Apple favorisce le sue applicazioni nell’App Store?
Un'approfondita inchiesta del New York Times mostra come per anni le app dell'azienda fossero in grande evidenza nei risultati delle ricerche, rispetto a quelle della concorrenza
L’App Store di Apple è uno dei più grandi servizi al mondo per scaricare e installare applicazioni, e anche il più redditizio. Attraverso il suo motore di ricerca interno, ogni giorno milioni di persone trovano e scoprono nuove applicazioni da installare sui loro dispositivi Apple: essere tra i primi nei risultati di ricerca è una grande opportunità per farsi notare e avere successo, ma secondo diversi sviluppatori di applicazioni e secondo varie inchieste giornalistiche pubblicate negli ultimi mesi, sembra che Apple abbia sfruttato la sua posizione di gestore del servizio a proprio vantaggio, dando maggiore risalto alle proprie applicazioni rispetto a quelle sviluppate da terzi.
L’accusa nei confronti di Apple non è nuova e si inserisce nell’ampio filone dei sospetti, e delle iniziative legali, sulla condotta delle grandi aziende tecnologiche che offrono servizi online e al tempo stesso rendono accessibili i servizi di altri soggetti. L’esempio classico che si fa in questi casi è quello di Alphabet, la holding di Google, società ormai gigantesca e che tramite le pagine dei risultati del suo motore di ricerca promuove e offre i propri prodotti in base alle parole chiave utilizzate dagli utenti. Negli anni Google ha ricevuto multe miliardarie da parte della Commissione europea, proprio con l’accusa di avere organizzato i contenuti nelle proprie pagine dei risultati per privilegiare i suoi servizi rispetto a quelli analoghi offerte da altre società. Il sospetto mosso da molti è che Apple abbia di recente fatto qualcosa di analogo, con il sistema di ricerca del suo App Store.
Studiando i dati della società di analisi Sensor Tower, il New York Times ha notato che le applicazioni di Apple sono risultate prime nella lista dei risultati dell’App Store in 700 diversi casi, con altrettante chiavi di ricerca; l’analisi ha riguardato dati raccolti negli ultimi sei anni. In diversi casi, nella lista dei risultati comparivano più app di Apple, fino a 14, prima che fossero elencate applicazioni di altri sviluppatori.
Come per gli altri motori di ricerca, anche nel caso di quello dell’App Store la gerarchia delle applicazioni è decisa da algoritmi il cui comportamento non viene mai reso completamente pubblico. La giustificazione fornita da chi li gestisce è che, se l’algoritmo fosse trasparente, molti proverebbero ad approfittarsene, per rendere più visibile il loro contenuto a prescindere dalla sua qualità o dalla rilevanza rispetto a una particolare parola chiave utilizzata per cercarlo. Se da un lato è sicuramente vero che algoritmi opachi riducono il rischio di avere troppa gente che se ne approfitti, dall’altro rendono meno chiare e controllabili le scelte di chi lo amministra.
Inizialmente le applicazioni di Apple non erano tutte presenti nell’App Store, perché la maggior parte era preinstallata sugli iPhone e sugli iPad e non poteva essere cancellata. Dalla primavera del 2016 le cose sono cambiate e, secondo i dati di Sensor Tower, per anni le app di Apple sono quasi sempre rimaste ai primi posti dei risultati senza la possibilità per la concorrenza di scalzarle, anche se avevano recensioni migliori e quindi teoricamente avrebbero dovuto essere collocate ai primi posti per la loro popolarità.
Il New York Times fa l’esempio di Spotify, una delle app più usate al mondo per ascoltare la musica in streaming. Prima che ci fosse Apple Music, un prodotto analogo offerto da Apple, Spotify era al primo posto dei risultati dell’App Store per la parola chiave “musica” (davanti aveva talvolta un’altra applicazione, ma questo perché sull’App Store la primissima posizione è uno spazio sponsorizzato che può essere comprato, un po’ come avviene col primo link nella pagina dei risultati di Google). Dopo l’arrivo di Apple Music nel giugno del 2016, Spotify finì al quarto posto, un anno e mezzo dopo ancora più in basso, scalzata non solo da Apple Music, ma anche da cinque altre app prodotte da Apple e riconducibili alla musica (GarageBand, Memo Musicali, iTunes Remote, Logic Remote e iTunes Store).
Per Spotify le cose peggiorarono ulteriormente verso la fine del 2018, quando finì addirittura al 26esimo posto nei risultati, mentre i primi otto (esclusa la posizione sponsorizzata) erano occupati tutti da prodotti Apple, compresa l’app Clips che serve per editare brevi video e che non ha molto a che fare con la musica. A marzo di quest’anno Spotify ha accusato formalmente Apple di concorrenza sleale, per varie politiche applicate all’interno dell’App Store: un mese dopo ha scalato buona parte della lista dei risultati per la parola chiave “musica”, anche se comunque due app di Apple continuavano a essere al primo e al secondo posto.
L’analisi del New York Times riguarda la versione statunitense dell’App Store e Apple ha detto di non poter confermare i dati, perché l’azienda non tiene un registro che consenta di ricostruire le posizioni delle app nelle ricerche. Philip Schiller ed Eddy Cue, due dei massimi e storici dirigenti di Apple, hanno ammesso che per più di un anno i risultati delle ricerche basate sulle parole chiave più comuni mostravano rimandi alle applicazioni dell’azienda, talvolta anche quando queste erano meno rilevanti rispetto ad altre app più popolari e della concorrenza. Hanno poi spiegato che Apple ha corretto gli algoritmi, in modo da ridurre la presenza delle proprie app.
Sia Schiller sia Cue hanno comunque escluso che gli algoritmi fossero stati compilati con l’obiettivo di favorire le app di Apple, attraverso cui l’azienda vende servizi in abbonamento (come nel caso di Apple Music). Secondo le loro informazioni interne, le applicazioni della società tendono a essere spesso tra i primi risultati perché ottengono recensioni positive sopra la media e perché utilizzano nomi piuttosto generici, corrispondenti alle chiavi di ricerca: Musica per musica, Podcast per i podcast, Mappe per le mappe e così via.
Questo però spiega solo in parte perché con alcune chiavi di ricerca si ottenessero elenchi con una manciata di app di Apple al primo posto prima di quelle della concorrenza. La società ha confermato che una funzione ora modificata dell’App Store prevedeva che le app fossero messe insieme a gruppi, secondo particolari criteri, compreso quello di essere state prodotte da uno stesso sviluppatore. L’algoritmo è stato modificato quest’anno e non dovrebbe più portare a risultati di quel tipo.
Durante il loro colloqui con i giornalisti del New York Times, Schiller e Cue non hanno comunque mai detto che ci fosse un problema da risolvere: “Non era da correggere” ha detto il primo, “È stato migliorato” ha poi affermato il secondo.
Esperti e società di analisi che si occupano di studiare il funzionamento dell’App Store, per consigliare ai loro clienti le migliori strategie per valorizzare le loro applicazioni, ritengono comunque da tempo che il successo delle app di Apple nelle pagine dei risultati sia per lo meno sospetto. È vero che gli algoritmi funzionano automaticamente, dicono, ma comunque sono sempre programmati da esseri umani, che decidono quando e come modificarli sulla base di scelte arbitrarie.
Il New York Times ha anche consultato i programmatori di Apple che si sono occupati di realizzare gli algoritmi per il motore di ricerca dell’App Store. Sono un piccolo gruppo di lavoro e hanno detto di non avere notato per mesi che le applicazioni della loro azienda fossero così presenti nelle pagine dei risultati. Quando se ne sono accorti, uno di loro si è fatto carico di modificare l’algoritmo. Nessuno di loro ha fornito molte altre informazioni su come funzioni il sistema, per lo più per evitare che qualcuno se ne possa approfittare per dare più evidenza alle proprie app. Hanno comunque spiegato che gli algoritmi tengono in considerazione 42 variabili per stabilire le gerarchie nelle pagine dei risultati.
Solo nel 2018, l’App Store di Apple ha prodotto ricavi per 50 miliardi di dollari. È l’unico servizio che può essere utilizzato per scaricare e acquistare applicazioni per gli iPhone e gli iPad ed è strettamente sorvegliato da Apple, cosa che ha permesso di renderlo in media più sicuro rispetto al suo analogo Google Play Store per i dispositivi Android. Nei suoi oltre dieci anni di esistenza, l’App Store ha indubbiamente contribuito al successo di alcune delle più grandi aziende di Internet come Facebook, Amazon e la stessa Google, e ha permesso a società slegate dalla Silicon Valley di espandersi notevolmente, come nel caso della svedese Spotify. Anche per questo la competizione per raggiungere le vette delle pagine dei risultati è molto alta, ed è un tema estremamente sensibile per le aziende che sviluppano applicazioni e che vorrebbero qualche garanzia in più.
La richiesta di maggiore trasparenza deriva anche da casi piuttosto recenti, come spiega sempre il New York Times. Lo scorso marzo, per esempio, Apple ha introdotto una propria carta di credito che può essere utilizzata attraverso la sua app Wallet. Il giorno dopo la presentazione, l’applicazione risultava al primo posto dell’App Store statunitense se si cercavano le parole chiave “money”, “credit” o “debit”. Prima di allora, Wallet non era mai finita nelle pagine dei risultati per quelle chiavi di ricerca.
Apple ha spiegato che probabilmente quelle parole erano state aggiunte alla descrizione di Wallet in concomitanza con il lancio della carta di credito, che avrebbe determinato l’aggiunta di una nuova funzionalità per l’applicazione. Le ricerche con quelle parole chiave, più ricorrenti del solito a causa della novità, avrebbero poi portato più persone a scegliere Wallet tra i risultati, facendo registrare un aumento della popolarità da parte degli algoritmi, che di conseguenza l’hanno messa in maggiore evidenza.
I dirigenti e i tecnici di Apple hanno fornito spiegazioni per dimostrare quanto l’azienda fosse in buona fede, e negli ultimi mesi hanno lavorato per migliorare le cose. In seguito all’aggiunta di alcune modifiche agli algoritmi, da metà luglio le app di Apple sono diventate meno invadenti nei risultati delle ricerche. Schiller e Cue hanno spiegato che ora il sistema è stato cambiato con l’aggiunta di qualche handicap per le app dell’azienda per aiutare gli altri sviluppatori a farsi notare: “Siamo felici di ammettere un errore quando lo facciamo, ma questo non era un errore”.
La dimostrazione di buona volontà di Apple potrebbe non essere sufficiente, considerato che negli ultimi anni diverse istituzioni, a cominciare dalla Commissione Europea, hanno mostrato un crescente interesse per le grandi aziende tecnologiche statunitensi e le strategie per rimanere dominanti sul mercato. Nel caso di Apple, proprio l’Unione Europea ha avviato un’indagine per le politiche imposte agli sviluppatori nell’App Store. L’iniziativa è partita da una denuncia di Spotify e Apple ha offerto la propria collaborazione, ma questo potrebbe non bastare a evitare una multa da centinaia di milioni di euro.