L’India che vuole Narendra Modi
Il primo ministro indiano ha in mente un paese nazionalista e indù, diverso da tutto quello che è stata l'India finora: e il Kashmir è stato il primo passo
Quando all’inizio di agosto il presidente indiano Narendra Modi ha revocato lo “status speciale” al Kashmir, che garantiva al territorio un livello molto alto di autonomia, diversi analisti ed esperti hanno parlato di una decisione rivoluzionaria, primo passo verso cambi ancora più radicali. La decisione sul Kashmir – unica regione indiana a maggioranza musulmana in un paese a maggioranza induista – fa parte di un’idea più ampia di paese che Modi aveva già descritto in anni precedenti: uno stato induista, diverso dal paese laico che avevano voluto i padri fondatori dell’India, e uno stato in cui non ci fossero più leggi diverse da comunità a comunità, come quelle introdotte decenni fa per garantire la libertà di espressione di tutti. Quella che aveva in mente Modi, in sostanza, era una «nuova India».
L’idea di una «nuova India», su cui si è basata l’azione politica di Modi degli ultimi anni, ruota attorno a due concetti principali: rafforzare il nazionalismo e trasformare l’India da paese laico a paese induista, indebolendo i diritti delle minoranze e colpendo le comunità musulmane che abitano il Kashmir indiano. Modi, primo ministro dal 2014, ha aumentato i consensi quasi ad ogni elezione tenuta negli ultimi cinque anni, stravincendo anche le legislative dello scorso maggio. Il suo potere sempre maggiore gli ha permesso tra le altre cose di avviare alcune delle politiche considerate più problematiche e allo stesso tempo funzionali all’idea della «nuova India», come per esempio la revoca dello “status speciale” del Kashmir.
Modi, ha scritto Associated Press, «è un nazionalista indù da quando aveva 10 anni» e durante tutta la sua carriera da primo ministro ha promosso un’immagine di sé vicina a quella dell’uomo comune indiano.
Figlio di un venditore di tè e cresciuto in una famiglia molto povera, è diventato nel corso degli anni un politico astuto e un abile oratore, che oggi partecipa a programmi televisivi d’avventura come “Man vs Wild” (“uomo contro natura selvaggia”) e che dice frasi tipo «non ho mai provato paura o nervosismo nella mia vita». È stato sposato una volta – matrimonio risultato di un fidanzamento combinato – ma poi si è separato senza avere figli. «A differenza della maggior parte dei politici indiani, Modi non ha una cerchia di parenti che si aggira attorno a lui cercando di ottenere contatti o contratti lucrativi con il governo», ha scritto AP. Le uniche cose che ha sono il Bharatiya Janata Party (BJP), il suo partito, e la causa del nazionalismo indù, che appoggia da sempre.
Modi, definito dal Washington Post come il leader politico indiano più dominante degli ultimi cinquant’anni, ha deciso di compiere la sua prima mossa all’inizio di agosto in Kashmir, unico stato indiano a maggioranza musulmana e da tempo considerato un enorme problema dai nazionalisti indù, soprattutto per la presenza al suo interno di gruppi armati secessionisti appoggiati dal Pakistan, nemico dell’India.
Per i suoi sostenitori, la revoca dello “status speciale” in Kashmir ha mostrato come Modi possa essere un leader coraggioso e ambizioso, guidato da quella che ritiene essere la volontà della maggioranza. «Il lavoro che non era stato fatto negli ultimi 70 anni è stato completato entro 70 giorni da quando si è insediato il nuovo governo», ha detto Modi questa settimana, riferendosi all’eliminazione di molte delle autonomie prima concesse al Kashmir indiano. Per i suoi critici, invece, la mossa in Kashmir sarebbe stata la prova delle sue inclinazioni antidemocratiche e forzatamente maggioritarie. Sumantra Bose, scienziato politico alla London School of Economics e autore di due libri sul Kashmir, ha detto al Washington Post: «Non riguarda solo il Kashmir, si sta parlando dell’intero futuro dell’India». Secondo Bose, Modi e il suo partito starebbero usando il Kashmir come mezzo con cui «portare avanti il loro più ampio obiettivo di trasformare l’India in una repubblica indù, in tutto e per tutto ad eccezione che nel nome».
Dopo la decisione sul Kashmir, per i nazionalisti indù ci sono altri obiettivi da realizzare il prima possibile. Il primo è costruire un grande tempio al dio indù Rama in un luogo dove in passato c’era una moschea, nella città di Ayodhya. La questione per ora è ferma perché sul caso si sta esprimendo la Corte suprema indiana in relazione a una disputa sul terreno individuato per il progetto. Il secondo obiettivo è quello di far approvare una legge unitaria su questioni come il divorzio e l’eredità e che si applichi a tutti i cittadini indiani, eliminando quindi la possibilità che hanno oggi le diverse comunità di avere norme differenti tra loro.
Il governo indiano, comunque, ha già iniziato ad adottare da tempo politiche per colpire le minoranze religiose: ad esempio con la legge sulla cittadinanza, che prevede di dare lo status di rifugiato a migranti indù e cristiani – ma non musulmani – che entrano in India dai paesi confinanti.
Negli ultimi anni Modi si è impegnato costantemente a rafforzare il collegamento tra lui e l’induismo, mostrandosi per esempio mentre fa yoga e mangia vegetariano, due cose che in India hanno una connotazione religiosa molto forte, soprattutto quando praticate da politici. Fino a oggi le politiche filo-nazionaliste e filo-indù del suo governo sono state accolte con grande favore in India. Diversi esperti, ha scritto il Washington Post, dicono che ci vorranno mesi o anni per valutare l’impatto delle decisioni più radicali dell’attuale governo, che si sta distanziando da quanto fatto per decenni nella politica indiana.
«Una nuova era è iniziata», ha detto Modi durante un discorso televisivo tenuto la scorsa settimana dopo la revoca dello “status speciale” del Kashmir. E l’impressione di molti osservatori è che sia iniziata davvero, e continuerà almeno fino a che in India a capo del governo ci sarà lui.