L’Arabia Saudita non sa come venire a capo della guerra in Yemen
Oggi ancora più di prima: gli Emirati Arabi Uniti si sono ritirati dal conflitto, lasciando i sauditi da soli
Quando nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita decise di intervenire militarmente in Yemen per frenare l’avanzata verso sud dei ribelli houthi, appoggiati dall’Iran, diversi leader arabi del Golfo pensarono che il conflitto sarebbe finito rapidamente e senza complicazioni. La differenza di risorse tra i due schieramenti era notevole e i ribelli houthi non sembravano avere la forza per rispondere a una coalizione che includeva gli Emirati Arabi Uniti e poteva contare sull’appoggio degli Stati Uniti, anche se limitato. Negli ultimi quattro anni e mezzo, però, le cose sono andate in maniera molto diversa dalle aspettative saudite.
La guerra in Yemen si è trasformata nella peggiore crisi umanitaria del mondo, secondo l’ONU, e la resistenza dei ribelli houthi ha impedito alla coalizione guidata dai sauditi di imporsi e riconsegnare il potere all’ex presidente yemenita Abdel Rabbo Monsour Hadi, costretto a fuggire dalla capitale Sana’a. Da qualche settimana, inoltre, gli Emirati Arabi Uniti, preziosissimi alleati nella guerra contro i ribelli, hanno cominciato a ritirare i loro soldati, lasciando le milizie anti-houthi senza una guida e in balìa delle offensive dei nemici. Per l’Arabia Saudita, insomma, le cose non si sono messe bene, e non è chiaro come la sua leadership riuscirà a venire a capo di una situazione tanto complessa.
La novità più importante degli ultimi mesi, e anche la più preoccupante per i sauditi, è stata certamente la decisione degli Emirati Arabi Uniti di ritirarsi dal conflitto. Nonostante la guerra in Yemen sia stata sempre associata a Mohammed bin Salman, oggi potente principe ereditario saudita, gli emiratini hanno infatti avuto fin dall’inizio un ruolo fondamentale: grazie all’impiego di qualche migliaia di soldati, e alla leadership che ha permesso di tenere insieme milizie anti-houthi divise da profonde differenze e vecchie ostilità, gli Emirati hanno rappresentato il principale argine all’avanzata via terra dei ribelli houthi. Qualche settimana fa il governo emiratino ha deciso però di terminare il suo impegno in Yemen, valutando che i costi del conflitto fossero diventati troppo alti e le possibilità di vittoria troppo ridotte.
Secondo fonti diplomatiche sentite dal New York Times, i sauditi sono rimasti profondamente delusi dalla decisione degli Emirati. Alcuni esponenti della famiglia reale saudita avrebbero cercato di convincere i loro tradizionali alleati a cambiare idea, senza riuscirci, mentre da parte loro gli Emirati avrebbero evitato di annunciare pubblicamente il ritiro per non alimentare la delusione saudita. Nonostante i due paesi abbiano ribadito l’importanza della loro alleanza, la decisione emiratina ha lasciato l’Arabia Saudita in una situazione molto complicata e senza troppe vie d’uscita.
I sauditi hanno dovuto affrontare immediatamente le conseguenze provocate sul campo dal ritiro, soprattutto in relazione al coordinamento delle milizie yemenite anti-houthi. Senza più una guida esterna e decisa, infatti, queste milizie hanno cominciato a darsi battaglia per imporsi l’una sull’altra. La scorsa settimana, ha scritto il New York Times, gli alleati di Tareq Saleh, nipote dell’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, hanno sostenuto per esempio che la coalizione guidata dai sauditi avesse scelto proprio Tareq Saleh per diventare il nuovo leader delle milizie anti-houthi. Una milizia islamista ultraconservatrice appoggiata dagli Emirati si è però opposta, dicendo che non avrebbe mai accettato Saleh come suo comandante perché era del nord dello Yemen, e non del sud. Un’altra milizia molto potente, formata da separatisti del sud dello Yemen e armata e finanziata dagli emiratini, ha cominciato allo stesso tempo a proporsi come possibile nuova guida della coalizione anti-houthi. Finora non si è ancora arrivati a una soluzione.
Le opzioni dell’Arabia Saudita sembrano piuttosto limitate e non è chiaro quanto durerà ancora il suo impegno militare in Yemen.
Il governo saudita ha provato anzitutto a chiedere maggiore aiuto agli Stati Uniti, facendo leva sulla forte ostilità verso l’Iran mostrata dall’amministrazione Trump, in particolare da alcuni collaboratori del presidente, come il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, e il segretario di Stato, Mike Pompeo. Le richieste saudite hanno trovato però l’opposizione del Congresso statunitense, diventato molto critico nei confronti dell’Arabia Saudita dopo l’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista e dissidente ucciso lo scorso ottobre nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia, quasi certamente su ordine del principe ereditario Mohammed bin Salman. Ad aprile il Congresso ha approvato una legge per chiedere la fine dell’appoggio militare americano alla guerra saudita in Yemen, ma il presidente Trump, alleato molto stretto di bin Salman, ha messo il veto. Il dipartimento della Difesa statunitense, intanto, ha fatto pressioni sul governo saudita affinché accettasse di negoziare una tregua nel conflitto yemenita.
Il problema è che i sauditi non sembrano oggi intenzionati a negoziare un accordo e ritirarsi dallo Yemen. Anzitutto perché dall’inizio della guerra i ribelli houthi hanno lanciato più di 500 missili e più di 150 droni con esplosivo verso lo spazio aereo saudita. I danni sono stati minimi, soprattutto se confrontati con le devastazioni provocate dai bombardamenti sauditi in Yemen, ma l’escalation ha reso più difficile pensare a un ritiro. Inoltre Mohammed bin Salman, il leader più potente dell’Arabia Saudita, sta subendo poche pressioni interne per fermare i combattimenti, sia per la totale mancanza di opposizione, repressa duramente negli ultimi anni, sia per il generale sentimento di ostilità verso l’Iran diffuso nel paese.
Finora la guerra in Yemen ha ucciso migliaia di civili e ha costretto più di 12 milioni di persone alla fame. Nonostante la superiorità militare della coalizione guidata dall’Arabia Saudita, i ribelli houthi appoggiati dall’Iran continuano oggi a controllare la capitale Sana’a e una buona parte del territorio yemenita.