Seattle ha scelto di non combattere la guerra alla droga
Alla repressione ha preferito il reinserimento, alla giustizia penale ha anteposto il sistema sanitario: sta funzionando, ma è una soluzione solo parziale
Nicholas Kristof, giornalista di lungo corso e opinionista del New York Times, ha raccontato come secondo lui la città di Seattle, nello stato di Washington, ha «capito come far finire la guerra alla droga», intesa come l’approccio repressivo nei confronti dei consumatori di sostanze stupefacenti. Kristof ha scritto che «Seattle sta decriminalizzando l’uso delle droghe pesanti» e anziché sul carcere, e quindi sulla repressione, sta puntando più sull’assistenza medica e il reinserimento di chi è dipendente. Secondo Kristof è un «approccio pionieristico che dovrebbe essere preso a modello dal resto degli Stati Uniti».
L’approccio di cui si parla è pioneristico soprattutto per gli Stati Uniti, visto che è usato da decenni in molti paesi europei (come il Portogallo da quasi vent’anni): come ha detto la Global Commission on Drug Policy, «criminalizzare chi usa le droghe è inefficace e nocivo». Ma è interessante che l’approccio inizi a essere adottato anche negli Stati Uniti, storicamente focalizzati sulla repressione più che sul recupero dei tossicodipendenti. Per aiutare chi legge a farsi un’idea della situazione, Kristof scrive che «negli Stati Uniti ogni 25 secondi viene arrestata una persona per possesso di droga» e che «oggi gli americani che muoiono ogni anno per overdose sono più di quelli morti nelle guerre in Vietnam, Afghanistan e Iraq». Secondo alcune stime, quasi un americano su due ha un parente o un amico con un problema di dipendenze.
Nel suo articolo Kristof fa in genere riferimento alle cosiddette droghe pesanti, come l’eroina o le metanfetamine, ma parla anche di sostanze per ora meno presenti in Italia, come il fentanyl, un oppioide cento volte più forte della morfina. Oltre alle droghe “tradizionali”, quindi Kristof fa riferimento anche a sostanze più recenti, in certi casi persino legali (in certe dosi e a certe condizioni).
Per spiegare l’approccio di Seattle, Kristof ha scritto: «Sta attingendo meno al sistema della giustizia penale e più a quello della sanità pubblica». Da qualche tempo chi a Seattle viene trovato in possesso di un piccolo quantitativo di droga, quello che si presume sia per il consumo personale e non per lo spaccio, non viene incriminato ma viene assistito tramite una serie di consulenze e servizi sociali. A prescindere dal tipo di droga. Kristof ammette che è «un modello che sta avendo sempre più consensi dagli esperti di sanità statunitensi e mondiali», ma aggiunge che «continua a scioccare molti americani». Kristof scrive che essendo molti americani abituati a sentir parlare di “guerra alle droghe” (il primo a parlarne fu, quasi mezzo secolo fa, l’allora presidente Richard Nixon), scelte come quelle di Seattle sono viste come una sorta di parziale “ritirata”.
Il principale responsabile della nuova politica sulle droghe di Seattle è Dan Satterberg, procuratore distrettuale della contea di King, di cui Seattle fa parte. Satterberg ricopre l’incarico dal 2007 e ha raccontato al New York Times di aver avuto una sorella minore morta per una malattia causata da alcune sue precedenti dipendenze da alcol e droghe.
Nel 2011 Satterberg fu tra i promotori del programma LEAD, acronimo di Law Enforcement Assisted Diversion: prevedeva che anziché arrestare chi compiva certe attività (come il consumo di droga ma anche la prostituzione), i poliziotti provassero, specie se in presenza di atteggiamenti non violenti e almeno in parte concilianti, a fornire assistenza e indirizzare le persone verso i servizi sociali. Kristof ha parlato di un «grande successo quasi immediato», per LEAD: nel farlo, ha citato uno studio indipendente che nel 2017 mostrò come le persone assistite tramite LEAD avessero il 58 per cento di possibilità in meno di farsi arrestare rispetto a quelle non assistite dal programma. Chi passava da LEAD aveva anche possibilità notevolmente più alte di trovare e tenere una casa e un lavoro.
Per funzionare, LEAD ha bisogno di fondi: si parla di almeno 350 dollari al mese per ogni persona assistita: «costa meno del carcere, dei processi e dei costi associati alla presenza di un senzatetto». Kristof lo descrive come un progetto che, guardando le cose nel loro complesso, «si ripaga da sé», perché una persona dipendente da droghe alla lunga ha costi maggiori per la collettività di quelli che si devono sostenere per farla uscire da quella dipendenza.
Poco meno di un anno fa, nel settembre 2018, Satterberg proseguì per la sua linea e annunciò che la contea di cui era procuratore distrettuale non avrebbe incriminato chi fosse stato trovato in possesso di meno di un grammo di ogni tipo di sostanza. È una decisione rilevante perché nel caso di certe sostanze, come l’eroina, un grammo è più di quanto si assume in genere in una singola dose (in estrema sintesi: in Italia la legge parla di microgrammi di principio attivo, negli Stati Uniti varia molto da stato a stato). Significa quindi che, vedendo funzionare il programma, Satterberg decise di allargare ancora un po’ le maglie di chi poteva usufruirne, evitando un processo e l’eventualità del carcere.
Sebbene il progetto stia funzionando (e ci siano piani per decine di progetti simili in altre città statunitensi), continua a esserci chi non lo vede di buon occhio. Tra i critici di cui parla il New York Times, qualcuno se la prende contro l’eccessiva decriminalizzazione di droghe pesanti come l’eroina, qualcun altro pensa che così facendo si tolga autorità alle forze dell’ordine. C’è poi chi sostiene, scrive Kristof, che «anche solo la minaccia del carcere possa essere utile per forzare le persone a partecipare e programmi di cura e reinserimento». Kristof ricorda però che, nonostante le critiche, «è difficile trovare una politica che abbia fallito in modo più definitivo della “guerra alle droghe”», che «è costata migliaia di miliardi di dollari e ha rovinato decine di milioni di vite» senza però risolvere il problema e anzi, forse, accentuandolo.
Ma lo stesso Kristof ammette che le azioni intraprese da Seattle sono solo una parte della possibile soluzione, perché la città «ha fatto un ottimo lavoro nel fermare la guerra alle droghe, ma ancora non è stata capace di finanziare la guerra alle dipendenze», che secondo lui è quella che andrebbe combattuta. La città deve investire ancora di più nel sistema sanitario, per assicurare a chiunque abbia una dipendenza da una sostanza stupefacente di poter avere la necessaria consulenza e il necessario supporto, sul piano fisico ma anche psicologico.