La sentenza della Cassazione sulle molestie subite da una donna che faceva la badante
Non nega che ci siano state molestie, ma sostiene che il contesto fosse "opaco" e che non ci siano state minacce
In una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato da una donna che faceva la badante contro il suo datore di lavoro, accusato di aver avanzato nei suoi confronti richieste di natura sessuale dietro minaccia di licenziamento in caso di rifiuto. La Cassazione ha definito il comportamento dell’imputato come una vicenda di «grottesco squallore», ma penalmente irrilevante. L’assoluzione è stata fondata sulla mancata prova della minaccia del licenziamento, che alla fine era però arrivato, e sull’inattendibilità delle dichiarazioni fornite dalla donna: le richieste dell’uomo, si dice, erano accompagnate da frasi come “per favore” e “per piacere” e dalle registrazioni delle conversazioni tra i due non risultava che la donna avesse paura di lui. Il contesto era insomma “opaco” e l’uomo non ha avuto, secondo la Cassazione, un comportamento minatorio. La donna è stata alla fine condannata anche a pagare le spese processuali.
Oggi, in Italia, la condotta tipica di violenza sessuale si verifica, secondo quanto scritto all’articolo 609 bis del codice penale, quando un soggetto «con violenza o minaccia o mediante l’abuso di autorità» ne costringa un altro «a compiere o a subire atti sessuali». Si verifica anche quando c’è induzione a compiere o a subire atti sessuali «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto» o «traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona». Il presupposto della sussistenza dei reati sessuali è la presenza di vincoli: costrizione, violenza o minaccia.
La donna che ha presentato ricorso in Cassazione prestava servizio nella casa dell’imputato in qualità di badante della suocera. Il Tribunale di Chieti, nel settembre del 2016, aveva condannato l’uomo per avere tentato di usare violenza sessuale minacciando il licenziamento. La Corte di appello dell’Aquila, nel febbraio del 2018, aveva però rovesciato la sentenza di primo grado assolvendo completamente l’uomo per insussistenza del fatto.
In Cassazione, la donna aveva presentato ricorso sulla base di quattro argomentazioni: la Corte di appello non aveva preso in considerazione la sua testimonianza e quelle dei testimoni de relato (cioè di chi aveva conoscenza solo indiretta del fatto), che invece avrebbero confermato la minaccia di licenziamento; nella sentenza di secondo grado, poi, la testimonianza della donna non era stata considerata decisiva e, terza motivazione, era stata anzi considerata inattendibile. La quarta motivazione aveva invece a che fare con una questione burocratica (nella copia dell’atto di appello proposto dall’imputato e notificato alla parte civile mancava una pagina).
Il primo motivo del ricorso è stato giudicato inammissibile poiché infondato. La Corte, dice la sentenza, «non ha messo in dubbio la circostanza che (l’imputato) abbia, con insistenza degna probabilmente di miglior causa, più volte chiesto alla (donna) di cedere alle sue profferte sessuali, anche dichiarandosi egli stesso disposto a compensarla materialmente ove lei avesse ceduto a tali inviti, ma ha escluso che siffatte sollecitazioni abbiano superato il limite, moralmente certo deprecabile ma penalmente irrilevante, della grottesca ed inurbana, ma, si ribadisce, penalmente non sanzionabile, richiesta di amori ancillari». Come prova di questo, la Cassazione ha indicato le registrazioni presentate dalla donna che contengono alcuni colloqui avvenuti fra lei e l’imputato. Lui, nel chiederle con insistenza di avere con lei un approccio di natura sessuale, «si dichiara bensì disposto a pagarla, ma non le indirizza alcuna minaccia, anzi la invita a soddisfare la sua richiesta “per favore” od anche “per piacere”». Insomma, non ha minacciato la donna che lavorava per lui, ma le ha chiesto insistentemente un favore. Inoltre, l’uso di espressioni, da parte di lui, del tipo «Chi sta a casa mia deve fare quello che dico io» non risultano minatorie, ha detto la Cassazione.
Anche il secondo e il terzo motivo di ricorso sono stati giudicati inammissibili: la Corte di appello, spiega la Cassazione, ha esaminato il contenuto delle dichiarazioni della donna, ma le ha ritenute poco attendibili perché il quadro generale era «opaco». Nella sentenza vengono elencate le motivazioni di questa opacità: la donna aveva ritrattato «in ordine alla esistenza di tentativi di approcci sessuali fatti con violenza», l’imputato si era detto disponibile a pagare la donna pur di conseguire da lei una soddisfazione sessuale e questa offerta «mal si coniuga con un atteggiamento di carattere oggettivamente minatorio». Infine, la donna si confrontava con l’imputato con «disinvolta franchezza». La «colorita espressione che la donna (…) ha, nel corso del suo esame dibattimentale, riferito di avere rivolto al prevenuto onde giustificare il proprio rifiuto alle sue istanze erotiche» fa ritenere che lei «non nutrisse un particolare metus reverentialis (timore reverenziale) nei confronti dell’uomo».