I 20 anni di American Beauty
Uscì con ambizioni tutto sommato modeste e diventò uno dei film più celebri e apprezzati degli anni Novanta, in buona parte grazie a Kevin Spacey
L’8 settembre 1999, al Grauman’s Egyptian Theatre di Los Angeles, fu proiettato per la prima volta American Beauty: quello che uscì come un film di ambizioni tutto sommato modeste, diretto da un regista sconosciuto – Sam Mendes – e con protagonista un attore di grande talento ma ancora lontano dall’apice della sua carriera – Kevin Spacey – avrebbe finito nel giro di qualche mese per diventare uno dei film di maggiore successo dell’anno, premiato con una sfilza di Oscar e celebrato dalla critica di tutto il mondo. American Beauty, un racconto sull’alienazione e sulla repressione sessuale della classe media suburbana degli Stati Uniti, è considerato ancora oggi uno dei migliori film degli anni Novanta e lanciò la carriera di uno dei più grandi attori del decennio successivo, oggi caduto in disgrazia dopo una serie di accuse di molestie sessuali.
American Beauty racconta la storia di Lester Burnham, un uomo di mezz’età che lavora senza soddisfazioni per una rivista e che vive con la moglie e la figlia in un quartiere borghese di periferia di una non meglio identificata città statunitense. Al centro del film c’è una specie di percorso di emancipazione e redenzione del protagonista, che comincia con l’innamoramento per una compagna di classe della figlia, e passa attraverso la marijuana comprata dal figlio del colonnello vicino di casa, il proprio licenziamento e la scoperta del tradimento della moglie. Ma non è una redenzione del tutto positiva: il personaggio di Spacey nel mezzo fa cose spiacevoli e patetiche, e soprattutto la sua storia finisce molto male.
L’idea per American Beauty venne allo sceneggiatore Alan Ball ispirandosi alla vicenda vera di Amy Fisher, una giovane donna diventata famosa sui tabloid americani all’inizio degli anni Novanta con il soprannome di “Lolita di Long Island”. Fisher iniziò una relazione con un uomo più vecchio e finì per sparare a sua moglie di cui era gelosa, ricevendo poi una condanna a sette anni di carcere. Ball, che alcuni anni dopo avrebbe creato la famosa serie di HBO Six Feet Under, allora era uno sceneggiatore teatrale, ma si rese conto che la storia non avrebbe funzionato su un palco e mise il soggetto da parte.
Anni dopo, in seguito a alcune esperienze televisive poco soddisfacenti, Ball tirò nuovamente fuori la sceneggiatura, che venne comprata da Dreamworks, la società di produzione di Steven Spielberg. Dopo averla proposta a vari registi importanti, compresi Mike Nichols e Robert Zemeckis, finì per le mani di Mendes, un apprezzato regista teatrale senza esperienza cinematografica. A Spielberg però erano piaciuti i suoi lavori, e Mendes riuscì a convincere Dreamworks ad assegnargli il film, con un misero contratto – per gli standard di Hollywood – che gli garantì poche decine di migliaia di dollari di compenso. Mendes fin da subito volle Spacey per interpretare il protagonista, e riuscì a imporsi sui produttori che avrebbero preferito attori più conosciuti come Bruce Willis o Kevin Costner.
Il film fu girato prevalentemente in California, anche se la città in cui è ambientata la storia, pur non venendo mai nominata, ricorda più gli Stati Uniti del Midwest. Ricreare un posto il più possibile anonimo era però una delle intenzioni di Mendes e Ball, la cui idea era raccontare una storia americana, come evidente fin dal titolo. L’ispirazione per uno dei temi principali del film, quello della bellezza nelle piccole cose e nell’America qualsiasi, al centro del monologo finale di Spacey, venne a Ball quando vide un sacchetto di plastica sospinto dal vento davanti alle Torri Gemelle. Rimase a fissarlo per una decina di minuti, e lo colpì così tanto che lo mise tale e quale nel film, in una scena diventata famosissima e che rappresenta un punto di svolta nel film, quello in cui la figlia di Lester e il vicino di casa capiscono di piacersi. Alla fama di quella scena contribuì la colonna sonora di Thomas Newman, basata su una semplicissima melodia suonata al pianoforte.
Dopo la prima a Los Angeles, American Beauty uscì prima in un numero limitato di cinema, e poi quasi un mese dopo in tutti gli Stati Uniti: guadagnò oltre 8 milioni di dollari nel primo weekend, che sarebbero diventati 130 milioni nel giugno dell’anno seguente quando uscì definitivamente dalle sale. In mezzo, il film fu oggetto di una riuscitissima campagna promozionale che approfittò di un anno senza grandissimi concorrenti e lo rese il principale favorito alla stagione dei premi cinematografici. Il film fu nominato a otto Oscar e ne vinse cinque, i più importanti a cui era candidato: miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia.
La critica fu da subito entusiasta del film, che ancora oggi è considerato il migliore del 1999: piacque tantissimo l’interpretazione di Spacey, che riuscì a conferire un grande fascino a un personaggio pensato per essere anonimo e sgradevole. Anche se fu Spacey a prendersi la gran parte delle attenzioni, i critici celebrarono anche lo stile minimale di Mendes, così come la sceneggiatura di Ball, che riuscì a coniugare un notevole approfondimento psicologico dei personaggi a un ritmo narrativo coinvolgente. Il film conteneva poi una serie di sequenze surreali che sarebbero entrate nella storia del cinema, quelle che vedevano protagonista la ragazza di cui si innamora Lester e molti, molti petali di rosa.
American Beauty si prestò a innumerevoli interpretazioni, da quelle sul colpo di scena finale (SPOILER! Chi spara al personaggio di Spacey è il colonnello, ma nella prima versione il film si concludeva con il processo a suo figlio, incolpato ingiustamente) fino a quelle sul significato generale del film. Le letture più diffuse sono quelle che descrivono American Beauty come una critica dell’America dei consumi e del conformismo della classe media, ma in molti si sono soffermati anche sulla liberazione sessuale di Lester contrapposta all’omosessualità repressa del vicino di casa colonnello.
American Beauty è un film con piani di lettura diversi, che si presta ad analisi scontate e ne nasconde altre più oblique e originali, e soprattutto che nonostante la trama e l’ambientazione non diventa mai una banale “critica spietata all’America di provincia”, come pure talvolta è stato interpretato. Lo stesso personaggio di Lester alla fine non è né positivo né negativo, e la sua fine non è né tragica né felice, come spiega lui stesso nel famoso monologo finale.