Perché “Kind of Blue” è così importante
60 anni fa Miles Davis pubblicò il disco più venduto della storia del jazz, che non sarebbe mai più stato la stessa cosa
di Stefano Vizio
Nel 1959, l’anno che uscì il disco di Miles Davis Kind of Blue, il jazz era in un momento strano della sua storia. Per oltre un decennio era stato l’indiscutibile avanguardia della musica statunitense e una delle più efficaci manifestazioni della vivacità e della raffinatezza della cultura popolare americana. Ed era stato, fino a quel momento, una musica quasi unicamente afroamericana nei suoi interpreti, nella sua estetica, nei suoi linguaggi. Qualcosa però stava cambiando. Charlie Parker, il più grande sassofonista che fosse mai esistito, era morto da ormai quattro anni. E con lui era andata scemando l’energia e la vitalità del bebop, il sottogenere del jazz che senza esagerare aveva rivoluzionato l’idea stessa di cosa fosse la musica occidentale, tra le altre cose per aver messo al centro la sua esecuzione dal vivo. Il rock ‘n roll stava muovendo i suoi primi passi, a sua volta grazie ad alcuni visionari musicisti neri, mentre altri musicisti bianchi stavano dimostrando di sapere a loro volta fare del gran jazz, da Dave Brubeck a Chet Baker.
I vecchi paradigmi su cui si era basato il jazz nei quindici anni precedenti stavano cominciando a stare stretti ai musicisti, che stavano pian piano trovando il modo di sfogare questa loro insofferenza rompendo sempre più regole e ritrovando la propulsione creativa tipica del primo bebop in forme musicali sempre più libere e intellettuali. Davis nel 1959 aveva 33 anni ed era già una celebrità, prima come trombettista bebop e poi come leader di band di talento spropositato, capaci di ridefinire l’estetica di un genere come era successo anni prima con Birth of the Cool, un disco che aveva portato all’estremo compimento tutti gli aspetti del bebop, segnandone sostanzialmente la fine.
Passato nel 1956 alla casa discografica Columbia, Davis era uno dei jazzisti più potenti e influenti di quel periodo, e aveva a disposizione la massima libertà creativa e i migliori musicisti in circolazione. Negli anni precedenti aveva messo insieme il suo cosiddetto “primo grande quintetto”, che però era andato incontro a varie sostituzioni e aggiunte, diventando un sestetto. Alla sezione ritmica c’erano Jimmy Cobb e Paul Chambers, rispettivamente alla batteria e al contrabbasso, mentre ai fiati c’erano Cannonball Adderley, che suonava il sax alto e aveva un’impostazione più classicamente blues, e John Coltrane, uno che da qualche anno era considerato tra i migliori del giro e che però doveva ancora essere decifrato, un po’ per il suo carattere introverso e un po’ per il suo stile ancora in definizione.
Al piano Davis aveva assoldato Bill Evans, un musicista bianco che aveva le sue stesse idee su un sacco di cose, idee che in quel momento erano rarissime se non uniche nella scena jazz. Davis infatti si era stufato dei funzionamenti alla base del bebop, e stava cercando un modo di suonare che permettesse una maggiore libertà espressiva, che consentisse più possibilità nell’esplorazione melodica. Quello che Davis aveva in testa era un modo nuovo di pensare le improvvisazioni, che da quindici anni rappresentavano il cuore della musica jazz. Per sua fortuna, qualche anno prima il compositore e pianista George Russell aveva pubblicato un libro fino ad allora semisconosciuto, sul quale Davis avrebbe basato una delle più importanti rivoluzioni della musica del Novecento.
In Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization, Russell introdusse l’idea di musica modale. Semplificando moltissimo un concetto che spesso è difficile da comprendere anche per chi studia musica, Russell propose un nuovo tipo di improvvisazione, che non si basasse più sugli accordi ma su una serie di scale dette appunto “modali”. Queste scale non erano quelle tradizionali, maggiori o minori, ma avevano nomi come eolica, misolidia, frigia o locria, ed erano associate a dei “modi”, ciascuno dei quali era collegato a un’atmosfera o a un sentimento diversi. Può sembrare fantascienza, ma Russell non si era inventato niente: le note di quelle scale erano sempre sette, ed erano ovviamente prese tra le dodici note esistenti nella musica occidentale, ma gli intervalli tra di loro erano diversi da quelli associati alle tradizionali scale maggiori e minori.
L’armonia alla base del bebop si basava su una progressione rapida e molto ritmata di accordi. Queste progressioni si basavano a loro volta su schemi consolidati e complessi, e rappresentavano una griglia strettissima all’interno della quale dovevano muoversi i musicisti nelle improvvisazioni: essenzialmente, un normale assolo bebop consisteva in virtuosi arpeggi suonati sulle scale – maggiori o minori – associate a ciascun accordo. A ogni cambio di accordo, cambiavano le note suonate dai musicisti: ma sempre quelle erano. Chi improvvisava doveva sempre pensare all’accordo successivo, e ogni 32 battute tutta la progressione si ripeteva. Ovviamente i migliori jazzisti si muovevano in questi schemi con una naturalezza incredibile, senza pensare a ogni battuta alle note permesse e a quelle vietate: ma per quanto naturale fosse, le improvvisazioni erano vincolate a quel tipo di ragionamento.
Davis voleva suonare in modo diverso, e capì come farlo dopo aver conosciuto Russell. Sostanzialmente, con il jazz modale Davis si liberò non tanto degli accordi quanto dei vincoli che si portavano dietro. Per farlo sviluppò un nuovo tipo di armonia, basata su progressioni in cui gli accordi si alternavano con meno frequenza, ed erano suonati in modo diverso. Qui entrò in gioco Bill Evans, che come Davis si era appassionato alla musica modale e che aveva perfezionato un modo di suonare gli accordi senza suonare la tonica, cioè la nota che definisce – e dà il nome – all’accordo. In questo modo il tappeto armonico dei brani era più sospeso e meno “quadrato”, e dava maggiori libertà ai musicisti solisti. Questi ultimi, da parte loro, erano invitati a suonare senza pensare agli accordi ma a una serie di scale e ai “modi” che evocavano.
Le improvvisazioni della band di Davis cominciarono quindi ad assumere un ruolo diverso nell’economia dei brani. Se nel bebop c’era un tema (la melodia orecchiabile), seguito da una serie vorticosa di improvvisazioni concluse poi da una ripetizione del tema, i pezzi del nuovo jazz modale erano diversi. C’erano sempre i temi, ma nelle improvvisazioni i musicisti erano invitati a crearne di nuovi, sviluppando melodie più efficaci, più libere e più armoniose, meno macchinose di quelle del bebop. La possibilità di attingere a scale diverse, ciascuna con un “modo” associato, senza preoccuparsi dell’accordo sottostante e di quello che lo avrebbe immediatamente seguito, rendeva tutto possibile. Nel 1958 il sestetto di Davis registrò quello che si ritiene essere il primo pezzo del jazz modale, “Milestones”.
Ebbe un grande successo e soddisfò molto Davis, che si mise al lavoro per un intero disco “modale”. Convinse i suoi musicisti, che nel frattempo stavano intraprendendo sempre più a tempo pieno le carriere soliste, a tornare insieme e il 2 marzo li radunò ai Columbia Studios di Manhattan. Coltrane, Adderley, Chambers e Cobb non avevano idea di cosa avrebbero suonato; Evans ce l’aveva un po’ di più, ma l’unico ad avere le idee davvero chiare era Davis. Invece di consegnare ai musicisti dei tradizionali spartiti, diede loro delle essenziali annotazioni con delle serie di scale e delle linee melodiche. Quel giorno la band registrò “So What”, “Freddie Freeloader” e “Blue in Green”. Nel secondo giorno di registrazione, arrivato il 22 aprile, sette settimane dopo, la band registrò “All Blues” e “Flamenco Sketches”. Quello che secondo la maggior parte dei critici è il più importante disco della storia del jazz fu concluso interamente in due giorni di registrazioni.
Non tutto Kind of Blue è in realtà un disco modale. “Freddie Freeloader” e “All Blues” sono infatti due pezzi molto tradizionali, basati su una progressione blues. Ma negli altri tre Davis e la sua band applicarono totalmente i concetti sviluppati da Russell e perfezionati da Davis ed Evans, creando una cosa che non si era mai vista prima. Gli assoli del disco sono estremamente melodici, soprattutto quelli di Coltrane, che aveva uno stile più istintuale e meno conservatore di quello di Adderley.
Uno degli esempi più efficaci è “So What”: l’intero pezzo si basa su una progressione di una semplicità quasi primitiva, sedici battute di Re minore, otto di Mi bemolle minore, altre otto di Re minore, in modo “dorico”. Il tema, uno dei più famosi della storia del jazz, si basa su un botta e risposta essenziale tra contrabbasso e tromba, che presto lascia spazio all’assolo di Davis, che sviluppa una serie di melodie talmente efficaci e musicali che funzionano sostanzialmente come “nuovi temi”, ripresi più volte e ripetuti con variazioni.
Quando subentra Coltrane comincia riprendendo a sua volta una delle ultime melodie proposte da Davis, aumentando la velocità per sviluppare le sue nuove soluzioni melodiche, per esempio ripetendo frasi molto simili su registri diversi. Adderley, nella sua improvvisazione, suona subito una serie di motivi discendenti molto orecchiabili e simili tra loro, con sonorità tipicamente blues, e a tratti propone invece rapide scale più tradizionali, che ricordano gli assoli bebop. L’ultimo assolo è quello di Evans, che suona degli accordi usando il pianoforte quasi come uno strumento a percussione. La sua è l’improvvisazione più essenziale e dimessa, ma in realtà nell’accompagnamento di “So What” Evans non ripete praticamente mai la stessa cosa: tutta la sua parte non è altro che un lunghissimo dialogo con i solisti.
Il tema inizia a 0.33; l’assolo di tromba di Davis comincia a 1.31; l’assolo di sax di Coltrane comincia a 3.26; l’assolo di sax di Adderley comincia a 5.18; l’assolo di piano di Evans comincia a 7.07.
Kind of Blue ebbe da subito un enorme successo, sia di pubblico che di critica. Oggi si ritiene sia il disco jazz più venduto di sempre, con oltre quattro milioni di copie, ed è in cima alla stragrande maggioranza delle classifiche dei migliori dischi jazz di sempre. Fu un disco che aprì un’epoca nuova nel genere, insieme all’altra grande innovazione di quegli anni, il free jazz. A differenza del jazz modale, il free jazz risolse i vincoli delle progressioni armoniche del bebop rifiutando (quasi) tutte le regole, invece che adottandone di nuove. Lo teorizzò Ornette Coleman in The Shape of Jazz to Come, che uscì alla fine dello stesso anno.
Il jazz suonato in precedenza non finì il giorno che uscì Kind of Blue. Coltrane, per esempio, pubblicò l’anno successivo Giant Steps, un disco che portava all’estremo l’improvvisazione basata sui cambi di accordi. Ma diventò presto chiaro che la musica stava andando in un’altra direzione, e che c’era stato un prima e un dopo il 1959. The Shape of Jazz to Come e Kind of Blue furono i due dischi che inaugurarono il jazz del decennio successivo, e che influenzarono pesantemente anche i musicisti rock che attinsero a piene mani non tanto dalle innovazioni nella teoria musicale quanto dall’impostazione mentale che stava dietro a quelle innovazioni.
Ma la vera grandezza di Kind of Blue, si dice spesso ancora oggi, è di aver saputo concretizzare questa rivoluzione musicale in un disco che è indiscutibilmente bellissimo, e che peraltro piace generalmente a tutti, anche a chi non sa niente di quello che c’è dietro, e addirittura a chi normalmente detesta il jazz. È un disco che si presta a molti piani di lettura, che viene suonato ogni giorno come sottofondo nei cocktail bar del mondo e sul quale vengono contemporaneamente tenuti seminari universitari, e che continua a essere in cima alle liste dei consigli sui dischi da cui partire per cominciare ad ascoltare jazz.