Perché Fausto Coppi
Storia di un ciclista come nessun altro, le cui vittorie sono diventate romanzo, e del perché diventò quello che è ancora oggi, un secolo dopo essere nato
di Gabriele Gargantini
Il 15 settembre 1919 nasceva Fausto Coppi: il più grande di sempre tra i ciclisti, e uno dei più grandi di sempre tra gli atleti di ogni sport. Vinse tantissimo e lo fece nonostante negli anni migliori della sua vita da atleta non fece l’atleta, perché c’era la guerra. Ma la grandezza di Coppi non sta solo nelle sue vittorie. Eddy Merckx vinse molto più di lui, ma di Coppi ha detto: «Le sue vittorie sono diventate romanzo, le mie cronaca». La grandezza di Coppi sta nel segno che ha lasciato nella storia del ciclismo, dello sport e dell’Italia, e nel simbolo che fu in vita e che divenne ancora di più dopo la sua morte, il 2 gennaio 1960.
Quando si parla di Coppi non si può non parlare della sua vita, anche quella da romanzo, e non si può non parlare delle sue vittorie, comunque tantissime. Poi è anche il caso di provare a chiedersi com’è che Fausto Coppi sia stato quel che è stato. Come ha fatto un garzone di salumeria del basso Piemonte a diventare tutto quel che è diventato e che in gran parte è ancora?
Fausto Coppi nacque a Castellania (ora Castellania Coppi), quarto di cinque fratelli e figlio di contadini. Non andò molto a scuola e lo misero presto a lavorare nei campi, ma era così magro che il suo soprannome era “stringa” e non andò granché bene nemmeno nei campi, allora il padre gli trovò lavoro come garzone in una salumeria di Novi Ligure. A quindici anni si comprò la prima bicicletta, una Maino grigio perla, e la usò per andare e tornare dal lavoro, per fare le consegne della salumeria e per allenarsi: almeno settanta chilometri al giorno, raccontano le sue biografie. Fece qualche garetta locale, se la cavò meglio che a scuola e nei campi, e nel luglio 1937 il nome di Fausto Coppi – erroneamente diminuito in “Faustino” – comparve per la prima volta sulla Gazzetta dello Sport, dopo una vittoria in una gara della categoria “Giovani fascisti”. Un po’ più tardi un giornalista lo descrisse così: «Di poche parole, timido, mite. Lo osserviamo in corsa: pedalata agile, stilizzata; uno di quei giovani che sono nati per andare in bicicletta».
Coppi divenne corridore professionista dopo aver conosciuto e deciso di farsi consigliare da Biagio Cavanna, che era stato allenatore di Costante Girardengo (il primo “Campionissimo”, prima che quel soprannome divenne il soprannome di Coppi) e di Learco Guerra, “la locomotiva umana”. Cavanna, diventato cieco a fine anni Trenta, era tante cose insieme, ma per cominciare era un abilissimo massaggiatore, di cui molti parlavano come di una figura a metà tra il guaritore e la guida spirituale.
Nel 1940 Coppi corse il suo primo Giro d’Italia. A nemmeno 21 anni era il più giovane al via tra i 90 partenti ed era in squadra insieme a Gino Bartali, un campione già affermato a cui avrebbe dovuto fare da gregario. I giornali scrissero che la Legnano, il cui direttore sportivo era Eberardo Pavesi, uno dei corridori del primo Giro d’Italia e uno dei migliori “allenatori” di sempre, aveva «un capitano e sei soldati semplici». Coppi era un soldato semplice: poi le cose però andarono male per Bartali, Coppi si fece trovare pronto e vinse quel Giro. Ancora oggi è il più giovane a esserci riuscito. Dopo averlo visto vincere e attaccare nella Firenze-Modena, il giornalista Orio Vergani scrisse:
Un ragazzo segaligno, magro come un osso di prosciutto di montagna, ha vinto attraversando l’appennino sotto la pioggia diluviale. Ne avevo visti di scalatori ma adesso vedevo qualcosa di nuovo: aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto la frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili, come ignorando la fatica, volava letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo.
Era tutto pronto per una grandissima rivalità tra Coppi, il nuovo che avanzava, e Bartali, il campione cinque anni più vecchio. Ma il 10 giugno 1940, il giorno dopo la fine di quel Giro, Benito Mussolini annunciò l’entrata in guerra dell’Italia. Dal 1941 al 1945 non ci sarebbe stato nessun Giro d’Italia.
Coppi fu arruolato in fanteria ma all’inizio restò in Italia e ottenne anche qualche permesso per gareggiare nelle poche corse che ancora si organizzavano. Poi però fu mandato a combattere in Tunisia e finì prigioniero degli inglesi in Algeria. Si ammalò di malaria ma fu ben curato, con il chinino, e raccontò di essere stato trattato bene nei suoi mesi da prigioniero di guerra, nei quali riuscì anche a fare una sorta di corso da autista. Mentre finiva la guerra Coppi tornò a Napoli con gli inglesi e restò lì qualche mese, lavorando come automobilista aggregato alle forze alleate. Dopo anni senza bici voleva tornare ad allenarsi: ne parlò al giornale La voce, che pubblicò un annuncio dal titolo “Una bici per Coppi”. Qualcuno rispose e cinque anni dopo aver vinto il Giro, a 25 anni, Coppi tornò a fare il ciclista.
Nel 1946 si sposò e passò a una nuova squadra, la Bianchi: pronto a correre da capitano contro Bartali e la sua Legnano. In una delle prime gare del secondo dopoguerra, la Milano-Sanremo del 1946, Coppi stravinse dopo quasi 150 chilometri di fuga solitaria, arrivando con 14 minuti di vantaggio sul secondo e 25 su Bartali. Il radiocronista Niccolò Carosio disse: «Primo Fausto Coppi, in attesa del secondo classificato trasmettiamo musica da ballo». Renzo Zanazzi, uno dei corridori in gruppo quel giorno, ammise in seguito: «Quel giorno non lo sapevamo ancora. Ma lui viveva e pedalava in un’altra dimensione. Qualche volta lo avremmo battuto, però non lo avremmo mai più ripreso».
Da quella prima Milano-Sanremo del dopoguerra, il ragazzino che aveva vinto l’ultimo Giro prima della guerra iniziò a diventare il campione che avrebbe cambiato la storia del ciclismo. Ma per un paio di anni ancora qualcuno continuava a credere poco in lui, dicendo che fosse troppo fragile nel fisico e troppo poco determinato nello spirito per vincere tante corse a tappe. Gli si riconosceva già un indubbio talento, ma tanti non avevano capito quanto grande sarebbe diventato.
Nel 1949, a trent’anni, Coppi vinse il Giro d’Italia e poco dopo vinse anche il Tour de France, il primo a cui partecipò. Coppi fu il primo a vincere le due corse nello stesso anno e si scrisse che fosse una cosa irripetibile. Invece nel 1952 Coppi vinse di nuovo, nello stesso anno, prima il Giro e poi il Tour. Nel 1953 vinse un altro Giro e poi un Mondiale su strada, a Lugano, dopo il quale disse: «Ho fatto del mio meglio, mi sono preparato bene, ho sofferto un pochino». Uno dei suoi massaggiatori ha raccontato che, in quegli anni, quando il ciclismo era più popolare del calcio, «Coppi contava più del presidente della Repubblica, e forse anche più del Papa».
Quello del 1953 fu il quinto e ultimo Giro d’Italia vinto da Coppi, che nel 1955 arrivò secondo per 13 secondi. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando aveva ormai più di 35 anni, Coppi non era quello di una volta ma continuò a correre. Intanto aveva anche fatto parlare per la sua relazione adultera, e quindi allora illegale, con Giulia Occhini: la “Dama Bianca”. Nel novembre del 1959 firmò un contratto per correre nella San Pellegrino, la squadra il cui direttore sportivo era intanto diventato Bartali, rivale ma mai nemico. Coppi con lui partecipò anche al Musichiere.
Nel dicembre del 1959 Coppi partì insieme ad altri amici ciclisti per un safari in Africa. Prese di nuovo la malaria ma nessuno lo capì e nessuno gli somministrò quindi il chinino che l’avrebbe fatto guarire. Morì il 2 gennaio 1960, pochi mesi dopo aver compiuto 40 anni.
Nella sua carriera Coppi vinse sette Grandi Giri e almeno un centinaio di altre corse, alcune molto importanti. Fu anche detentore di uno dei record dell’ora più notevoli di sempre: lo fece nel 1942 al velodromo Vigorelli di Milano, dopo che la città era stata bombardata, e in un’ora fece 45,798 chilometri: ne parlò come della sua più grande fatica di sempre. Il record resistette per 14 anni.
Ma la sua carriera è una faccenda di qualità, oltre che di quantità. Coppi è entrato nella storia del ciclismo anche per come, in certe tappe, decideva di andarsene via da solo, partendo da lontanissimo, e arrivando primo con notevoli distacchi. L’esempio più noto, ma non l’unico, è quello della Cuneo-Pinerolo del 1949 e dell'”uomo solo al comando”, con la maglia biancoceleste. Qualcuno ha provato a fare un calcolo e ha detto che nella sua vita Coppi pedalò, in fuga solitaria, per almeno tremila chilometri. Di certo più di una volta arrivò con svariati minuti di vantaggio sul secondo. «Quando Coppi vinceva per distacco, non avevi bisogno di un cronometro svizzero», ha spiegato l’ex ciclista Raphaël Géminiani: «Andava bene anche l’orologio di un campanile». Sempre Géminiani disse, parlando di Coppi, che aveva «vent’anni di vantaggio sul gruppo».
È il momento di chiedersi perché proprio Fausto Coppi: perché, in altre parole, è esistito qualcuno così più forte degli altri nel fare qualcosa, nel suo caso pedalare. È una questione di predisposizione e talento naturale – Coppi un po’ ci era nato – ma anche di sperimentazione, perfezionismo e incontri giusti. Sergio Zavoli disse che, secondo lui, Coppi «era nato sicuramente con lo stigma del vincitore e aveva una sorta di tranquillità come se tutto dovesse avvenire, oserei dire persino contro la sua volontà». Ma è più complicato di così.
Partiamo dal fisico: quello di Coppi era oggettivamente strano. La migliore descrizione la fece Gianni Brera nel 1949, dopo la prima vittoria di Coppi al Tour. Brera parlò di «spalle esili», di un torace che «via via che scende, ingrandisce», di uno sterno che pare carenato come negli uccelli», di un «improvviso dilatarsi delle anche», della «assenza totale di un ventre che minimamente sporga», di «cosce di inusitata lunghezza in cui balzano evidenti muscoli sciolti e affusolati». Ma Brera ammetteva che Coppi, a vederlo camminare, non era granché: «Subito egli ti sembra goffo e sproporzionato, non fatto, direi, per muoversi in terra, come tutti». Ma è tutta una premessa, si capisce, per parlare di Coppi «quando è in sella e pedala», perché Brera aggiunse: «La struttura morfologica di Coppi, se permettete, sembra un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta».
Il corpo di Coppi era quindi sproporzionato nelle misure e un po’ fuori dal comune. Ma per certi versi era davvero fatto apposta per sforzi di resistenza estrema, meglio se su una bicicletta. Due dati, su tutti: è stato scritto che nei polmoni di Coppi stavano circa 7 litri di aria, contro i 4 di una persona normale; ed è noto che la sua frequenza cardiaca a riposo fosse sotto i 40 battiti al minuto. Vuol dire avere un bel po’ di riserva d’aria in più quando si è in affanno, e vuol dire avere un ampio margine prima che il cuore batta troppo forte per poter continuare a fare un certo tipo di fatica. Brera parlò di «un congegno superiore».
Ma non è solo questione di cuore, polmoni o muscoli. Coppi «aveva vent’anni di vantaggio sul gruppo» perché sperimentò tantissimo. Innovò, forse addirittura inventò, un nuovo modo di allenarsi e alimentarsi; lavorò tanto e bene sul perfezionamento della posizione in bicicletta, nelle scelte di materiali e attrezzature e nei settaggi della bicicletta stessa. Coppi portò una certa scientificità nell’approccio al ciclismo e allo sport; rappresentò, lui da solo, un’avanguardia. «Niente di fondamentale è stato inventato dopo Coppi», ha detto sempre Géminiani.
Prima di Coppi c’era poca tattica in gara. Lui invece capì, anche perché aveva la necessità di staccare un osso duro come Bartali, che poteva essere più proficuo provare in una tappa o due a fare la grande differenza, per poi provare a gestire la corsa. Coppi era fortissimo ma era anche descritto come «fragile»: in senso quasi letterale, nelle ossa e nei muscoli. Doveva far sì che le sue giornate migliori gli fossero sufficienti a vincere certe tappe, senza dover andare sempre a tutta. Come racconta Marco Pastonesi nel libro Gli angeli di Coppi, fece un uso attento e proficuo di gregari e assistenti, collaboratori e consiglieri di ogni altro tipo, in gara e fuori.
Insomma, il fisico fu la premessa, la dedizione e la ricerca fecero tanto altro. Ma per Coppi fu anche una questione di incontri. Lavorò per tutta la vita con Cavanna, imparò il mestiere da Pavesi e Bartali, con il quale passò un gran pezzo di vita a sfidarsi. Fu un confronto tra due atleti – Coppi più elegante, Bartali più resistente – che divenne qualcosa di più. Coppi, più timido e taciturno; Bartali più estroverso; Coppi avanguardista e sempre atleta; Bartali (si dice) fumatore e gran bevitore. Si arrivò perfino a estremizzare le caratteristiche di ognuno per creare una dicotomia perfetta: e così Coppi, che pare votasse (o comunque simpatizzasse per) la Democrazia Cristiana, finì per essere raccontato come un comunista, opposto al cattolicissimo Bartali. Nel 1950 organizzarono un Inter-Milan tra ciclisti: il Milan di Coppi vinse 6-0 contro l’Inter di Bartali.
La realtà è che c’erano ovviamente molte sfumature e i due, che in pubblico e sui giornali quasi mai facevano il nome o il cognome dell’altro, si rispettavano e stimavano, legati anche dal fatto che entrambi avevano avuto un fratello morto mentre gareggiava. Coppi e Bartali erano diversi ma non antitetici, e di certo Coppi è stato quel che è stato – ed è ancora così ricordato – anche perché contro di lui correva Bartali. Coppi e Bartali furono una coppia perfetta e di assoluto livello sportivo, in un momento storico in cui il ciclismo era lo sport più popolare di tutti e in cui l’Italia aveva una gran voglia di qualcosa che non fosse guerra.
Comunque: Coppi, da parte sua, era molto semplice nello spiegare come mai fosse diventato Coppi. «Penso che il sacrificio e la passione siano una parte determinante. Forse più delle qualità stesse che uno possa avere. Bisogna perseverare perché ci sono dei momenti duri. Anche io nella mia carriera ne ho avuti tanti».