“L’impresa di Fiume” raccontata da Antonio Scurati
Fu un secolo fa oggi, divenne un celebrato simbolo del nazionalismo ma la storia vera fu molto di stanchezze, fatiche e improvvisazioni
Un secolo fa, il 12 settembre 1919, arrivarono nella città dalmata di Fiume circa 2600 soldati italiani guidati dal poeta nazionalista Gabriele D’Annunzio e la occuparono dichiarandola italiana. Fiume – di popolazione prevalentemente italiana ma con una grossa minoranza di lingua e cultura slava – era al centro di una trattativa conseguente alla fine della Prima Guerra Mondiale. Molti italiani nazionalisti vedevano il rischio di perderla come un’insopportabile umiliazione, simbolo della “vittoria mutilata”, come lo stesso D’Annunzio aveva retoricamente chiamato l’epilogo della guerra e il suo insoddisfacente risultato per l’Italia nella spartizione dei vincitori. Per quella parte di italiani la spedizione dannunziana prese il solenne nome di “Impresa di Fiume” e divenne parte della mitologia su cui si costruì l’epoca fascista, malgrado alla sua sconfitta finale – l’insurrezione fu conclusa poco più di un anno dopo da un intervento militare italiano – concorse anche la politica di Mussolini di non appoggiarla, preferendo le proprie tattiche politiche lungimiranti alla pomposa avventura di D’Annunzio (e riannettendo Fiume all’Italia nel 1924, una volta al potere).
Nel suo romanzo M, Il figlio del secolo, vincitore del premio Strega 2019, Antonio Scurati dedica a D’Annunzio e alla tormentata e spesso improvvisata occupazione di Fiume diversi capitoli. Questo è quello che racconta la giornata del 12 settembre 1919, a cominciare dalla sua vigilia e dalla partenza per Fiume.
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Si è alzato dal letto febbricitante e ha indossato la divisa bianca con i colletti rialzati dei lancieri di Novara. Tenente colonnello. Nessun civile è mai salito così in alto nella gerarchia militare per meriti di guerra. Ha cinquantasei anni e si regge in piedi a stento.
All’imbarcadero della “casetta rossa”, ad angolo con il Canal Grande, lo attende un motoscafo coperto. È la casa in cui è stato a lungo cieco dopo l’incidente aereo che gli ha tolto un occhio durante la guerra. Su Venezia albeggia.
C’è bassa marea. Quando escono in laguna, si respira la putredine dei fanghi affioranti sulle barene scoperte. Il giorno entra dalle bocche di porto del Lido, di Portogruaro e di Malamocco. Una striscia di luce livida si stende a oriente sotto le nuvole basse. L’umidità rilasciata dalle acque stagnanti delle secche infiamma l’anchilosi delle sue ginocchia e l’orbita vuota del suo occhio guercio. L’intero suo corpo è un rottame. Venezia, vista da Mestre, è, invece, un pesce. Un pesce sventrato e ricomposto.
Ad attendere Gabriele D’Annunzio sulla terraferma c’è un cabriolet Fiat 511 Sport. L’auto è rosso fiammante. Il veicolo scoperto rinfocola la febbre. Oltre all’autista, alloggia un tenente dei granatieri di Sardegna, che hanno segretamente giurato di strappare Fiume al presidio militare internazionale per restituirlo all’Italia anche a costo della sedizione, e Guido Keller, eccentrico astro nascente dell’aeronautica italiana, eroe di guerra pluridecorato, asso della leggendaria squadriglia di Baracca, nudista, bisessuale, vegetariano. Un uomo che ama scandalizzare la borghesia di cui è figlio passeggiando con un’aquila sulla spalla.
Il poeta e i granatieri ribelli giungono a Ronchi, una borgata nei pressi del confine, dove li attendono i congiurati, poco dopo il tramonto. A mezzanotte, però, non sono ancora arrivati i camion richiesti con fonogramma all’autoparco di Palmanova e promessi dal comandante della piazza. Sono stati traditi.
D’Annunzio, stremato, dorme su un letto di fortuna ricavato da poche assi di legno inchiodate. Guido Keller esce nella notte insieme a Tommaso Beltrami, un avventuriero dedito alla cocaina. Alcune ore dopo, come per miracolo, una trentina di autocarri 15 Ter, residuati bellici, attendono sul piazzale.
Quando la colonna si mette in marcia, da oriente, oltre il confine, ancora nessuna luce. Solo la grande notte stellata, poi il brivido dell’alba.
I granatieri tengono i fucili nascosti e i baveri delle mantelline rialzate per occultare le mostrine. Fanno parte dei battaglioni allontanati da Fiume a fine agosto, dopo gli scontri con i soldati del contingente francese che avevano strappato il tricolore italiano dagli abiti delle donne. Tentando di rientrare in città di loro iniziativa stanno disubbidendo agli ordini dell’Alto comando italiano, contrario a ogni “colpo di mano”, si stanno schierando contro gli eserciti del comando interalleato che controlla Fiume attraverso contingenti francesi, inglesi, americani e croati, si stanno ribellando alla volontà del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson che intende assegnare la città agli jugoslavi e alla assenza di volontà dei governanti italiani pronti ad assecondarlo. I granatieri hanno dalla loro parte solo una legione di volontari della popolazione civile di Fiume, per lo più italiana, pronti a insorgere. Contro di loro, grossomodo, l’intero mondo moderno. Sono centoottantasette. Un anziano poeta mutilato li precede su un’auto sportiva color rosso fiamma. In quegli stessi giorni, un altro scrittore, il praghese Franz Kafka, ricoverato non lontano da lì in un sanatorio alpino, annota nel suo diario: “Nella lotta che oppone l’individuo al mondo, punta sempre sul mondo.” I 187 granatieri ribelli, invece, puntano sull’individuo: si chiama Gabriele D’Annunzio.
La colonna incontra la prima opposizione a Castelnuovo. Quattro autoblindo circondate da bersaglieri. D’Annunzio si avvicina, parlamenta con gli ufficiali italiani. Qualunque cosa il poeta dica loro per convincerli, nel giro di due minuti le autoblindo si dispongono a protezione della colonna che dovrebbero arrestare. I bersaglieri si uniscono ai ribelli tra grida d’entusiasmo.
Poco dopo, all’incrocio della strada per Fiume, la prima sosta. Tutti gli ufficiali a rapporto dal comandante. D’Annunzio è in piedi su un piccolo poggio.
“Ufficiali di tutte le armi, vi guardo in faccia.”
Il poeta parla loro di giuramenti sopra bandiere e armi corte, di pugnali spezzaspade che il duellatore brandiva alla disperata nella mano sinistra, di menomazioni che aggiungono, di demoni e di aspirazioni umane, di fede e violenza, di un prato cinto di macerie. Spezzeremo la barra.
La colonna si rimette in marcia. A bordo degli autocarri i granatieri cantano. A pochi chilometri dallo sbarramento di Cantrida incontrano i reparti d’assalto. Il loro comandante, il colonnello Raffaele Repetto, ha ricevuto l’ordine di fermare D’Annunzio a ogni costo direttamente dal suo superiore, il generale Pittaluga, che ha minacciato di farlo fucilare su due piedi se avesse disobbedito. Invece, non appena Repetto avvista D’Annunzio, corre ad abbracciarlo. Gli Arditi saltano sugli autocarri. A bordo non c’è più posto. Il numero degli insorti aumenta chilometro dopo chilometro. Si procede a passo d’uomo per non schiantare i mozzi.
Alla barra di confine il generale Pittaluga in persona, comandante delle forze alleate di Fiume, affronta D’Annunzio. Vista l’insubordinazione delle truppe ai suoi ordini, risale personalmente la colonna con due colonnelli del suo seguito inoltrandosi tra Arditi con le baionette innestate sui fucili. Ordina a D’Annunzio di tornare indietro. Lo diffida dal sovrapporsi all’autorità dello Stato. Lo accusa di rovinare l’Italia. Lo taccia di credersi onnipotente.
Il poeta, allora, viene rapito da una reminiscenza. Per un lunghissimo istante, l’anziano anchilosato e orbo torna, liceale, sui banchi di scuola: apre il cappotto che ricopre il suo corpo febbricitante e ripete il gesto con cui cento anni prima Napoleone, sbarcato in Francia dopo la fuga dall’Elba, nei pressi del lago di Laffrey, aveva offerto il petto al generale francese, suo ex attendente, inviato a fermarlo. L’emulo si picchia nervosamente il petto nel gesto napoleonico atteso da tutta una vita.
“Avanti, sparate su queste medaglie” intima al generale venuto a fermarlo.
Incantato dal nastrino azzurro della medaglia d’oro sul petto di D’Annunzio, sedotto anche lui da quel sentimento avventuroso della vita e del mondo, al cui fuoco il guerriero diventa una sola cosa con il ribelle, l’uomo d’armi con l’uomo in rivolta, il generale Pittaluga replica citando il padre e il nonno, entrambi garibaldini. In quell’istante, al confine tra due nazioni e due epoche, all’incrocio delle risonanze, la storia si riduce a una figura retorica, la metafora rimanda a un’altra metafora, il potere dei simboli si trasferisce attraverso i secoli, tutto si confonde, l’autoblindo accelera, la barra di confine vola in schegge.
Fiume, con le sue navi ancorate al porto, adagiata sullo sfondo dei monti, appare a D’Annunzio come una “sposa vestita di bianco”. Alla svolta della strada, un lampo di desiderio gli lucida la pupilla dell’unico occhio rimastogli: il poeta ha sotto di sé una città da prendere. Il letterato conosce, finalmente, la lussuria ossidionale del condottiero sul punto di scatenare al saccheggio le sue truppe mercenarie. Arrivato alla sua età – dirà Nitti – per il poeta-soldato l’Italia non è che una delle tante signore che ha goduto.
Le truppe di D’Annunzio entrano a Fiume poco dopo le undici del mattino. La popolazione le accoglie in un tripudio delirante. Le donne di Fiume, indossati i loro abiti più belli, si offrono ai liberatori. Dai tetti piovono foglie di alloro.
D’Annunzio, sceso all’Hotel Europa, si mette subito a letto. Lo ha guidato una buona stella. È lui la propria stella. Non ne ha mai avuto un’altra. Sono le undici e quarantacinque del mattino. Non un solo colpo è stato sparato.
“Chi, io?! Governatore?”
D’Annunzio viene svegliato nel tardo pomeriggio dalle campane a stormo che chiamano la popolazione all’adunata sulla piazza principale. Guido Keller lo informa di aver preso una seconda volta l’iniziativa mentre lui dormiva: ha proposto al Consiglio cittadino di cedere al poeta tutti i poteri civili e militari. Antonio Grossich, il presidente, luminare della medicina, ideatore della tintura di iodio, pioniere della sterilizzazione dei ferri chirurgici, insignito dell’Ordine della Corona d’Italia, irredentista e patriota, avvalendosi del suo occhio clinico, ha accolto Keller con i riguardi e le cautele dovuti a un pazzo. Poi, però, a sorpresa, i membri del Consiglio hanno accettato di affidare l’amministrazione di una città contesa fra tre nazioni, al centro di una controversia diplomatica di portata mondiale, a Gabriele D’Annunzio, un uomo notoriamente incapace di amministrare persino le proprie finanze, a un noto e fiero dissipatore, inseguito dai creditori di tutta Europa per aver scialacquato più di una fortuna, propria e altrui, in spese sconsiderate per futilità quali pietre preziose, smalti, lacche e arredi sfarzosi di ville.
Il poeta, però, rincula davanti a quell’equazione incalcolabile. Lui amministratore? Impossibile.
Quando D’Annunzio, scortato da un gruppo di Arditi, arriva al palazzo del governo, come promesso, alle sei in punto, la piazza è gremita da una folla in tripudio. La scena che lo attende è indimenticabile. L’automobile del Liberatore riesce a fatica a fendere la folla. Tutti lo voglio abbracciare, tutti lo vogliono baciare. Lui riesce a malapena a reggersi in piedi. È visibilmente provato, pallidissimo, barcolla. Grossich, che ha già compiuto settant’anni, è costretto a sorreggerlo.
Raggiunta la balconata del palazzo, l’amore sfrenato che sale dal basso lo rianima. Le donne, all’apparire del grande amatore, istintivamente, si ravviano i capelli e, rassettandosi la gonna, si sfiorano le cosce. Con un gesto imperioso, quasi un moto di stizza, il tribuno prende la parola:
“Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile, Fiume oggi è il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola cosa pura: Fiume; vi è una sola verità e questa è Fiume! Vi è un solo amore e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo a un mare di abiezione.”
È uno sproposito gigantesco ma la folla si esalta in esso.
D’Annunzio prosegue rievocando i momenti di ansia della marcia di quella mattina e i giorni romani del maggio precedente. Sono trascorsi soltanto quattro mesi dalle manifestazioni nazionaliste della primavera, eppure vengono già proiettate in un passato epico. Il poeta vivente, barando con il tempo, celebra se stesso come un progenitore mitico. La sua è già gloria postuma.
Dopo averla tratta dallo zaino di fanteria che la custodisce, Gabriele D’Annunzio srotola la bandiera rossa di Giovanni Randaccio. È già una reliquia. Il fine conoscitore di stoffe pregiate spoglia il vessillo dalla banda di crespo nero con cui l’aveva pavesata a lutto.
Fin qui è tutto teatro. Fiume la scena di una meravigliosa avventura. L’eroe, il letterato e il commediante la calcano simultaneamente. Poi, però, accade qualcosa d’inaudito. D’Annunzio, esaltato per il fragore che sale dalla piazza, tremando per lo sforzo fonatorio di sovrastarne il frastuono senza nessuno strumento di amplificazione della voce, con la giugulare gonfia di sangue che pulsa lungo il collo teso allo spasimo, dal balcone del palazzo che per secoli era servito agli imperatori ungheresi a regnare su un popolo tenuto a distanza assoluta, interpella direttamente la folla:
“Confermate, voi, davanti alla bandiera del Timavo, il vostro voto del 30 ottobre?”
Antonio Grossich, al suo fianco, sbanda. Nessun oratore fino a quel giorno aveva mai interpellato il proprio uditorio. La scena è improvvisamente mutata, la quarta parete è caduta. Il pubblico è stato chiamato sul palco, il popolo a partecipare del Regno.
I cittadini di Fiume prorompono in un urlo forsennato. Urlano tre volte “sì!”, “sì!”, “sì!”. Gabriele D’Annunzio proclama l’annessione di Fiume all’Italia. Ha impiegato soltanto quattro mesi per realizzare la promessa. Il voto del Campidoglio è sciolto. Tutti i membri del Consiglio cittadino si avvicinano per baciarlo. Lui li lascia fare.
Quella notte stessa, contrariamente a ogni sua abitudine, sveglio alle cinque della mattina, D’Annunzio scrive al generale Pittaluga: “Signor generale, è necessario che io assuma immediatamente il comando militare di Fiume italiana. È una misura d’ordine.” Poiché da Roma non è arrivata nessuna risposta alla sfida lanciata con la marcia, il poeta prende il potere. L’esteta si scansa. Entra in scena il legislatore. Da qui in avanti, proseguirà lui. Il suo primo provvedimento sarà la temporanea chiusura dei bordelli per impedire le risse tra i legionari fiumani e i soldati francesi. Per D’Annunzio, amatore insaziabile, è una rinuncia enorme. Il comandante, però, è perfino disposto a dare l’esempio. Si priva di quei lussi che per tutta la vita ha ritenuto irrinunciabili. Fa tappezzare di bandiere la sua stanza al posto degli immancabili arazzi. Si concede soltanto un mazzo di fiori in un vaso di cristallo e una manciata di cioccolatini in una coppa d’argento massiccio.
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