Mancano due mesi a Brexit
L'uscita del Regno Unito senza accordo sta diventando sempre più concreta, ma restano ancora molte cose in sospeso
Mancano solo due mesi al giorno all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, fissata per il 31 ottobre, e questa volta sembra che non ci sarà alcuna proroga. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha detto che Brexit sarà il 31 ottobre, con o senza un accordo, come del resto aveva promesso nella campagna elettorale per diventare leader del partito Conservatore (e quindi primo ministro).
Nelle ultime settimane Johnson è stato molto attivo: ha inviato una lettera all’Unione Europea facendo alcune richieste considerevoli, ha sospeso il Parlamento britannico per alcune settimane per evitare voti e mozioni dell’ultimo minuto, e ha assicurato più volte che il Regno Unito gestirà «facilmente» anche un’uscita senza alcun accordo. In realtà restano ancora molti punti in sospeso, a partire proprio dalla questione dell’accordo.
“Deal” o “no deal”?
Nell’autunno scorso l’Unione Europea e il governo britannico avevano raggiunto un accordo piuttosto comprensivo per consentire l’uscita ordinata del Regno Unito dall’Unione. L’accordo però non è mai stato approvato dal Parlamento britannico: i partiti più filo-europeisti avrebbero voluto conservare legami maggiori con l’UE, mentre la fazione più radicale del partito Conservatore – guidata da Johnson – si è opposta all’accordo per varie ragioni fra cui soprattutto il backstop, il meccanismo inserito nell’intesa per evitare la creazione di un “confine rigido” tra Irlanda e Irlanda del Nord in caso di mancato accordo.
Il backstop, per come è stato concordato fra Unione Europea e Regno Unito, se attivato farebbe rimanere l’intero Regno Unito nella unione doganale europea, impedendogli di fatto di stipulare accordi commerciali con altri paesi in maniera autonoma. In una intervista ormai celebre data da Johnson nei giorni della definizione dell’accordo, l’attuale primo ministro lo definì «roba da stato vassallo».
"It's vassal state stuff"- former foreign secretary Boris Johnson says he will vote against draft #Brexit agreement
More: https://t.co/O6t67ucsXP pic.twitter.com/7LiGMVbww6
— BBC Politics (@BBCPolitics) November 13, 2018
Negli ultimi mesi Johnson non ha cambiato idea. Il 19 agosto, in una lettera ufficiale inviata al presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha chiesto esplicitamente di eliminare il backstop senza però specificare cosa introdurre al suo posto (sia l’Unione Europea sia il Regno Unito concordano che sia necessario un dispositivo di sicurezza per evitare una barriera fisica fra Irlanda e Irlanda del Nord). Nella lettera, Johnson si è limitato a citare «soluzioni flessibili e creative» e «disposizioni alternative», senza scendere nei dettagli. Nel giro di qualche ora il Consiglio Europeo, di cui fanno parte tutti i capi di stato e di governo dell’UE, ha respinto la lettera sottolineando che non contiene «nessuna alternativa concreta» al backstop.
I have written to @eucopresident about key aspects of the UK’s approach to Brexit, problems with the “backstop” & the Government’s commitment to the Belfast (Good Friday) Agreement whether there is a deal with the EU or not.https://t.co/7JYdIsZdjB pic.twitter.com/Sc6WjDPdkw
— Boris Johnson (@BorisJohnson) August 19, 2019
Secondo molti parlamentari britannici, Johnson è da tempo consapevole del rifiuto dell’UE di rinegoziare in maniera sostanziale l’accordo su Brexit; e sarebbe altrettanto consapevole che l’attuale Parlamento britannico è contrario all’opzione del no deal, cioè l’uscita senza alcun accordo, come ha mostrato più volte negli ultimi mesi votando a favore di emendamenti che la escludevano. Fra le ragioni che hanno spinto Johnson a chiedere una sospensione del Parlamento – che era già in programma, ma più corta – ci sarebbe proprio il timore che i parlamentari contrari all’uscita senza accordo facciano pressione su Johnson, ad esempio approvando mozioni contro il no deal oppure sfiduciandolo formalmente.
Ancora oggi molti credono che il vero obiettivo di Johnson sia convocare in fretta nuove elezioni, di modo da cambiare i rapporti di forza nel Parlamento britannico aumentando la maggioranza dei parlamentari a favore di Brexit (o meglio, di una “Hard Brexit”, la Brexit più dura) e magari legandosi al Brexit Party, il partito di Nigel Farage.
Nell’assumere l’incarico da primo ministro, Johnson si è circondato di convinti sostenitori di Brexit e ha assunto Dominic Cummings, l’ideatore della campagna del “Leave” nel referendum del 2016: secondo Reuters, sarebbero tutti segnali che l’opzione delle elezioni anticipate è molto in alto nella sua agenda politica. Con un Parlamento sbilanciato a proprio favore, per Johnson sarebbe più facile chiedere un mandato per rinegoziare l’accordo – cosa che però l’UE smentisce da mesi di voler fare – oppure far digerire l’uscita senza alcun accordo (e approvare una serie di leggi di emergenza per gestirlo).
I debiti
Lo scorso autunno Unione Europea e Regno Unito avevano concordato che, contestualmente all’uscita dall’UE, il governo britannico avrebbe pagato una somma per garantire tutti gli impegni presi in quel momento in sede europea (si è parlato di circa 43 miliardi di euro). La cifra era stata calcolata sulla base del bilancio pluriennale comunitario in vigore fra il 2014 e il 2020: i negoziati del prossimo bilancio, che sarà valido dal 2021 al 2027, sono già in corso e non prevedono alcun contributo da parte del Regno Unito.
Se però il Regno Unito uscirà senza alcun accordo, ha sostenuto Johnson nei giorni scorsi, il governo britannico non sarebbe più tenuto a versare una cifra del genere. I giornali britannici hanno scritto che Johnson è intenzionato a offrire all’UE circa un quarto della cifra pattuita, cioè circa 10 miliardi di euro.
Da mesi però i funzionari europei spiegano che il contributo di 43 miliardi sarà una premessa necessaria per negoziare un nuovo accordo commerciale fra Regno Unito e Unione Europea, necessario dopo l’uscita del Regno Unito da tutti i trattati europei. «Se il Regno Unito si rifiuterà di pagare i propri debiti, l’Unione Europea non accetterà di negoziare alcun accordo», ha detto qualche giorno fa Jean-Claude Piris, ex capo del servizio legale del Consiglio dell’Unione Europea.
In caso di uscita senza accordo, è probabile che il Regno Unito cercherà di abbassare la somma chiesta dall’UE. Il punto è che sarà in una posizione di debolezza. L’Unione Europea è di gran lunga il partner commerciale più importante del Regno Unito – il 54 per cento delle importazioni britanniche arriva da paesi comunitari – ed è un paese prevalentemente esportatore: significa che non può permettersi di avere dazi sui prodotti in uscita, a meno di mettere in conto un brusco rallentamento della propria economia.
L’aria che tira
Il governo britannico sta cercando di rassicurare i propri cittadini, spiegando che l’uscita del Regno Unito senza alcun accordo non comporterà alcun cambiamento drastico nella vita di tutti i giorni. E in effetti sono già in piedi alcune misure e fondi speciali per assicurare scorte di cibo e medicinali, oltre che per gestire la prevedibile confusione dei primi giorni alle frontiere, nei porti e negli aeroporti. Nello specifico, l’UE ha già approvato delle misure straordinarie per permettere l’accesso degli aerei di compagnie britanniche negli aeroporti europei.
Tutte le misure di cui stiamo parlando sono straordinarie e provvisorie, e come tali comporteranno inevitabilmente qualche disagio. I permessi temporanei per i voli britannici, per esempio, valgono soltanto per i voli dal Regno Unito a un paese dell’Unione, mentre non valgono per le tratte interne all’UE: significa che nei giorni e nelle settimane successive a Brexit le compagnie aeree potrebbero avere qualche difficoltà a organizzare le proprie tratte.
Poi c’è la questione delle provviste. Una persona su cinque ha già messo da parte cibo e altri prodotti in vista del 31 ottobre, non fidandosi appieno delle rassicurazioni del governo. Anche alcune aziende lo hanno fatto: la settimana scorsa la catena di pizzerie Domino’s ha detto di aver speso 7 milioni di sterline per mettere da parte ingredienti d’importazione che potrebbero diventare irreperibili nel Regno Unito nel caso i rapporti commerciali con gli altri paesi non fossero regolati per qualche tempo. Tra le altre aziende che da mesi stanno facendo scorte ci sono le catene di fast food McDonald’s, KFC e Pret a Manger, e diversi supermercati.
Infine, c’è ancora una notevole confusione per quanto riguarda i permessi che i cittadini europei devono ottenere per vivere legalmente nel Regno Unito. Il governo britannico ha fatto sapere che la libera circolazione di persone provenienti dall’UE si interromperà il 31 ottobre. Significa che i cittadini europei potranno entrare nel territorio britannico per brevi periodi, ma per fermarsi più a lungo avranno bisogno di un visto.
Agli europei che vivono nel Regno Unito, questa possibilità è stata data in anticipo attraverso il cosiddetto EU Settlement Scheme. Eppure, si stima che soltanto 1 milione di europei sui 3,5 che attualmente vivono nel Regno Unito abbia fatto richiesta ufficiale: significa che a partire dal 31 ottobre, in caso di uscita senza alcun accordo, chi non avrà fatto richiesta potrebbe ritrovarsi nelle stesse condizioni degli europei che entreranno nel territorio britannico per una permanenza stabile: dovranno cioè procurarsi un visto nel giro di pochissimo tempo, per non rischiare di diventare degli irregolari.