Si può salvare l’accordo sul nucleare iraniano?
Ci stanno provando diversi paesi europei in disaccordo con le politiche aggressive di Donald Trump, ma è molto complicato
Lunedì a Bruxelles è in programma un’importante riunione dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea per parlare nuovamente dell’accordo sul nucleare iraniano, storica intesa firmata nel 2015 dall’Iran e diversi paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti. L’accordo, voluto dall’Unione Europea e dall’amministrazione Obama per scongiurare l’ottenimento della bomba nucleare da parte dell’Iran, era entrato in crisi nel maggio dello scorso anno, a causa della decisione del governo di Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti nonostante la mancanza di qualsiasi violazione rilevante degli impegni presi da parte dell’Iran. Nelle ultime settimane la situazione è diventata poi ancora più tesa soprattutto per gli gli attacchi alle petroliere nell’area del Golfo Persico, e le potenziali soluzioni sono diventate sempre più ingarbugliate. L’Unione Europea sta provando da tempo a mettere a posto le cose, finora però con risultati mediocri.
L’obiettivo principale della riunione di oggi a Bruxelles è convincere il governo statunitense a parlare con quello iraniano.
Le posizioni delle due parti sono però molto distanti. L’amministrazione Trump – influenzata da alcuni stretti collaboratori del presidente molto conservatori e favorevoli a politiche aggressive, come il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton e il segretario di Stato Mike Pompeo – ha lasciato pochissimi margini per la diplomazia. Il governo statunitense ha detto più volte di voler riscrivere pesantemente i termini dell’accordo sul nucleare, includendo settori che erano stati esclusi nel testo del 2015 e puntando a una versione molto più favorevole agli Stati Uniti. Anche il governo iraniano ha fatto richieste difficilmente accettabili dalla controparte: ha preteso la rimozione di molte delle sanzioni imposte all’Iran come condizione necessaria per ricominciare i colloqui.
La situazione si è ulteriormente complicata per altre due circostanze: le sempre maggiori tensioni tra Trump e i suoi alleati europei, a cui si è aggiunta nell’ultima settimana una crisi diplomatica piuttosto rilevante tra americani e britannici, e la capacità degli Stati Uniti di influenzare in maniera massiccia le politiche europee verso l’Iran grazie alle sanzioni, che hanno la particolarità di essere “extraterritoriali” (cioè vengono applicate anche a tutti gli altri paesi che fanno affari con l’Iran).
Diversi governi europei, tra cui quello di Emmanuel Macron in Francia e di Angela Merkel in Germania, avevano già espresso la loro distanza dall’amministrazione Trump, sia sul nucleare iraniano sia a causa di una diversa idea di vedere il mondo e fare politica. Il governo britannico aveva invece preso posizioni più prudenti, giustificate dalla storica special relationship (“relazione speciale”) che esiste da decenni tra i due paesi. Il 7 luglio, però, il giornale britannico Mail on Sunday ha pubblicato documenti riservati dell’ambasciatore britannico a Washington, Kim Darroch, con critiche pesanti nei confronti dell’amministrazione Trump: tra le altre cose, Darroch parlava di come il governo statunitense fosse disfunzionale, imprevedibile, fazioso, maldestro e «inetto diplomaticamente». Per quanto questa opinione venga descritta come largamente diffusa tra i diplomatici di tutto il mondo, la pubblicazione delle indiscrezioni sul Mail on Sunday ha provocato la reazione arrabbiata di Trump, che a sua volta ha spinto il governo britannico a difendere il suo ambasciatore, che comunque si è dimesso mercoledì scorso.
Al di là di come finirà, l’intera vicenda ha contribuito a peggiorare i rapporti tra Stati Uniti e Regno Unito: non una buona notizia per chi sperava che l’Europa potesse avere ancora qualche possibilità nel far cambiare idea a Trump sull’Iran. Lunedì il ministro degli Esteri britannico, Jeremy Hunt, ha sostenuto che ci sia ancora tempo per appianare le divergenze e risolvere la crisi e ha parlato di «una piccola finestra che mantiene vivo l’accordo». Per il momento, però, nessuno sembra avere trovato una soluzione definitiva, e le formule tentate non hanno avuto l’esito sperato.
Anche se i paesi europei dovessero rimanere uniti sul tema dell’Iran, come ha auspicato il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, l’impressione è infatti che l’UE non abbia gli strumenti per opporsi in maniera efficace alle politiche di chiusura di Trump. Il problema più grande è legato alle sanzioni che il governo statunitense ha reintrodotto contro l’Iran dopo essersi ritirato dall’accordo sul nucleare, e che hanno enormi conseguenze anche sull’attività delle aziende europee.
Le sanzioni statunitensi sono fatte da due componenti. C’è una componente primaria che si applica a cittadini e aziende americane, a cui è imposto il divieto di commerciare e di fare transazioni su conti di individui del paese che si vuole colpire, in questo caso l’Iran. C’è poi una componente secondaria, extraterritoriale, che si rivolge a soggetti non americani: prevede che qualsiasi società, ovunque abbia la sede, debba rispettare le sanzioni americane quando vengono usati i dollari per compiere le transazioni (cioè quasi sempre) e quando le stesse aziende hanno succursali negli Stati Uniti o sono controllate da americani. In pratica il risultato è che negli ultimi mesi quasi tutte le grandi aziende europee che avevano ricominciato a fare affari con l’Iran hanno smesso, per paura di essere colpite dalle sanzioni americane e vedere danneggiati i loro interessi negli Stati Uniti.
I paesi europei più interessati a mantenere in piedi gli affari con l’Iran tentano da mesi di far funzionare un meccanismo per riuscire ad aggirare gli effetti di questa extraterritorialità: è un punto centrale, perché il governo iraniano ha già minacciato di far saltare tutto se non si riuscirà a garantire un certo giro di affari con le imprese europee.
Francia, Germania e Regno Unito hanno di recente ufficializzato l’istituzione di un nuovo meccanismo finanziario progettato per permettere alle società iraniane ed europee di commerciare tra loro senza transazioni dirette di denaro. Il meccanismo si chiama INSTEX (sigla di Instrument in Support of Trade Exchanges), che però per funzionare dovrà essere accompagnato da un sistema simile istituito in Iran. Il problema di INSTEX è che, almeno finora, è stato usato solo per i trasferimenti di prodotti umanitari, come medicine, cibo ed equipaggiamento medico, tutte cose che comunque non rientrano tra gli obiettivi delle sanzioni statunitensi. Sembra invece improbabile che possa funzionare per il commercio di beni sotto embargo, come per esempio il petrolio, anche perché le aziende europee che operano in questi settori hanno già preferito non rischiare di essere colpite dalle sanzioni americane e si sono già ritirate dal mercato iraniano.
Viste la complessità della situazione attuale, la distanza che esiste tra Iran e Stati Uniti, le tensioni nel Golfo Persico e l’impossibilità dell’Europa di “fare da sola” senza la collaborazione americana, sembra quindi improbabile che l’iniziativa dell’Unione Europea produca risultati soddisfacenti nel breve periodo.