L’epidemia di ebola in Congo è grave
L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di emergenza internazionale di salute pubblica: in meno di un anno sono morte circa 1.700 persone
L’epidemia di ebola nella Repubblica Democratica del Congo è un’emergenza sanitaria internazionale: lo ha dichiarato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dicendo che il virus ha infettato più di 2.500 persone e ne ha uccise quasi 1.700, da quando si è diffuso nell’agosto del 2018. Ogni giorno vengono segnalati in media 12 nuovi casi.
#Ebola outbreak in #DRC declared a Public Health Emergency of International Concern – press release ?https://t.co/wiaOsDeOO7 pic.twitter.com/ElR91WS98z
— World Health Organization (WHO) (@WHO) July 17, 2019
Qualche giorno fa era stato segnalato il primo caso a Goma, che con circa un milione di abitanti è la città più grande del paese a essere coinvolta nell’epidemia. Il ministro della Salute del Congo aveva detto che il paziente affetto da ebola era un pastore arrivato a Goma domenica da Butembo, uno dei principali focolai della malattia nel paese. Il virus si è poi diffuso in zone in cui un tempo era stato contenuto, compreso il Congo nord-orientale – un’area di conflitto che si trova al confine con Ruanda e Uganda – dove sono già stati segnalati casi isolati e dove due persone sono morte, un bambino di 5 anni e la nonna, di 50. Il bambino, di madre congolese e padre ugandese, era stato con la famiglia nella Repubblica Democratica del Congo dove aveva assistito al funerale di un parente morto di ebola, e poi era rientrato in Uganda. Ogni giorno circa 15 mila persone attraversano il confine tra Goma e il Ruanda, dato che Goma è un centro di importanti attività economiche.
Dall’inizio della diffusione dell’epidemia, l’OMS aveva valutato almeno tre volte se dichiarare o meno lo stato di emergenza sanitaria globale. Aveva rinunciato, nonostante alcune agenzie di soccorso e i funzionari della sanità pubblica locale avessero chiesto di farlo nella speranza che avrebbe portato a maggiori fondi e a un maggior numero di operatori sanitari nella regione.
Quella di “emergenza sanitaria globale” è una condizione straordinaria che l’OMS non dichiara facilmente: dal 2005, quando sono entrate in vigore le International Health Regulations che regolano le risposte internazionali alle emergenze sanitarie, lo ha fatto solo quattro volte. In parte per evitare che la misura perdesse il suo carattere di eccezionalità e fosse considerata “normale”, mitigando l’impegno di chi è coinvolto, dall’altra perché comporta restrizioni ai viaggi e al commercio che per i paesi coinvolti possono causare grossi danni economici. Il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha detto che in questo caso si sta parlando di uno dei virus più pericolosi del mondo in una delle aree più pericolose del mondo, ma ha precisato che per ora nessuno Stato dovrà chiudere i confini o imporre restrizioni ai viaggi o al commercio.
Finora più di 161 mila persone hanno ricevuto un vaccino contro ebola in Congo, ma le preoccupazioni sulle forniture hanno portato l’OMS a raccomandare l’uso di dosi più piccole per evitare che finiscano. I funzionari dell’organizzazione che hanno visitato la regione dicono che gli approvvigionamenti sono molto scarsi, e che mancano anche gli equipaggiamenti di protezione che gli operatori sanitari usano per evitare di essere infettati. All’inizio di questa settimana, durante una riunione alle Nazioni Unite sull’epidemia, un funzionario ha detto di aver visto siringhe e guanti riutilizzati.
Secondo l’OMS, quella in Congo è la seconda epidemia di ebola più grande di sempre, dopo quella che colpì l’Africa occidentale tra il 2014 e il 2016, quando morirono più di 11 mila persone. Ai tempi non erano disponibili vaccini e trattamenti molto efficaci, ma ancora oggi la situazione è resa comunque difficile dall’instabilità della regione, dagli attacchi al personale medico e dalla riluttanza delle persone a farsi vaccinare. Circa il 40 per cento di chi contrae il virus non si presenta nei centri allestiti per la cura e muore in casa. Così rischia di contagiare i familiari, gli operatori sanitari e i pazienti delle cliniche locali dove queste persone potrebbero essersi recate per curare i primi sintomi della malattia.