Le formidabili “oche astronaute”
Le oche indiane volano oltre i 7mila metri per superare le cime dell'Himalaya, e il loro studio potrebbe aiutarci a trattare meglio alcune malattie (bonus: contiene una delle GIF più belle che abbiate visto)
L’astronauta statunitense Jessica Meir alla fine di settembre raggiungerà per la prima volta lo Spazio, abitando sulla Stazione Spaziale Internazionale per qualche mese nell’ambito dell’Expedition 61. A 450 chilometri di altitudine, potrà osservare con un solo colpo d’occhio l’Himalaya, attraversato ogni anno da stormi di intrepide oche indiane, una delle sue passioni e oggetto di una recente ricerca sulla loro capacità di volare ad alta quota. Sono state definite da una collega di Meir “le astronaute del mondo dei volatili”, e forse anche per questo hanno attirato la sua attenzione.
Ogni anno le oche indiane (Anser indicus) affrontano un viaggio molto impegnativo in Asia centrale, per trascorrere l’inverno in Birmania, nello stato indiano dell’Assam e nelle zone acquitrinose del Pakistan. Il viaggio richiede di superare alcune delle vette più alte dell’Himalaya, raggiungendo i 7.200 metri di quota, dove l’ossigeno e più rarefatto e le temperature sono molto basse. Nel farlo, le oche indiane dimostrano di avere una formidabile resistenza e una grande capacità di acclimatarsi, sopportando in poche ore uno sbalzo di migliaia di metri di altitudine. E per questo da anni sono studiate dai ricercatori come Meir, per comprendere segreti che potrebbero essere sfruttati per trattare particolari condizioni di salute.
Ad alta quota, la densità atmosferica è inferiore rispetto a quella del livello del mare, con una percentuale più bassa di ossigeno nell’aria. Per questo motivo gli alpinisti che si avventurano sull’Himalaya devono prendere quota a tappe, nel corso di diversi giorni, dando al loro organismo il tempo necessario per abituarsi alla minore concentrazione di ossigeno (in alcune circostanze e per le vette più alte utilizzano anche bombole di ossigeno, per compensare).
A differenza degli alpinisti, durante la loro migrazione le oche indiane superano dislivelli di 7mila metri in 8-12 ore, dimostrando di avere una grande capacità di acclimatarsi. Riescono a farlo grazie a un sistema più efficiente di gestione dell’emoglobina, la proteina presente nel sangue responsabile del trasporto dell’ossigeno (raccolto dai polmoni) verso le cellule. Studi condotti in passato hanno dimostrato che queste oche hanno più capillari nei muscoli pettorali, responsabili del movimento delle ali, rispetto ad altre specie di uccelli che infatti non riescono a volare altrettanto in alto.
Incuriosita dalle ricerche svolte in passato sulle oche indiane, Meir ha coinvolto alcuni colleghi della University of Texas (Austin, Stati Uniti) per approfondire le conoscenze su questi animali, conducendo uno studio piuttosto articolato.
Meir ha ottenuto 19 uova di oche indiane da una riserva naturale e ha poi assistito con Julia York, una laureanda alla loro schiusa e alla crescita dei pulcini, in modo che questi si abituassero alla presenza delle due ricercatrici e familiarizzassero con loro.
Una volta cresciute, le oche sono state portate presso l’University of British Columbia (Canada) per eseguire una serie di test all’interno di una galleria del vento, nella quale sono state simulate le condizioni sull’Himalaya con temperature più basse e una ridotta concentrazione di ossigeno.
Il gruppo di ricerca ha notato che quando l’aria è più rarefatta le oche indiane rallentano il loro metabolismo, riducendo quindi la quantità di ossigeno di cui hanno bisogno per volare; cambiano anche il modo in cui sbattono le ali, per ridurre il consumo di energia.
In condizioni di minore ossigeno, inoltre, la temperatura corporea delle oche diminuisce, facilitando il lavoro dell’emoglobina. La proteina funziona diversamente al variare della temperatura e se il sangue è meno caldo trasporta più ossigeno. I ricercatori pensano che in questo modo le oche riescano a far fluire più ossigeno verso i muscoli pettorali, che consentono loro di volare.
Meir e York non hanno ancora scoperto tutti i segreti delle oche indiane, ma pensano che il loro studio potrebbe aiutarci a migliorare le terapie per alcune condizioni di salute. I sistemi che impiegano per resistere in condizioni così estreme potrebbero essere sfruttati per trattare i pazienti che hanno subìto una privazione di ossigeno, per esempio a causa di un infarto.