Quali animali sopravviveranno al cambiamento climatico
Prevederlo è difficile, ma per alcune specie si possono fare previsioni: gli scarafaggi sì, per esempio, mentre i koala no
Una delle molte conseguenze del cambiamento climatico è l’impatto di temperature maggiori e livelli dei mari più alti sulle specie animali. Secondo le previsioni dell’ONU, a causa dell’impatto delle attività umane sulla natura, un milione di specie di animali e piante rischiano l’estinzione, molte delle quali nei prossimi decenni: più di quante siano mai state in pericolo durante l’intera storia umana. Molte specie si sono già estinte negli ultimi decenni, altre stanno cambiando o si stanno spostando in reazione ai cambiamenti ambientali: molti uccelli per esempio non depongono più le uova nel periodo dell’anno in cui lo facevano in passato, e gli orsi polari cercano nuovi territori.
Non è detto che tutte le specie a rischio si estinguano: molto dipenderà dalle iniziative per limitare le emissioni di anidride carbonica nei prossimi anni e da quelle di difesa degli ecosistemi. Nel caso in cui non si faccia molto, però, è probabile che ne risentiranno molte specie, oltre a quella umana: quello che sappiamo dei meccanismi evoluzionistici può aiutare a fare qualche ipotesi su quali saranno colpite dal cambiamento climatico più di altre e quali invece troveranno modi per sopravvivere.
Come gli animali reagiscono al cambiamento climatico
Come spiega un vecchio post sul blog dell’Earth Institute della Columbia University, gli animali possono reagire a un cambiamento climatico in tre modi: spostandosi, adattandosi o estinguendosi. Molte specie – di piante e di animali – si stanno già spostando ad altitudini o latitudini diverse, andando a cercare nuovi territori in cui le condizioni climatiche siano simili a quelle a cui si sono adattate nel corso della loro storia. Per alcune specie, come volpi e cervi, è molto semplice perché sono compatibili con tanti ambienti diversi: Jamie Carr, membro della Commissione per la sopravvivenza delle specie dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), ha spiegato a BBC Future che questi «generalisti mobili» sono meglio attrezzati a resistere al cambiamento climatico. Per molti altri animali, invece, spostarsi non è una buona soluzione: alcune specie non riescono a farlo abbastanza in fretta; per altre non ci sono aree ospitali raggiungibili da quelle in cui vivono.
È il caso per esempio del pica americano (Ochotona princeps), un tipo di animale vagamente simile a conigli e lepri: si è già spostato e sembra non potrà spostarsi oltre. Storicamente l’habitat naturale dei pica è quello delle Montagne Rocciose e della Sierra Nevada, nell’ovest degli Stati Uniti: negli ultimi anni queste montagne sono diventate più calde e secche e i pica si sono spostati più in alto, ma non possono continuare a farlo, avendo raggiunto le altitudini massime a cui possono trovare sostentamento.
Altre specie si stanno adattando alle nuove condizioni climatiche: molte specie di insetti riemergono dal letargo prima e alcuni uccelli migratori hanno cominciato a deporre le uova prima in modo che i loro pulli nascano nel periodo in cui c’è abbondanza di insetti. Qualcuno ricorderà dalle lezioni di biologia che le specie evolvono in milioni di anni, tuttavia per certi cambiamenti è necessario molto meno tempo, per esempio grazie alla “plasticità fenotipica”: la capacità di modificare il proprio comportamento o alcune caratteristiche fisiche in accordo con i cambiamenti ambientali senza aspettare che i meccanismi evolutivi cambino il codice genetico della specie. In pratica esistono margini di flessibilità nel modo in cui gli animali appaiono e si comportano, già previsti dai geni.
Gli scienziati hanno studiato la plasticità fenotipica di alcune specie per valutarne la resistenza a fronte del cambiamento climatico. Per esempio è stato fatto uno studio sulla temperatura a cui le cavie selvatiche sudamericane riescono ad accoppiarsi. Normalmente lo fanno a 5°C, ma un gruppo di maschi tenuto per due mesi in un ambiente con temperatura di 30°C ha modificato la propria regolazione termica. Cambiamenti di questo tipo possono poi essere trasmessi alle generazioni successive grazie ai geni, in qualche modo “fissando” gli adattamenti: alle cavie è successo così.
Un altro caso molto interessante per le sue implicazioni è quello di alcuni coralli che vivono intorno all’arcipelago delle Samoa Americane, nell’oceano Pacifico. I coralli sono tra gli organismi che più stanno risentendo dell’aumento delle temperature negli oceani: quando l’acqua è più calda del solito, espellono le zooxantelle, minuscole alghe che vivono con loro in simbiosi e che producono nutrienti che sono poi in parte utilizzati dai coralli per nutrirsi. Se lo sbalzo di temperatura si risolve in qualche settimana, le alghe riescono a popolare nuovamente la superficie dei coralli, ma a causa del riscaldamento globale in alcune aree lo sbalzo non viene compensato e i coralli, privi di alghe e di possibilità di nutrirsi, muoiono. Un gruppo di scienziati però si è accorto che i coralli che vivono nei pressi di alcune zone di acqua più calda – legate ad attività vulcaniche – non hanno espulso le zooxantelle nonostante le temperature maggiori in cui vivono: facendo degli esperimenti con alcuni coralli della stessa specie abituati a vivere a temperature più basse è stato dimostrato che nel giro di un anno sono stati in grado di sopportare temperature maggiori grazie alla plasticità fenotipica.
Scarafaggi sì, koala no
È difficile dire quali animali siano più vulnerabili cambiamento climatico, un po’ perché non sappiamo bene come cambierà il clima esattamente, ma anche perché i fattori in gioco sono tantissimi. Il clima influisce sulla vita degli esseri viventi sia in modo diretto che in modi indiretti, per esempio modificando la catena alimentare. Tuttavia si possono fare delle considerazioni generali e su alcune specie in particolare.
Si sente spesso dire che gli scarafaggi resisterebbero anche a un’apocalisse nucleare. In effetti questi insetti nella storia si sono dimostrati molto tenaci, resistendo a tutte le estinzioni di massa che hanno attraversato e a molti climi diversi. Non ci si può affidare unicamente a quanto successo in passato per fare previsioni, dato che l’attuale cambiamento climatico, in quanto legato alle attività umane, potrebbe avere un impatto diverso a lungo termine, ma gli scarafaggi hanno dimostrato una buona versatilità e come altre specie molto antiche che ne hanno passate tante dovrebbero essere più resilienti delle specie più recenti. Per esempio in Australia si adattarono al clima sempre più arido, decine di milioni di anni fa, scavando cunicoli sottoterra.
Gli scarafaggi poi hanno altre due caratteristiche che dovrebbero garantire loro di sopravvivere al cambiamento climatico: si riproducono in fretta e mangiano di tutto. Lo stesso vale per molte altre specie che potremmo trovare disgustose, come i ratti, i piccioni e i procioni che vivono nelle città americane. Gli animali la cui dieta dipende principalmente da un unico ingrediente invece sono tra quelli che potrebbero vedersela peggio: un buon esempio è quello dei koala, che mangiano quasi solo foglie di eucalipto che con l’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera stanno diventando meno nutritive. Le specie più specializzate, come i koala, potrebbero essere le prime a sparire, secondo Carr: di solito si tratta di quelle che vivono in habitat molto isolati o di dimensioni ridotte, come le cime delle montagne e certe piccole isole tropicali.
Robert Nasi, direttore generale del Centro Internazionale per la Ricerca Forestale (CIFOR), ha detto a BBC Future che in generale sono favoriti per resistere al cambiamento climatico gli animali «molto piccoli, preferibilmente endotermi [a sangue caldo, ndr] se vertebrati, molto adattabili, onnivori oppure capaci di vivere in condizioni estreme». A scarafaggi e ratti per questo vanno aggiunti animali come i tardigradi – i minuscoli animali che possono resistere anche nello Spazio entrando in una specie di letargo che può durare anni, e che per questo sono stati portati sulla Luna – e quelli che riescono a sopravvivere in condizioni estreme di calore e assenza di luce, come le specie che vivono in grotte e profondità oceaniche, soprattutto vicino a vulcani e sorgenti termali sottomarine.
È un problema se altri animali si estinguono?
Di per sé l’estinzione di una specie non è necessariamente una cosa negativa, salvo che per gli estinti ovviamente: nel corso della storia della Terra tantissime specie si sono estinte, lasciando spazio alle specie che sono venute dopo. Lo stesso Homo Sapiens probabilmente non esisterebbe se i dinosauri non si fossero mai estinti. Ovviamente, in quanto specie dominante, le persone possono sentire il dovere di occuparsi della sopravvivenza delle altre specie, soprattutto quando questa è messa in discussione proprio dalle conseguenze delle attività umane. Ma anche tralasciando i discorsi etici, ci sono dei casi in cui le estinzioni sono senza dubbio un problema, e cioè quando ne avvengono troppe tutte insieme.
Quando un animale si estingue, infatti, gli altri animali e le piante con cui condivideva il suo ambiente ne sono influenzati, e in alcuni casi a lungo andare anche l’ambiente stesso: il disequilibrio che un’estinzione causa può avere conseguenze molto pronunciate e imprevedibili, che possono danneggiare anche le persone, per esempio nella forma di un’eccessiva proliferazione di una specie dannosa per l’agricoltura. In generale un gran numero di estinzioni corrisponde a una diminuzione di biodiversità, che secondo ciò che sappiamo sugli ecosistemi è importantissima per la produzione di risorse alimentari, tra le altre cose.