Il muro che divide Lima tra ricchi e poveri
Costruito negli anni Ottanta per separare le ville dalle baraccopoli, è diventato il simbolo delle ingiustizie sociali del Perù
A Lima, la capitale del Perù, c’è un muro che separa una zona molto ricca, piena di lussuose ville con piscina, da una molto povera fatta di baracche in legno e lamiera, senza elettricità e acqua corrente. Il muro venne costruito dal 1985 e nel tempo è stato allungato sempre di più dagli abitanti dei facoltosi quartieri di La Molina e di Santiago de Surco per isolarsi da Pamplona Alta e dai miseri San Juan de Miraflores e Villa María del Triunfo: ora è lungo 10 chilometri e alto tre metri, ed è diventato un simbolo delle ingiustizie sociali della città e del paese, tanto da essere soprannominato el muro de la vergüenza, il muro della vergogna. I giornali ne parlano periodicamente, raccontando a che punto è arrivato: stavolta lo ha fatto l’Atlantic, che ne ha riassunto la storia e raccolto un po’ di storie degli abitanti delle baraccopoli.
La costruzione del muro è la conseguenza della massiccia immigrazione dalle campagne alla capitale, avvenuta negli anni Ottanta e dovuta soprattutto agli scontri tra il governo e i guerriglieri del gruppo terrorista di ispirazione maoista Sendero Luminoso. Molti nuovi arrivati vedevano Lima come una terra di opportunità, ma la maggior parte scappava da furti, omicidi, violenza e stupri. Una volta arrivati si accampavano nelle periferie, ammassando le prime case in legno compensato e lamiera; poi costruivano delle scalinate in cemento che collegavano le case sulle colline e poi i pali per l’elettricità, nella speranza che le fogne sarebbero arrivate fino a lì e che le case sarebbero state ricostruite in mattoni. Si formarono così dei quartieri – che vengono tuttora chiamati pueblos jóvenes, paesini nuovi – e il Comune iniziò a rilasciare i documenti ufficiali in cui li riconosceva, di solito ottenendo in cambio il voto alle elezioni.
I pueblos jóvenes nascevano vicino ai quartieri più ricchi, dove gli immigrati andavano a lavorare come operai, tate, donne di servizio e tuttofare. Mentre le baraccopoli si espandevano, però, crescevano anche la paura e il disprezzo degli abitanti dei quartieri ricchi. «Ci guardavano come se noi e i nostri figli fossimo stati ladri, come se volessimo impossessarci delle loro case», ha raccontato all’Atlantic Susana Galinas Tacuri, nata in una delle prime famiglie arrivate a Lima da Ayacucho, una zona molto violenta nel Sud del Paese. Nel 1985 un’accademia privata nel quartiere di Surco si circondò di un muro in mattoni, sostenendo che serviva per proteggersi dalle baraccopoli dei migranti: e fu così che partì la costruzione del muro. I primi a occuparsene furono i residenti di Las Casuarinas, una della zone più lussuose di Lima, nata come complesso privato dentro a Santiago de Surco, negli anni Cinquanta. Le sue ville bianche, vaste – tra i mille e i tremila metri quadrati – costose milioni di euro sono arroccate sulle montagne e circondate da una recinzione che si può oltrepassare solo mostrando un documento. Per trent’anni gli abitanti di Casuarinas hanno continuato a espandere il muro con il permesso dei governi locali, che spesso inviavano la polizia a garantire la sicurezza, sostenendo che fosse necessario per difendersi dagli immigrati criminali. Ora Surco è il quarto quartiere più sicuro di Lima, mentre San Juan de Miraflores è il secondo meno sicuro. Atlantic ha parlato con alcuni abitanti di Surco, che hanno assicurato che il crimine è diminuito dopo la costruzione del muro.
La vita nei quartieri più poveri divenne ancora più difficile: prima della costruzione del muro, bastava un quarto d’ora a piedi per passare da una zona all’altra, ora ci vogliono almeno due ore prima di riuscire ad attraversare un checkpoint. Molte persone hanno lasciato il lavoro, altre si svegliano alle 5 del mattino per uno stipendio che spesso permette loro solo di sopravvivere e che viene dimezzato dal costo degli autobus. Tra i più giovani tanti non hanno mai oltrepassato il muro e non hanno veramente idea di cosa ci sia dall’altra parte.
Negli ultimi tempi la situazione è stata peggiorata dall’immigrazione dal Venezuela, che sta attraversando una lunga crisi economica e politica: a causa della concorrenza infatti molti hanno perso il lavoro o si sono ritrovati con una paga ridotta. Per esempio Lily Mamani Reyes, che ha 33 anni e fa la domestica a Surco, un tempo era pagata 50 soles, circa 13,5 euro, al giorno ma dopo l’arrivo dei venezuelani ne prende 25, meno di 7 euro.
Il muro riflette le disparità sociali ed economiche del Perù: secondo dati governativi del 2018, nel Paese circa 6,9 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà e guadagnano meno di 102 dollari al mese; il 44 per cento vive in zone rurali, anche se negli ultimi anni a Lima sta crescendo la povertà. La ricchezza appartiene a pochi: il 20 per cento più ricco possiede circa la metà del reddito complessivo del Paese, il quinto più povero si contende il 5 per cento. Per la sua sola esistenza il muro peggiora la situazione, non solo perché rende più difficile emanciparsi a chi vive nei quartieri poveri, ma anche perché divide due comunità, rendendo l’una estranea all’altra. Nel tempo è stato paragonato ad altri celebri muri – come quello di Berlino e quelli che separano rispettivamente le zone cattoliche e protestanti a Belfast e in altre città nordirlandesi e Israele dai Territori Palestinesi – e risponde alla retorica molto attuale che li propaganda come una soluzione contro il crimine, il terrorismo e l’immigrazione.