La crisi di Hong Kong, spiegata bene
Le contraddizioni secolari di un posto unico al mondo sembrano arrivate a un punto di rottura: chi protesta, da quanto, perché e come
La crisi a Hong Kong va avanti da due mesi e mezzo, con manifestazioni e proteste che si tengono ogni weekend e che incontrano la repressione sempre più violenta della polizia, la condanna del governo locale e la minaccia di un intervento militare cinese. Quello che sta accadendo sta attirando parecchie attenzioni per la particolare storia di Hong Kong, che fino al 1997 fu controllata dal Regno Unito e governata secondo le sue leggi, e poi passò sotto il controllo della Cina, che cominciò fin da subito a essere molto presente nella vita politica del territorio.
Un movimento di protesta si era già manifestato negli ultimi anni, ma oggi sembra essere diventato più determinato, organizzato e bellicoso.
Un passo indietro: cos’è Hong Kong
Dal punto di vista geografico, Hong Kong è composta dall’isola principale (chiamata appunto Hong Kong), dalla penisola di Kowloon, dai cosiddetti Nuovi Territori e da più di 200 altre isole, di cui la più grande è Lantau. Si trova circa duemila chilometri a sud di Pechino, affacciata sul delta del fiume delle Perle e sul Mar Cinese Meridionale. Ci abitano 7 milioni di persone, in poco più di mille chilometri quadrati, una superficie meno estesa della provincia di Vibo Valentia.
Dal 1997 Hong Kong è una regione amministrativa speciale cinese, cioè fa parte della Cina ma ha una forma di autonomia. Prima, dal 1842, era stata una colonia britannica strappata all’Impero cinese dopo la guerra dell’Oppio. Inizialmente i britannici controllavano solo l’isola di Lantau, ma negli anni seguenti si espansero sulla terraferma e nel 1898 ottennero dalla Cina la cessione per 99 anni dei territori che corrispondono all’attuale Hong Kong. A parte il periodo della Seconda guerra mondiale, Hong Kong rimase per decenni sotto il controllo del Regno Unito, con un’economia aperta al capitalismo; il sistema scolastico era modellato su quello inglese, così come quello giuridico e legislativo. A Hong Kong una ricca comunità di europei conviveva con gli esuli cinesi scappati dall’avvento di Mao e del comunismo.
Nel 1979, con la scadenza della cessione che si avvicinava, l’allora governatore di Hong Kong – lo scozzese Murray MacLehose – chiese al presidente cinese Deng Xiaoping come la si dovesse affrontare. Deng voleva che Hong Kong venisse restituita alla Cina. Nel 1984 il primo ministro cinese e quello britannico firmarono a Pechino la Dichiarazione congiunta sino-britannica: stabiliva che tutti i territori di Hong Kong sarebbero tornati a far parte della Cina a partire dal primo luglio 1997, anche se la Cina si impegnava a non instaurare immediatamente il sistema socialista, lasciando invariato il sistema economico e politico della città per almeno 50 anni, fino al 2047. Il primo luglio del 1997 una grande cerimonia presenziata dal principe Carlo d’Inghilterra, dal primo ministro britannico Tony Blair e dal presidente cinese Jiang Zemin sancì la restituzione e la fine del dominio coloniale britannico su Hong Kong.
Un paese, due sistemi
“Un paese, due sistemi” è il principio, stabilito da Deng, su cui si regge il complicato rapporto tra Cina e Hong Kong. Da un lato viene ribadita l’unità nazionale della Cina, dall’altro viene riconosciuta la diversità di Hong Kong, contraddistinta da un proprio ordinamento giuridico, politico e legislativo, e da un diverso sistema economico.
Hong Kong non è una piena democrazia: in una certa misura è sottoposta al rigido monopartitismo cinese. Alle elezioni possono presentarsi molti partiti, ma il capo del governo – che si chiama Capo dell’esecutivo e attualmente è Carrie Lam – è scelto dal ristretto numero di persone che compongono il Comitato elettorale. Questo è formato da 1.200 persone, scelte con un meccanismo molto complesso che si basa sull’assegnazione di un certo numero di rappresentanti a ordini professionali e settori economici della società, ed è pesantemente controllato dal governo cinese. Il sistema giudiziario è indipendente e si basa sulla common law, il principio del diritto consuetudinario dei paesi anglosassoni. La Legge Fondamentale di Hong Kong, scritta dopo il passaggio delle consegne tra Regno Unito e Cina, stabilisce anche che la città abbia “un alto grado di autonomia” in tutti i campi eccetto la politica estera e la difesa.
Hong Kong era considerata la cugina ricca, prospera e all’avanguardia della Cina e negli anni Ottanta e Novanta era vista come un modello per molti abitanti della Cina continentale. Quando i due paesi si riunirono, molti cinesi sperarono che la Cina diventasse un po’ più simile a Hong Kong, ma poi l’economia cinese cominciò a crescere a ritmi molto elevati, e le cose cambiarono. Oggi i rapporti tra abitanti della Cina continentale e abitanti di Hong Kong non sono sempre facili, anche a causa della propaganda del regime cinese che non spiega il vero motivo delle proteste in corso da due mesi e mezzo.
La rivoluzione degli ombrelli
La Cina nel tempo ha infiltrato il sistema economico di Hong Kong e molti ricchi cinesi hanno comprato le sue case migliori. Il Partito comunista cinese ha cercato inoltre di rafforzare la sua presa anche sul sistema politico e giudiziario. Il primo luglio 2014, durante le celebrazioni per l’anniversario della restituzione di Hong Kong alla Cina, a Hong Kong venne organizzata una manifestazione per chiedere più autonomia: fu l’inizio della cosiddetta “Rivoluzione degli ombrelli”.
Dietro c’era l’annuncio di una riforma del sistema elettorale: dal 2017 il Comitato elettorale vicino a Pechino avrebbe pre-approvato un massimo di tre candidati per il ruolo del Capo dell’esecutivo, che una volta eletto dalla popolazione sarebbe stato formalmente approvato dal governo centrale. Le proteste iniziarono a fine settembre come sit-in pacifici organizzati da vari enti: le organizzazioni studentesche Hong Kong Federation of Students e “Scholarism”, guidata dal 17enne Joshua Wong, che divenne il volto delle proteste, e Occupy Central, un movimento locale di disobbedienza civile che nel giugno del 2014 aveva organizzato un referendum per chiedere elezioni libere.
Le manifestazioni si allargarono e chiesero più autonomie, libertà democratiche e le dimissioni del governatore Leung Chun-ying, ritenuto troppo vicino alla Cina. Gli ombrelli che danno il nome alla protesta erano usati dai manifestanti per difendersi dagli spray al peperoncino e dai gas lacrimogeni utilizzati dalla polizia; le proteste furono perlopiù occupazioni pacifiche e gli scontri con i poliziotti furono rari e subito condannati. Dopo 79 giorni di occupazione, l’11 dicembre la zona dell’Ammiragliato, cioè il centro delle proteste, venne sgomberata dalla polizia, segnandone di fatto la fine.
In tutto vennero arrestate 955 persone, mentre circa 1.900 denunciarono la polizia. Il 3 dicembre i fondatori di Occupy Central si consegnarono alla polizia di Hong Kong, venendo rilasciati senza accuse. Wong venne arrestato insieme ad altri due attivisti, condannati a pene tra i 6 e gli 8 mesi di carcere; nel febbraio 2018 la Corte Suprema di Hong Kong ordinò di proscioglierli.
Nel giugno del 2015 il Parlamento di Hong Kong respinse la legge elettorale proposta dalla Cina con 28 voti contrari su 70 e solo 8 favorevoli (gli altri si astennero). Nonostante questo, la Cina continuò a far pesare la sua influenza e nel novembre del 2016 annullò l’elezione di due giovani parlamentari filo-indipendentisti che durante la cerimonia di giuramento si erano rifiutati di dichiarare fedeltà alla Cina con il discorso di rito.
Nel febbraio del 2016 c’erano stati gravi scontri tra polizia e manifestanti, che il Wall Street Journal ha definito il momento di passaggio dal pacifismo della Rivoluzione degli ombrelli alle proteste più violente di questi giorni. In quell’anno si parlò molto anche di cinque editori e librai vicini alla casa editrice Mighty Current, che pubblicava testi critici verso la Cina: nel 2015 erano scomparsi senza che se ne sapesse niente per mesi e secondo gli attivisti erano stati sequestrati dalla polizia cinese. Nell’ottobre del 2018 chiuse anche l’ultima libreria di Hong Kong che pubblicava testi censurati in Cina.
Nel 2017 si tennero le attese elezioni per il nuovo governatore: venne scelta la 59enne Carrie Lam, la prima donna a ricoprire questo ruolo, decisamente vicina alla Cina. Come stabilito dal sistema di Hong Kong, Lam era stata scelta dal Comitato apposito, di cui fa parte lo 0,03 per cento degli elettori di Hong Kong, e che è composto da notabili della città perlopiù fedeli al governo centrale cinese. Aveva ottenuto il 66,8 per cento dei voti ma nei sondaggi era data a 26 punti di distacco dal candidato più popolare. Alla cerimonia di insediamento, avvenuta il primo luglio, era presente anche il presidente della Cina, Xi Jinping.
Cosa sta succedendo adesso
Le nuove manifestazioni sono cominciate all’inizio di giugno e inizialmente riguardavano l’emendamento a una legge sull’estradizione che, se approvato dal Parlamento locale, avrebbe consentito di processare nella Cina continentale gli accusati di alcuni crimini gravi, come lo stupro e l’omicidio. La legge era stata proposta dopo che nel febbraio 2018 un 19enne di Hong Kong era stato accusato di aver ucciso la propria fidanzata di 20 anni durante una vacanza a Taiwan. Taiwan aveva cercato di ottenere l’estradizione del giovane, ma le leggi di Hong Kong non lo avevano permesso, cosa che sarebbe stata invece possibile con l’emendamento.
Ad aprile c’erano state alcune prime manifestazioni, ma solo a giugno erano diventate una cosa di massa, con migliaia di persone in strada. Secondo i movimenti e molti gruppi che difendono i diritti umani, l’emendamento sarebbe stato un primo passo verso l’ingerenza cinese nel sistema giuridico di Hong Kong e avrebbe consentito alla Cina di usarlo contro i suoi oppositori, perché nulla avrebbe impedito al regime di inventare accuse allo scopo di estradare qualcuno.
Il 12 giugno ci furono i primi scontri con la polizia, che respinse con violenza i manifestanti, usando spray urticanti e cannoni ad acqua: in tutto 72 persone vennero ferite, di cui due gravemente; 11 furono invece arrestate. Il 15 giugno Carrie Lam annunciò in una conferenza stampa la sospensione dell’emendamento, ma le proteste non si fermarono. In molti la accusarono di voler rimandare la discussione per disperdere le proteste e recuperare l’emendamento a settembre, con la riapertura dell’anno legislativo e scolastico (molti manifestanti sono studenti). Lam si ritrovò in una posizione scomoda: aveva deluso il governo centrale cinese e si era inimicata gli attivisti, che la condannavano per la repressione della polizia e la vicinanza a Pechino, chiedendone le dimissioni. Da allora le proteste non si sono fermate e si sono trasformate in una aperta ribellione contro la Cina, e nella richiesta di libertà e autonomia.
Gli scontri si sono fatti via via più violenti e organizzati, coinvolgendo persone di tutte le età, le professioni – compresi i dipendenti pubblici, solitamente neutrali – e i ceti sociali. I manifestanti non si sono limitati a scendere in strada con gli ombrelli, ma si sono anche muniti di occhiali per proteggere gli occhi dagli spray urticanti, di elmetti contro i proiettili di gomma e gli sfollagente, di maschere e bandane per nascondere il viso alle telecamere di sorveglianza. Per lo stesso motivo negli ultimi giorni sono stati usati anche puntatori laser durante le manifestazioni: dopo che la polizia ha arrestato un ragazzo che ne possedeva alcuni definendoli pericolosi, c’è stata una scenografica protesta pacifica piena di laser colorati davanti al planetario di Hong Kong.
Uno dei pochi ad aver mostrato il suo volto è un giovane di 25 anni, Brian Leung, che è entrato nella sede del parlamento con altri manifestanti si è sfilato la maschera per farsi fotografare. «La crescita della punizione richiede una crescita di sacrificio», ha detto poi.
Le proteste non si sono sviluppate attorno a una guida, contrariamente al 2014, ma sono state organizzate sporadicamente da leader di piccoli gruppi, spesso coordinandosi su Telegram, Facebook e un sito simile a Reddit di nome LIHKG. Per questo è difficile prevenirle: può accadere che all’improvviso una strada venga occupata da centinaia di persone, che ci restano per ore. «Non c’è una struttura piramidale di comando», ha spiegato Leung al Wall Street Journal, «Ci sono snodi, come in un social network».
Lo scorso weekend è stato il decimo weekend di proteste consecutive, con centinaia di migliaia di persone in strada, e lunedì e martedì gli attivisti sono riusciti a bloccare il traffico stradale, aereo, ferroviario e metropolitano per alcune ore e hanno organizzato uno sciopero generale, il primo in 50 anni. Ci sono stati cortei in sette aree diverse di Hong Kong, culminati in scontri con la polizia. Dal 9 giugno sono state arrestate 420 persone, 44 accusate di crimini che prevedono fino a 10 anni di carcere.
Il responsabile cinese dei Rapporti con Macao e Hong Kong ha detto che la città-stato tra attraversando la sua crisi più grave da quando è ritornata sotto la sovranità cinese. La Cina sta iniziando a mostrare apertamente la sua contrarietà: domenica scorsa i giornali governativi avevano pubblicato articoli di condanna verso le proteste, tra cui un editoriale di Xinhua, l’agenzia di stato, che sosteneva che «il governo centrale non resterà con le mani in mano e non permetterà a questa situazione di continuare». Gli osservatori internazionali hanno cominciato a chiedersi cos’abbia intenzione di fare la Cina per reagire alle proteste: finora ha usato solo censura e minacce, ma avrebbe la possibilità legale e concreta di usare la forza all’interno del territorio autonomo di Hong Kong.
Di stanza a Hong Kong ci sono circa 5mila soldati dell’esercito cinese: fino a due settimane fa avevano mantenuto un profilo molto basso, ma il 31 luglio è stato diffuso un video in cui svolgono esercitazioni militari a Hong Kong e si sente un militare urlare nel dialetto cantonese locale: «Tutte le conseguenze sono a vostro rischio e pericolo». La scorsa settimana poi più di 12mila agenti di polizia si sono riuniti a Shenzhen, nella provincia meridionale cinese del Guangdong (vicina a Hong Kong), per un’esercitazione che ha incluso anche misure anti-sommossa simili a quelle adottate nelle ultime settimane dagli agenti di polizia di Hong Kong contro i manifestanti.
Nell’ultima settimana in ogni caso gli scontri tra manifestanti e polizia sono già diventati più violenti. Uno dei più recenti simboli delle proteste sono le bende sull’occhio macchiate di rosso indossate da molti partecipanti alle manifestazioni: domenica scorsa una donna è stata gravemente ferita all’occhio destro da un tipo di proiettile non letale usato dalla polizia. La polizia ha ammesso che gli agenti hanno in dotazione quel genere di proiettile ma ha detto di non sapere se quello che ha colpito la donna sia stato sparato da un agente.
The young woman who was shot by Hong Kong police in the eye with what appeared to be bean bag round quickly becoming the latest image of tremendous anger with police and their tactics. Calls for a mass rally at the airport this afternoon. pic.twitter.com/x4FjB6asFY
— Timothy McLaughlin (@TMclaughlin3) August 12, 2019