In Sudan militari e civili si sono ufficialmente messi d’accordo
Oggi è stato firmato l'accordo per l'istituzione di un nuovo governo, composto per la maggior parte da civili
Il Consiglio militare del Sudan e i capi delle proteste civili che lo scorso aprile portarono alla fine del regime di Omar al Bashir hanno ufficialmente firmato l’accordo per l’istituzione di un nuovo governo. L’accordo, su cui le parti avevano convenuto il 4 agosto dopo lunghe trattative mediate dall’Unione Africana e dall’Etiopia, prevede la creazione di un Consiglio formato da 11 membri, sia civili che militari, che governerà il Sudan per i prossimi tre anni in attesa di tenere nuove elezioni. Per i primi 21 mesi il leader del Consiglio sarà un militare, mentre per i restanti 18 sarà un civile.
I nomi dei membri del Consiglio saranno annunciati domani, mentre martedì sarà nominato ufficialmente il primo ministro. È infatti previsto che il Consiglio venga affiancato da un gabinetto di tecnici scelti dalle organizzazioni civili che avevano guidato le manifestazioni contro Bashir; le uniche eccezioni saranno il ministro dell’Interno e quello della Difesa, che saranno scelti dai membri militari del Consiglio. Giovedì i capi delle proteste civili si sono messi d’accordo per nominare come primo ministro l’economista ed ex funzionario delle Nazioni Unite Abdalla Hamdok. I nomi dei suoi ministri, cioè degli altri membri del gabinetto, saranno comunicati a fine mese. La prima riunione tra il gabinetto e il Consiglio invece è in programma per il primo settembre.
L’accordo firmato oggi prevede anche l’istituzione di un organo legislativo la cui maggioranza sarà garantita alle Forze per la dichiarazione della libertà e del cambiamento, la principale coalizione filo-democrazia. Sarà costituito entro tre mesi e secondo i termini dell’accordo dovrà essere per almeno il 40 per cento composto da donne.
Dopo l’arresto di Bashir, che aveva governato il Sudan per quasi trent’anni, il potere era passato nelle mani dei militari. Avevano promesso di condividerlo con i civili, ma nel corso dei mesi avevano temporeggiato, causando numerosissime proteste in cui decine di manifestanti erano stati uccisi. Ora le cose potrebbero cambiare.
È però ancora presto per parlare di democrazia in Sudan, per diverse ragioni. Si teme che i militari possano rinunciare a passare il potere ai civili e impongano nuovamente un loro regime usando la violenza e la repressione. Le incertezze derivano non solo dalla lunghezza del periodo di transizione – tre anni, di cui 21 mesi guidati da un militare – ma anche dalle difficoltà di organizzare elezioni libere dopo quasi tre decenni di governo autoritario di Bashir e di smantellare le strutture burocratiche e di potere legate al regime in numerose istituzioni e settori dell’economia. Moltissime società appartengono all’esercito. Tra gli organizzatori delle proteste di questi mesi alcuni pensano che i militari non abbiano ceduto abbastanza potere né garantito giustizia per le persone uccise dall’esercito negli scontri avvenuti finora.
C’è particolare preoccupazione intorno alla figura del generale Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagolo, considerato da molti come l’uomo più potente del Sudan. Fino a pochi anni fa era il leader di Janjaweed, una milizia che negli anni Duemila durante la guerra in Darfur, regione occidentale del Sudan, fu assoldata dal governo e si rese responsabile di enormi violenze e crimini di guerra contro le comunità non arabe della regione. Molti dei membri della milizia furono poi perlopiù assorbiti da un gruppo paramilitare molto potente, le Rapid Support Forces (RSF), di cui oggi Hemedti è il leader: sono accusate di aver compiuto molte violenze in questi mesi di proteste. Hemedti ha comunque detto che rispetterà i termini dell’accordo tra militari e civili.
Per quanto riguarda Bashir, proprio oggi dovrà comparire in tribunale per un processo per corruzione e riciclaggio di denaro per via dei più di 113 milioni di dollari in contanti che erano stati trovati nella sua residenza. È difficile dire cosa succederà all’ex presidente in futuro. Fuori dal Sudan è valido un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti emesso nel 2008 dalla Corte Penale Internazionale, che lo ha accusato di avere compiuto il genocidio in Darfur dal 1989.