Cinque anni fa il Gamergate rese internet un posto peggiore
Fu una campagna online di minacce e molestie come non se ne erano mai viste prima, che anticipò molto dei successivi anni
«Il 15 agosto 2014 un ex fidanzato di poco più di vent’anni pubblicò un sermone di 9.425 parole che diede il via a una serie di indegni eventi che cambiarono il modo in cui si litiga online». Inizia così un progetto interattivo del New York Times che racconta cosa fu e cosa continua a rappresentare il cosiddetto “Gamergate”, un’intensa campagna di insulti, minacce e molestie contro le donne nel mondo dei videogiochi, che iniziò su internet ma poi finì anche altrove. La tesi del progetto del New York Times è che il Gamergate fu il primo grande evento che mostrò come un gruppo di persone, con i giusti mezzi e le necessarie competenze, potesse «combattere una guerra delle informazioni nell’era della post-verità». Di come fosse cioè possibile, partendo da futili premesse, avere un grande impatto sulle opinioni di alcune persone e sulle vite di altre.
Il Gamergate (“videogiocopoli”, a voler cercare un modo di dirlo in italiano) iniziò il 15 agosto 2014 con quel sermone: la ragazza che veniva denigrata e insultata era la sviluppatrice di videogiochi Zoë Quinn. In quasi diecimila parole scritte su un blog che allora non seguiva nessuno, l’ex fidanzato dettagliava la loro relazione, le loro litigate e la loro vita sessuale, presentando anche estratti di mail e messaggi che la coppia si era scambiata. In quella «invettiva tutta in maiuscolo fatta apposta per diventare virale», l’ex ragazzo menzionava di sfuggita anche un giornalista di Kotaku, un sito di recensioni di videogiochi, alludendo a una possibile e non meglio definita relazione tra lui e Quinn. Ma era solo un piccolo pezzo di una più generale e offensiva invettiva di un ex fidanzato arrabbiato, senza nessuno rispetto per la ragazza con cui non stava più.
Una parte di internet si concentrò molto su quel dettaglio del giornalista di Kotaku e, senza alcuna base, iniziò a sostenere – scrivendolo in giro per internet: su Reddit, su Twitter e su siti famigerati come 4chan ed 8chan – che Quinn fosse andata a letto con il giornalista in cambio di una buona recensione per un suo videogioco. Tutto questo nonostante quel giornalista non avesse scritto nessuna recensione per nessuno dei videogiochi progettati da Quinn.
Una nicchia di utenti – all’inizio soprattutto giovani maschi bianchi molto appassionati di videogiochi – partì da quella presunta relazione tra Quinn e il giornalista per dire che il mondo dei videogiochi era corrotto o comunque poco limpido in certe sue dinamiche, e che la colpa era di alcune donne che volevano cambiare un mondo che – sempre a detta di quegli utenti – era e doveva essere soprattutto maschile. Non è vero, ovviamente: ora come allora, poco meno della metà delle persone che giocano ai videogiochi sono donne.
Le critiche riguardavano anche il fatto che alcuni videogiochi, in certi casi pensati o sviluppati anche da donne, mostravano personaggi che si allontanavano da alcuni stereotipi tradizionali (la principessa da salvare, per capirci, o l’eroina molto procace) per raccontare storie e personaggi più complessi, moderni e, in molti casi, apprezzati. Secondo qualcuno però non andava fatto: perché andava contro una certa tradizione, perché rompeva dei canoni o semplicemente per una forte misoginia.
Partendo da premesse senza senso, nell’arco di pochi giorni un numero sempre crescente di giovani uomini si mise a insultare e addirittura minacciare una serie di donne che avevano a che fare con il mondo dei videogiochi: oltre a Quinn, la critica e femminista Anita Sarkeesian e la programmatrice Brianna Wu, tra le altre.
È difficile tracciare una chiara storia e delineare dei chiari confini del Gamergate, che fu tante cose tutte insieme. Ma non è nemmeno fondamentale farlo: basta dire che fu perlopiù un pretesto dal quale partì quello che uno degli articoli dello speciale del New York Times definisce «una sfrenata campagna di molestie senza leader, fatta per preservare una cultura di internet dei maschi bianchi e mascherata da referendum sull’etica giornalistica e il politicamente corretto».
Era il 2014, internet esisteva da moltissimo e nessuno dei siti che furono usati per diffondere i messaggi del Gamergate era particolarmente nuovo. Non era nemmeno la prima volta che succedeva una cosa così: tattiche e dinamiche simili erano già state usate per altre campagne di molestie online contro altre persone, come quando un gruppo di utenti di 4chan (un postaccio di internet) creò finti profili di femministe che proponevano di abolire la festa del papà o di rifiutarsi di usare gli assorbenti perché simboli dell’oppressione del patriarcato, o come quando una donna nera fu insultata per aver fatto notare che durante una conferenza di lavoro alcuni uomini seduti dietro di lei facevano battute piene di doppi sensi. Già prima del 2014 gruppi di persone sfruttavano internet e la possibilità di anonimato che garantiva per insultarne altre, con pretesti futili e a volte addirittura inventati. Esistevano già la rabbia e la tossicità di certe discussioni online.
La differenza è che il Gamergate (chiamato così dall’hashtag #GamerGate con cui in genere se ne parlava) continuò a gonfiarsi e, scrive il New York Times, «strisciò fuori da certe paludi del web e divenne mainstream». Il Gamergate arrivò anche a chi non conosceva 4chan o non giocava ai videogiochi, ne parlarono giornali e telegiornali, negli Stati Uniti e poi anche nel resto del mondo: «un controverso dibattito sulla misoginia e le molestie nel mondo dei videogiochi», scrisse Repubblica nel novembre 2014. Il Gamergate poté crescere tanto e in fretta anche perché i social network stavano diventando sempre più popolari ma erano ancora pochissimo moderati: c’erano cioè pochissimi strumenti e modi per controllare, filtrare e eventualmente censurare insulti e minacce.
Inoltre, scrive il New York Times, «era un momento in cui internet si stava spostando dall’essere un posto fatto di anonimato e pseudonimi a uno che gira attorno a certe personalità o influencer». Alcuni di questi “influencer” – persone con un nome e un cognome, note e seguite da un certo numero di utenti – si misero a parlare di Gamergate, perché sapevano che facendolo avrebbero potuto guadagnare un certo seguito. A occuparsi del Gamergate, schierandosi a favore di molte delle tesi del “movimento”, fu tra gli altri Milo Yiannopoulos, un personaggio a metà tra l’attivista e il giornalista con idee notoriamente sessiste e di estrema destra, che avrebbe fatto parlare di sé per un altro paio di anni. La migliore sintesi di quanto successe la fece nel 2017 Steve Bannon, ex consulente di Donald Trump e allora direttore di Breitbart News, dove scriveva Yiannopoulos: «Capii che Milo poteva agganciarsi in un attimo a quei ragazzi. Potevi proprio attivare un esercito. Arrivavano per il Gamergate o chissà cos’altro, e poi li si poteva far restare con la politica e Trump».
Gamergate entrò quindi in un ecosistema più grande di tutte le cose simili che c’erano state prima, e lo fece grazie a certe persone e certi siti che seppero cavalcare un movimento che era nato “dal basso”, senza un leader o un piano d’azione. Una serie di insulti riuscì a trovare un certo tipo di legittimazione, a essere in certi casi motivata, supportata e giustificata come un dibattito generale sul sessismo, la mascolinità o chissà che altro. Come tutte le cose di internet, a un certo punto il Gamergate si sgonfiò e si passò ad altro, ma lasciò un segno che il New York Times descrive così:
Oggi, cinque anni dopo, gli elementi del Gamergate sono terribilmente attuali: centinaia di migliaia di tweet stracolmi di hashtag; eserciti di profili fake; bufale e notizie false che colano da chat e forum prima di spargersi confusamente in qualche medium mainstream; boicottaggi pubblicitari, campagne diffamatrici dal basso, meme razzisti, sessisti e misogini […].
In inglese oggi si usa dire, per parlare di certi mali di internet, “Everything is Gamergate”, che tra l’altro è anche il titolo dello speciale del New York Times, che aggiunge che “tutto è Gamergate” anche nel modo in cui le «potenze straniere usano profili automatici per manipolare l’opinione pubblica», nel modo in cui Donald Trump usa Twitter, nelle dinamiche del cosiddetto Pizzagate, una sparatoria nata da una notizia falsa. Il Gamergate fu il prototipo e fornì le linee guida, ma poi è arrivato molto altro, reso più potente dalla crescita di internet e di strumenti e tecnologie che possono essere usate oggi.
Oltre ad analizzare cosa fu il Gamergate, il New York Times si è occupato anche di chi lo subì, come Quinn, Sarkeesian o Wu. Immaginatevi di fare un lavoro normalissimo, senza nemmeno essere famosi, e improvvisamente trovare sempre più sconosciuti che vi insultano e vi minacciano di morte, che diffondono online il vostro indirizzo e il vostro numero di telefono, che si spacciano per voi attribuendovi azioni e parole di cui vergognarsi. A Sarkeesian è capitato di dover annullare una conferenza perché qualcuno, su internet, aveva detto che se lei fosse andata avrebbe fatto una strage. Quinn ha visto finire online alcune sue foto private in cui era nuda, e ha raccontato di non essere più potuta tornare nella sua casa di Boston perché, dopo che nel 2014 si iniziò a parlare di lei, qualcuno trovò e diffuse il suo indirizzo. Fu piuttosto facile, perché dopo l’attentato alla maratona di Boston del 2014 Quinn aveva messo la sua casa e il suo numero di telefono in un registro pubblico creato per chi avesse avuto bisogno di aiuto. Una volta che si diventa vittime di qualcosa come il Gamergate, bisogna stare improvvisamente attenti a tutto ciò che si diffonde su di sé: banalmente, è sconsigliato far spedire un pacco alla propria abitazione, con il proprio nome e indirizzo; è sconsigliato mettere foto dalle proprie vacanze che facciano capire dove ci si trovi; è sconsigliato registrare a proprio nome qualsiasi tipo di utenza.
Quinn ha detto, del Gamergate: «Fu un intero meccanismo perfezionato per deformare la realtà e usare tutto quello che di internet potrebbe essere così bello per distruggere le vite delle persone: è una guerra digitale, e le uniche persone che se ne interessano sono quelle che vogliono usarla per fare del male agli altri».