Faremmo la guerra, per l’Amazzonia?
Se lo chiede Foreign Policy, facendo un'ipotesi astratta ma neanche tanto: è fondamentale per la sopravvivenza del pianeta, ma quali opzioni ha il pianeta se il Brasile smette di prendersene cura?
Sulla rivista Foreign Policy il politologo e docente di Harvard Stephen Walt ha provato a rispondere ad alcune domande sul futuro della foresta amazzonica, uno degli ecosistemi più importanti per la vita sulla Terra, a rischio a causa della deforestazione e del cambiamento climatico: chi la salverà? Come? E fino a che punto ci spingeremo per evitare la sua fine? Sembrano domande molto astratte, ma non lo sono: solo i paesi dove si trova la foresta amazzonica possono concretamente fare qualcosa, ma i problemi della foresta amazzonica riguardano tutto il pianeta. Se questi paesi smetteranno di prendersene cura, gli altri cosa faranno? Potranno permettersi di restare a guardare, sapendo che la fine della foresta amazzonica avrebbe conseguenze disastrose in tutto il mondo?
L’articolo di Walt parte da uno scenario immaginario:
Siamo nel 2025. Il presidente degli Stati Uniti – Gavin Newsom, attuale governatore della California, Democratico e ambientalista – manda un messaggio al Brasile: “Avete una settimana di tempo per interrompere la deforestazione dell’Amazzonia, poi istituiremo un blocco navale e cominceremo a bombardare infrastrutture sensibili”. Si è arrivati a quel punto dopo un preoccupante rapporto delle Nazioni Unite, secondo cui manca poco al momento in cui i danni alla foresta amazzonica saranno irreversibili, con gravi conseguenze per tutto il pianeta. La Cina non è d’accordo a intervenire, ma gli Stati Uniti si mettono a capo di una coalizione di paesi e prendono l’iniziativa. Al Brasile naturalmente viene offerta un’alternativa: interrompere le attività distruttive in Amazzonia e accettare aiuti internazionali per coprire i mancati guadagni.
È uno scenario un po’ esagerato, ammette lo stesso Walt, ma serve per capire quale potrebbe essere la situazione tra qualche anno: si arriverebbe a un intervento militare – o a discuterlo – per evitare un disastro che potrebbe avere conseguenze irreversibili? È possibile sostenere, si chiede Walt, che in queste circostanze gli altri stati abbiano il diritto – o il dovere – di intervenire? Innanzitutto bisogna capire cosa ci sarebbe in gioco.
L’Amazzonia è la più grande foresta pluviale al mondo, con una superficie totale di circa 5,5 milioni di chilometri quadrati – circa sedici volte l’Italia intera – che si trovano per più del 60 per cento in territorio brasiliano. È uno degli ecosistemi più ricchi al mondo ed è fondamentale, tra le altre cose, per la rimozione di anidride carbonica nell’atmosfera (ne assorbe 2 miliardi di tonnellate all’anno) e per il suo ruolo centrale nel rilascio di vapore acqueo, che determina poi la quantità di piogge e di conseguenza un sacco di altre cose, dalle correnti oceaniche alle temperature globali.
Per la sua importanza per il clima, la foresta amazzonica è uno degli ecosistemi più studiati e controllati che esistano, con progetti finanziati da paesi di tutto il mondo. La sua importanza è così grande che già oggi è riconosciuto da tutti che non possa e debba essere il solo Brasile a occuparsene. La protezione della foresta amazzonica si scontra però con enormi interessi economici dei paesi dove si trova, il Brasile prima degli altri. Da tempo si parla dei rischi della continua deforestazione dell’Amazzonia, dove gli alberi vengono tagliati – tra le altre cose – per ottenere enormi pascoli per l’allevamento, per la coltivazione e per la produzione di legname. È un problema grave: solo in Brasile nel 2018 era stato deforestato il 20 per cento della superficie che nel 1970 era coperta da foresta e da tempo si parla di un “punto di non ritorno”, quando l’ecosistema non sarà più in grado di tenersi in equilibrio e scomparirà progressivamente.
Le preoccupazioni sul futuro della foresta amazzonica si sono fatte più gravi negli ultimi mesi, dopo l’elezione a presidente del Brasile di Jair Bolsonaro, un populista di estrema destra da sempre favorevole allo sfruttamento dell’Amazzonia che aveva spesso parlato di «psicosi ambientalista» per definire le preoccupazioni sul suo futuro. Dopo anni in cui il Brasile era diventato un modello per la lotta alla deforestazione, Bolsonaro ha invertito completamente la rotta, riducendo le sanzioni, gli avvertimenti e i sequestri operati dalle autorità brasiliane verso le società che partecipano alla deforestazione violando le regole, e in generale facendo capire molto chiaramente a chi distrugge la foresta di non dover temere grandi conseguenze. Gli effetti delle sue decisioni e posizioni, secondo molti, si sono già visti con i più alti tassi di deforestazione da anni e un aumento del numero degli incendi.
Tornando alle domande di Walt, si capisce quindi come non siano così astratte. Davanti a uno scenario di continua devastazione, che potrebbe portare a gravissime conseguenze per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, non sarebbe giusto per la comunità internazionale intervenire? Forse sì, ma non sarebbe una cosa semplice.
Uno degli elementi fondamentali degli attuali equilibri mondiali, ricorda Walt, è il concetto della sovranità statale: quello per cui gli stati nazionali, nei loro confini, possono fare quello che vogliono, quindi anche tagliare gli alberi di una foresta unica e importantissima. Naturalmente a questo principio ci sono diverse eccezioni: gli stessi paesi possono decidere limitazioni della propria sovranità cedendo poteri a organizzazioni internazionali o accettando interventi di aiuto della comunità internazionale, che a sua volta può intervenire per sanzionare violazioni delle leggi internazionali e in casi estremi addirittura autorizzare attacchi militari, quando ci sono fondatissimi timori di un pericolo imminente.
Gli stessi fondi internazionali per la protezione dell’Amazzonia possono essere considerati, semplificando un po’, una forma di intervento straniero. Il fatto che recentemente la Norvegia e la Germania abbiano comunicato il taglio dei loro finanziamenti al fondo brasiliano per la salvaguardia della foresta amazzonica può essere interpretato come una forma di pressione al governo brasiliano affinché torni sulla strada della protezione ambientale. Oltre a questo, però, è difficile immaginare che esistano dei modi per costringere il Brasile a proteggere l’Amazzonia: ogni paese ha il governo che i suoi cittadini scelgono, e resiste molto tenacemente ai tentativi di limitazione della sua sovranità. Basti pensare alle discussioni degli ultimi anni in Italia sui rapporti con l’Unione Europea.
Gli strumenti legali per intervenire ci sarebbero anche, dice Walt, che cita studi e analisi secondo cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrebbe la possibilità di usare la forza militare contro paesi che minacciano la stabilità del mondo a causa della loro inattività nella lotta ai cambiamenti climatici. Di nuovo: farlo potrebbe anche sembrare giusto, e permesso dalle norme internazionali, ma sarebbe molto complicato.
Non è difficile capire come mai. Togliamo un momento dallo scenario il Brasile: è pensabile che la comunità internazionale minacci seriamente gli Stati Uniti o la Cina affinché comincino a inquinare di meno? I paesi che hanno maggiore impatto sul clima mondiale, ricorda Walt, non sono quelli come il Brasile, ma i più ricchi e militarmente potenti al mondo. Cina, Stati Uniti, India e Russia sono tutte potenze nucleari e sono le principali produttrici di gas serra al mondo. «Minacciare una di queste potenze con delle sanzioni non servirebbe a nulla, e minacciarle di un serio intervento militare è completamente irrealistico», dice Walt; ma anche minacciare un paese militarmente più debole come il Brasile sarebbe irrealistico, perché nessun paese al mondo accetterebbe di istituire un simile precedente e le Nazioni Unite non lo permetterebbero.
Nello scenario di partenza, l’uso della forza sarebbe deciso dagli Stati Uniti al di fuori delle istituzioni internazionali: una cosa non impossibile, visti i precedenti, ma che per ora esiste solo in scenari immaginari. Le alternative però quali sono? I tentativi diplomatici per convincere il Brasile non avrebbero probabilmente alcun effetto. Le sanzioni economiche porterebbero probabilmente a una grossa crescita del nazionalismo e rischierebbero di non avere l’effetto desiderato. E il Brasile d’altra parte potrebbe argomentare come fanno già diversi paesi in via di sviluppo: nel corso del Novecento voi vi siete arricchiti inquinando il mondo, e ora noi dovremmo pagarne le conseguenze? Anche gli incentivi economici per i paesi che devono fare delle rinunce per garantire la salvaguardia ambientale potrebbero funzionare sul breve periodo ma creare delle distorsioni a lungo andare, con paesi che potrebbero “creare” dei problemi in modo da ricevere dei contributi economici per risolverli.
«Queste sono tutte congetture: ho solo cominciato a pensare a queste implicazioni e a questi dilemmi», conclude Walt. «Però penso di sapere questo: in un mondo di stati sovrani ognuno di loro continuerà a fare quello che pensa sia meglio per proteggere i propri interessi. Se le azioni di uno stato mettono in pericolo il futuro di tutti gli altri, le possibilità di uno scontro e di un conflitto aumentano enormemente. Questo non rende inevitabile l’uso della forza, ma per evitarlo serviranno sforzi continui, energici e molto creativi».