La regola delle 10mila ore è una balla
Un nuovo studio ha smentito ancora la tesi resa popolare da un libro di grande successo: per eccellere in qualcosa l'allenamento conta, ma non basta
Se in un articolo di tennis, nella biografia di un bassista o in una storia su un falegname vi può capitare di leggere della “regola delle 10mila ore” – la regola che dice che per eccellere in un’attività servono 10mila ore di pratica – è perché nel 2008 il sociologo e giornalista canadese Malcolm Gladwell ne parlò in un libro. La regola sembrava avere una certa autorevolezza, un po’ perché probabilmente si diventa bravi a fare qualsiasi cosa, facendola per 10mila ore, e un po’ perché Gladwell, che era già allora molto popolare nel mondo anglosassone, si era basato in parte su certe conclusioni di un serio studio accademico del 1993. Ci sono due brutte notizie: la prima è che già anni fa l’autore di quello studio criticò Gladwell per aver banalizzato e traviato le sue conclusioni; la seconda è che nel frattempo sono usciti altri studi che smentiscono quello del 1993. Il più recente, che come quello del 1993 è stato fatto su un gruppo di violinisti, è stato pubblicato questa settimana su Royal Society Open Science.
Per chi va di fretta, la notizia è che la regola delle 10mila ore – cioè 90 minuti al giorno per vent’anni o 8 ore al giorno per tre anni e mezzo – è una balla. Per chi ha un po’ più di tempo, ma comunque meno di 10 minuti, vale la pena raccontare la storia dall’inizio.
Lo studio del 1993 su cui si poggia la regola delle 10mila ore aveva tra gli autori lo psicologo svedese K. Anders Ericsson e si intitolava “Il ruolo della pratica volontaria nell’acquisizione di prestazioni da esperti“. Partendo da interviste e ricerche fatte su un gruppo di pianisti e violinisti, lo studio diceva che – in media – chi dai 5 ai 20 anni di età aveva fatto un certo numero di ore di pratica, era tra chi eccelleva in quella pratica. Lo studio spiegava che anche dopo tante ore di pratica, diciamo 5mila, era ancora difficile distinguere chi eccelleva e chi no, e che invece era più semplice farlo andando a vedere chi aveva continuato a esercitarsi per molto più tempo, diciamo 10mila ore. In sostanza lo studio sosteneva che, oltre al talento, era determinante l’allenamento; e che anche se c’era il talento, senza l’allenamento rimaneva in un certo senso latente. Tra i violinisti più bravi non c’era nessuno che si allenava una volta al mese, solo quando gli andava. «Molte caratteristiche che si credevano associate a un talento innato sono in realtà il risultato di allenamento fatto nell’arco di almeno dieci anni», si leggeva nelle conclusioni.
Lo studio, tra l’altro, non citava mai in modo diretto le 10mila ore: parlava di quattro ore al giorno, cinque giorni a settimana, per dieci anni (che facendo i necessari calcoli corrispondono a circa 10mila ore). Inoltre, faceva un chiaro riferimento alla «pratica deliberata», cioè all’allenamento o alle lezioni fatte per scelta e non per obbligo. E al fatto che alla base di tutto, comunque, ci fosse del talento.
Nel 2008 Malcom Gladwell, giornalista e autore di libri per certi versi motivazionali, pubblicò Fuoriclasse. Storia naturale del successo. Il libro parlava di come certi fuoriclasse dei loro ambiti – come i Beatles, Bill Gates o J. Robert Oppenheimer – lo fossero diventati grazie a determinate precondizioni ma, soprattutto, perché avevano potuto e voluto allenarsi per almeno 10mila ore. Gladwell spiegò che l’allenamento non era tutto e che serviva altro, ma scrisse comunque che 10mila ore erano il «numero magico della grandezza».
L’idea fu ripresa da altri saggi, ma fu grazie al libro di Gladwell che divenne popolare e persino abusata: d’altra parte era seducente, visto che descriveva come concretamente raggiungibili dei livelli di abilità straordinari, seppur allenandosi moltissimo. La cosa non fece piacere a Ericsson, che nel 2012 scrisse un testo dal titolo “I rischi di quando si delega la divulgazione ai giornalisti” in cui criticò Gladwell per aver tratto conclusioni che nello studio originale non c’erano, per aver «inventato» la regola delle 10mila ore e per «non aver nemmeno menzionato il concetto di “pratica deliberata”», che tira in ballo la qualità, oltre alla quantità. Ericsson descrisse così la regola di Gladwell: «Una popolare ma semplicistica versione del nostro lavoro, che suggerisce che bastino un po’ di ore di allenamento per diventare automaticamente un esperto e un campione in ogni ambito». Le 10mila ore, spiegò Ericsson, erano un tempo medio che accomunava chi eccelleva nel piano o nel violino; non un traguardo da superare. Tra i violinisti c’era chi aveva messo insieme 25mila ore di allenamento: se ne fossero bastate 10mila, a un certo punto si sarebbero fermati.
Nel 2014 uscì uno studio che sminuì le premesse dello studio del 1993 e diede alla pratica e all’allenamento un’importanza quasi marginale. Altri criticarono Gladwell, e in certi casi anche Ericsson, dicendo che l’allenamento e l’esercizio servono tanto in contesti stabili e regolari, come gli scacchi o il golf, ma molto meno altrove: se è vero che i Beatles si allenarono molto, fece notare qualcuno, è anche vero che Sid Vicious dei Sex Pistols sapesse a malapena suonare il basso. Eppure.
Questa settimana, infine, è uscito un nuovo studio di cui l’autrice, la psicologa Brooke Macnamara, dice: «Quando si tratta di capacità umane, entra in gioco un complesso insieme di fattori ambientali e genetici che, messi insieme, spiegano la differenza di risultati anche a parità di pratica». Nei violinisti del suo studio Macnamara non ha trovato grandi correlazioni tra bravura e ore di pratica. E ha aggiunto: «Nella maggior parte dei casi, l’allenamento ti rende migliore di come eri ieri. Ma potrebbe non renderti migliore del tuo vicino. O di quell’altro ragazzo che frequenta la tua stessa lezione di violino».