L’implosione dei Conservatori britannici
Il partito di Boris Johnson sta caoticamente perdendo pezzi a causa di Brexit, e c'è chi ha cominciato a ribellarsi
Gli ultimi giorni di discussioni e litigi su Brexit non hanno portato solo nuova incertezza sul futuro del Regno Unito, ma hanno anche provocato una delle crisi più profonde mai attraversate dal Partito Conservatore, il principale partito di centrodestra del paese. Nonostante le divisioni esistessero da anni, le recenti politiche adottate dal nuovo primo ministro Boris Johnson, leader dei Conservatori e sostenitore di una Brexit molto dura, hanno provocato tra le altre cose l’espulsione dal partito di 21 parlamentari scontenti e le dimissioni da parlamentare e da ministro di Jo Johnson, fratello minore di Boris Johnson. Non è chiaro quale sarà ora il futuro del partito, soprattutto per le difficoltà nel prendere qualsiasi decisione a meno di due mesi dalla scadenza di Brexit, e per l’impossibilità, almeno per ora, di andare a elezioni anticipate.
Il Partito Conservatore britannico è stato considerato per molto tempo uno dei partiti politici più di successo del mondo, oltre che uno dei più antichi, nonostante le numerose divisioni spesso concentrate sulla gestione del commercio.
Già negli anni Quaranta del Diciannovesimo secolo, per esempio, i Conservatori cominciarono a dividersi sulla possibilità di garantire preferenze commerciali all’Impero britannico. Più di recente, negli anni Settanta del Novecento, fu proprio il Partito Conservatore a far entrare il Regno Unito nel mercato comune europeo, sostenuto tra gli altri dalla prima ministra conservatrice Margaret Thatcher. In quegli anni il dibattito all’interno del partito si sviluppò soprattutto attorno a due schieramenti: persino da una parte c’era chi temeva che con l’entrata nella comunità europea il Regno Unito avrebbe rischiato di perdere troppa sovranità, e dall’altra c’era chi pensava che i vantaggi di stare dentro all’organizzazione fossero superiori agli svantaggi.
L’euroscetticismo cominciò a diffondersi nel Partito Conservatore negli anni Novanta, dopo che il Regno Unito fu espulso dagli Accordi europei di scambio, che stabilivano un meccanismo per ridurre la variabilità del tasso di cambio tra le valute europee al fine di raggiungere la stabilità monetaria. Furono le divisioni all’interno del partito – e la forte ascesa alla sua destra di partiti molto più euroscettici, come lo UKIP di Nigel Farage – a spingere anni dopo il primo ministro David Cameron a convocare il referendum su Brexit, che si tenne nel 2016 e che fu vinto dal “Leave”, cioè da chi voleva Brexit. «Tre anni, due primi ministri e una crisi costituzionale dopo, il conflitto nel Partito Conservatore si è intensificato fino a raggiungere il punto di ebollizione», ha scritto il Wall Street Journal riferendosi agli sviluppi dell’ultima settimana.
Secondo diversi osservatori, la fase più profonda della crisi del Partito Conservatore è iniziata proprio con la riapertura dei lavori parlamentari dopo la sessione estiva, che a sua volta era stata preceduta dall’arrivo di Boris Johnson a capo del governo. A differenza di Theresa May, che da prima ministra aveva tentato di accontentare tutte le correnti dei Conservatori cercando di non andare mai allo scontro, Johnson ha adottato fin da subito un approccio più deciso: con le due decisioni più controverse che ha preso, ha chiesto e ottenuto la sospensione del Parlamento per cinque settimane e a ridosso della scadenza di Brexit, e ha detto ripetutamente che il suo governo avrebbe portato il Regno Unito fuori dall’Unione Europea entro il 31 ottobre, con o senza accordo, nonostante l’opzione del “no deal” (cioè senza accordo) sia ampiamente osteggiata dal Parlamento e da una parte dei Conservatori.
Negli ultimi giorni Johnson, deciso a raggiungere il suo obiettivo senza fare mezzo passo indietro, ha perso la maggioranza in Parlamento, è stato sconfitto nei primi quattro voti importanti a cui si è sottoposto da quando è diventato primo ministro, e ha reagito molto duramente contro quei colleghi di partito che avevano criticato le sue scelte, o che avevano votato contro di lui in Parlamento.
Quando mercoledì sera 21 parlamentari conservatori hanno votato insieme all’opposizione per approvare una legge che impedisca il cosiddetto “no deal”, l’uscita senza accordo del Regno Unito dall’Unione Europea, Johnson ha reagito annunciando l’espulsione dei parlamentari ribelli dal partito, inclusi alcuni membri molto importanti: tra gli altri Ken Clark, il parlamentare che ha occupato consecutivamente per più tempo un seggio alla Camera dei Comuni, Philip Hammond, ex ministro delle Finanze, e Nicholas Soames, nipote di Winston Churchill, considerato un eroe nel Regno Unito per avere guidato il paese durante la Seconda guerra mondiale. Reuters ha definito la mossa di Johnson «una delle svolte più bizzarre della crisi provocata da Brexit negli ultimi tre anni». Finora Johnson è rimasto fermo sulle sue posizioni, nonostante diversi Conservatori abbiano cercato di convincerlo a riammettere nel partito i parlamentari dissidenti.
Giovedì è arrivata l’ultima brutta notizia per Johnson. Suo fratello minore Jo si è dimesso inaspettatamente da ministro dell’Istruzione e da parlamentare perché «combattuto tra la lealtà familiare e l’interesse nazionale». Johnson non ha dato molti dettagli sui motivi della sua decisione, che comunque sono legati alle recenti e controverse decisioni prese dal governo su Brexit.
Per il Partito Conservatore, e per il suo leader Boris Johnson, sta iniziando quindi un periodo di grande incertezza.
L’obiettivo di Johnson era chiudere in fretta la faccenda Brexit, ma le cose si sono dimostrate molto più complicate di quanto lui si aspettasse (ingenuamente: niente di Brexit non è stato complicato in questi tre anni). Anzitutto è in via di approvazione una legge per impedire il “no deal”, che verrà firmata dalla Regina all’inizio della prossima settimana, prima che i lavori del Parlamento vengano sospesi. Johnson ha già detto di volersi opporre a tutti i costi e non è chiaro se rispetterà la norma chiedendo all’Unione Europea di rimandare ancora una volta la data di Brexit, oppure se la ignorerà. Una via di uscita per Johnson sembravano essere le elezioni anticipate, ma anche questo piano sembra essere saltato, almeno per il momento. L’opposizione guidata dal Partito Laburista di Jeremy Corbyn, i cui voti sono necessari per andare alle elezioni anticipate, ha detto venerdì che non accetterà prima della fine di ottobre, per evitare che Johnson possa far succedere il “no deal” sfruttando un eventuale spostamento del voto durante la campagna elettorale.
Anche per questo le prossime settimane potrebbero essere decisive per il Partito Conservatore, che dovrà decidere cosa fare sia con Brexit sia con Boris Johnson.