a guida personale: quello di Benny Gantz, ex capo dell’esercito israeliano dal 2011 al 2015, e quello di Yair Lapid, ex popolare giornalista televisivo. Ad aprile Kahol Lavan aveva ottenuto un ottimo risultato, eguagliando il numero di seggi del Likud – 35 – e ottenendo il 26,13 per cento dei voti, soltanto 15mila in meno del partito di Netanyahu.
Gantz e Lapid avevano impostato la scorsa campagna elettorale su temi centristi, rivolgendosi soprattutto ai moderati spaventati dagli alleati di destra di Netanyahu e agli elettori della sinistra delusi dalle scarse opzioni a loro disposizione. La strategia è stata riproposta anche in questa campagna elettorale, che in più ha puntato parecchio sula credibilità di Gantz come leader politico e militare, e come unica alternativa alla sinistra. Haaretz scrive che in particolare negli ultimi giorni e nelle ultime ore di campagna elettorale il partito «proverà a sottrarre centinaia di migliaia di voti dai Laburisti e dall’Unione Democratica [l’alleanza elettorale di Meretz]».
Un’eventuale coalizione di centrosinistra, però, è ancora molto lontana nei numeri. Al momento Kahol Lavan, Laburisti e Unione Democratica potrebbero ottenere al massimo 45 seggi, molto lontani dalla maggioranza di 61. Servirebbero a poco anche i 10 seggi della Lista Comune, il partito che rappresenta gli arabi israeliani e che qualche settimana fa ha fatto sapere di essere disponibile ad unirsi a una maggioranza di governo, per la prima volta nella propria storia.
Diversi giornali israeliani sostengono che Lieberman abbia già in mente di proporre un governo di coalizione, se i sondaggi venissero confermati dal voto. Una coalizione trasversale fra Kahol Lavan, Israel Beytenu, Laburisti ed eventualmente il Likud – se Netanyahu non ne fosse più a capo – potrebbe ottenere una maggioranza molto solida, intorno ai 75 seggi. Una fonte interna a Kahol Lavan ha confermato ad Haaretz che il partito sa bene che la scelta sarà «fra un governo di estrema destra o un governo di unità nazionale composto dalle forze moderate».
Lo scrittore e intellettuale israeliano Bernard Avishai ha scritto sul New Yorker che un’alleanza fra Gantz, Lapid e Lieberman avrebbe senso da molti punti di vista: «Kahol Lavan è pieno di ex comandanti o pezzi dell’establishment della difesa che come molti dirigenti del Likud preferirebbero un governo di unità nazionale e che tendono a una retorica nazionalista ma laica. E proprio come Lieberman, considerano il conflitto coi palestinesi un tema di natura militare più che un diritto di natura sacra sulla Terra Santa».
Nei giorni successivi alle elezioni di martedì bisognerà stare attenti ai conti. Se Kahol Lavan riuscirà a superare il Likud, è plausibile che riceva l’incarico di governo per primo. A quel punto dovrà scegliere a chi rivolgersi: se a destra, provando a trattare con Lieberman e il Likud, oppure a sinistra, se per esempio Laburisti e Unione Democratica dovessero ottenere un risultato al di sopra delle attese. Se invece sarà il Likud ad arrivare primo, Netanyahu riproverà probabilmente a convincere Lieberman ad unirsi alla sua coalizione.