Come sono i funerali più riusciti, secondo Mattia Torre
Lo aveva raccontato nell'incipit del suo romanzo "La linea verticale", da cui è stata tratta la serie con Valerio Mastandrea
La linea verticale, il romanzo dello scrittore e sceneggiatore Mattia Torre, tra i più talentuosi e apprezzati degli ultimi anni, morto ieri a 47 anni, inizia con la descrizione di come deve essere un funerale riuscito. Prima di tutto «molto doloroso». Poi comincia il racconto della malattia del protagonista, Luigi, la cui esperienza con un tumore al rene è ispirata a quella dello stesso Torre, che era malato da molto tempo. Dal libro la Rai ha tratto l’omonima serie tv interpretata da Valerio Mastandrea: sia la serie – molto apprezzata – che il romanzo mescolano dramma e commedia, con cose che mettono tristezza e tante altre che fanno ridere. Torre era conosciuto principalmente per essere stato uno degli autori principali della serie Boris.
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Appena ho saputo di essere malato, ho subito pensato al mio funerale, ho immaginato come doveva essere: doveva essere molto doloroso. Perché i funerali più riusciti, quelli che rimangono impressi nella memoria, sono quelli molto dolorosi. In questo senso andava subito escluso il funerale cattolico, perché il funerale cattolico non è abbastanza doloroso. Per la maggior parte del tempo non si capisce bene cosa il prete dica, legge dalla Bibbia parabole di dubbia presa sul pubblico, cita a vanvera episodi della sua infanzia, e poi quelle musiche di organo sono distraenti, uno inizia a pensare ai fatti propri e questo è sbagliato, perché i pensieri, le emozioni dei presenti devono convergere in un unico, straziante dolore. Niente funerale cattolico quindi, e niente preti. Solo amici commossi che magari raccontino qualcosa sul defunto, qualcosa di lui, qualcosa di intimo, di toccante, aneddoti, aneddoti mirati, sulla persona, sulle sue qualità che ora appaiono superlative, un santo praticamente, aneddoti talmente emozionanti che chi li ha scritti non riesce a leggerli, e scoppia a piangere perché il dolore è troppo forte; oppure anche divertenti, che uniscano cioè allo strazio quella nota comica che rende il dolore ancora più insopportabile – «amava la famiglia, gli amici, lo chardonnay» – e infatti tutti piangono a dirotto, questo è il mio funerale, nessuno che fuma fuori, no, tutti dentro, accalcati, c’è posto per tutti. Perché il funerale perfetto è importante che sia devastante anche fisicamente, devi uscire col mal di testa e la voglia di vomitare. Non devi quasi più avere voglia di vivere dopo un funerale veramente riuscito. Ti deve passare la voglia di stare con gli altri, la fiducia nel futuro, l’inclinazione al lavoro, l’appetito. Mentre dentro tutti continuano a piangere a boati, come se non ci fosse un domani.
I corridoi di un grande ospedale, scale e ascensori, una sala operatoria, un altro corridoio, luoghi inaccessibili al pubblico e altri pieni di gente che aspetta, umanità varia abbandonata, malati e parenti di degenti, e poi medici e infermieri. Non c’è cupezza. Un ospedale è una grande fabbrica in cui ognuno ha un ruolo. Tra questa gente, seduto in una sala d’attesa, l’aria imperturbabile, Luigi.
Un medico lo chiama, è il suo turno, Luigi si alza ed entra nello studio dell’urologo.
L’urologo è un ragazzo che avrà ventotto anni ma ne dimostra ventidue, Luigi gli consegna la provetta che gli hanno dato al pronto soccorso e spiega di aver avuto, quella stessa mattina, un episodio di… «ematuria», lo anticipa il giovane urologo alzandosi, ora, dice, facciamo subito un test per vedere se si tratta di sangue o altro. Luigi lo guarda: «Lei è molto giovane», commenta, «dev’essere alle sue prime visite». L’urologo sorride: «Questa è la mia prima visita». «La sua prima visita in assoluto?», chiede Luigi sorpreso. «Sì», sorride l’urologo. «Be’», dice Luigi, «che si dice in questi casi?» «È sangue», risponde l’urologo, «se per lei va bene facciamo subito una cistoscopia.»
La vita è anche questo: un attimo prima sei a lavoro, o a casa, o nel traffico, e un attimo dopo sei sul lettino di uno studio urologico.
«Vede questo fiotto di sangue?» spiega il medico durante la cistoscopia mentre Luigi soffoca un urlo di dolore. «Quello viene direttamente dall’uretere, se lei è d’accordo facciamo subito un’ecografia.»
L’ecografia non è dolorosa ma Luigi è allarmato dallo sguardo del giovane medico. «Tutto bene?»
«C’è qualcosa.»
«Qualcosa?»
Il medico si alza e torna al suo tavolo, prego, venga, si sieda. Luigi si siede davanti a lui. L’urologo si fa coraggio, inspira, e parla: «Lei ha un tumore al rene sinistro. È grosso, è una grossa massa. Bisogna operare subito».
Il cielo si spacca e tutto si capovolge. Si capovolge la sedia del giovane medico che cade all’indietro e pure il tavolo da cui cadono computer fogli tastiera e stampante, si capovolge lo studio che perde contorni e pareti, si ribaltano nozioni, concetti, pensieri e ricordi, tutto cade all’indietro. Gli oggetti non hanno più forma, niente è più ciò che era, gli altri non ci sono né ci saranno più, tutto è via, ci sono Luigi e la malattia in un immenso spazio bianco.
Un tumore?
L’urologo non replica, respira. Luigi dichiara di aver fatto delle analisi di routine qualche mese prima ed era tutto a posto, non ha dolori, non ha problemi. Il medico spiega che quello al rene è un tumore subdolo, asintomatico. Inspira forte. Luigi tace. Poi si alza. «Posso?»
Luigi apre la porta dello studio medico, fuori, ad aspettarlo, sua moglie Elena e sua figlia Anita. Elena lo guarda e capisce subito qualcosa, Luigi prende Anita in braccio, sussurra alla moglie delle parole che non ricorderà mai più, lei sconvolta guarda il medico per capire meglio, il medico la vede, bellissima, incinta, tutto è capovolto anche per lui.
“Per aspera ad astra.”
(Da La linea verticale di Mattia Torre, Baldini+ Castoldi, Milano 2017)