• Domenica 14 luglio 2019

Il programma Apollo non fu solo una storia di uomini bianchi

In anni di grandi conflitti sociali e razziali, la NASA aveva lavoratori più eterogenei della media: ma sono storie oggi poco ricordate

di Rebecca Romanò

Margot Lee Shetterly, autrice del libro "Il diritto di contare" alla NASA, Washington, 12 giugno 2019 (NASA/Joel Kowsky)
Margot Lee Shetterly, autrice del libro "Il diritto di contare" alla NASA, Washington, 12 giugno 2019 (NASA/Joel Kowsky)

Fino a qualche anno fa l’esplorazione spaziale degli anni Sessanta e Settanta sembrava una storia di successi raggiunti solo da uomini statunitensi e bianchi. In quegli anni la società statunitense era divisa e agitata dalla segregazione razziale e dalle proteste dei movimenti per i diritti civili: nonostante ovunque – e specialmente negli stati del sud – le minoranze vivessero tra discriminazioni e prepotenze, su impulso del governo la NASA tentò di rendere più eterogenea la propria forza lavoro. Solo recentemente – attraverso la pubblicazione di libri, interviste, film – è stata riscoperta una connessione tra il programma spaziale e i movimenti per i diritti civili.

In quegli anni la NASA aveva annunciato assunzioni per circa 200 mila posti di lavoro negli stati del sud – Alabama, Florida, Mississippi e Texas – per riuscire a portare l’uomo sulla Luna entro la fine degli anni Sessanta. John F. Kennedy, l’allora presidente degli Stati Uniti, e il suo vice Lyndon B. Johnson, videro in quelle assunzioni un mezzo per rimuovere le disuguaglianze sociali che c’erano nel paese. Johnson, che era texano e guidava il Consiglio Nazionale dell’Aeronautica e dello Spazio, pensava che i problemi degli stati del sud – conflitti sociali continui, segregazione razziale e diseguaglianze – fossero dovuti all’arretratezza economica: per questo, pensava che investire nello sviluppo del sud fosse un modo per arrivare a una vera unificazione economica e sociale degli Stati Uniti.

Johnson fu posto a capo di una nuova agenzia governativa per le pari opportunità sul lavoro e nel 1961 un ordine esecutivo del presidente Kennedy obbligò le pubbliche amministrazioni, compresa la NASA, ad adottare il principio dell’affermative action: una via preferenziale per assumere persone appartenenti a minoranze – donne, non bianchi – allo scopo di promuovere la loro partecipazione alla vita economica e sociale del paese. Il programma spaziale diventò così anche un mezzo per portare cambiamenti sociali ed economici negli stati più poveri del sud.

La NASA assunse allora Charles T. Smoot, un professore afroamericano originario dell’Alabama che venne definito “the first Negro recruiter”. Il suo compito era viaggiare per tutti gli Stati Uniti, dal Michigan a Porto Rico, alla ricerca di scienziati e ingegneri non bianchi disposti a trasferirsi al sud per lavorare nel Marshall Space Flight Center, un centro di ricerca della NASA a Huntsville, Alabama.

Non era una proposta particolarmente invitante: negli stati del sud il Ku Klux Klan – un’organizzazione politico-terrorista promotrice del suprematismo bianco e della segregazione razziale – perpetrava continue persecuzioni, discriminazioni e violenze nei confronti degli afroamericani. Smoot trovò innanzitutto sette studenti della Southern University – un’università solo per neri – che lasciarono Baton Rouge, Louisiana, per diventare i primi ingegneri afroamericani assunti dalla NASA. Il problema fu trovargli un posto per vivere: appartamenti e hotel non ammettevano neri e Smoot dovette cercare delle famiglie nella comunità afroamericana di Huntsville disposte ad accoglierli.

Charles T. Smoot, in una foto dell’archivio della NASA (NASA/MSFC)

Nei mesi successivi, comunque, la composizione delle assunzioni nella NASA iniziò a cambiare: furono assunti sempre più neri e donne, in un contesto fino ad allora dominato da uomini bianchi. Nel 1961, dopo nove mesi dall’ordine esecutivo di Kennedy, il numero degli impiegati non bianchi nelle posizioni di alto livello della NASA passò da 18 a 32.

Julius Montgomery fu il primo tecnico elettronico afroamericano assunto nella sede di Cape Canaveral, Florida, dove da lì a qualche anno sarebbe poi decollata la navicella che avrebbe portato per la prima volta l’uomo sulla Luna. Si era laureato al Tuskegee Institute in Alabama e fece parte dell’aeronautica militare, per poi diventare uno dei “range rats” della NASA: i tecnici che si occupavano della manutenzione e del monitoraggio dei razzi. La Florida all’epoca non era un luogo particolarmente accogliente per gli afroamericani – anche a Cape Canaveral molti imprenditori e impiegati della pubblica amministrazione erano affiliati al Ku Klux Klan – ma rispetto ad altri contesti la NASA era un luogo relativamente più tranquillo.

In un’intervista del 2015 pubblicata nel libro We Could Not Fail: the First African Americans in the Space Program scritto da Richard Paul e Steven Moss, Montgomery ha raccontato che nel suo primo giorno di lavoro nessuno volle stringergli la mano, e i suoi tentativi di usare un tono confidenziale irritavano i colleghi. Ad un certo punto sbottò dopo la provocazione di un collega: «Senti, brutto bastardo bianco, faccio parte del progetto formativo che vi insegna a comportarvi come delle persone. Vi siete sempre comportati come degli zoticoni di campagna, è ora che vi insegni come si fa». Il collega si mise a ridere, poi si strinsero la mano. Montgomery ebbe una brillante carriera: fu il primo afroamericano a conseguire la sua seconda laurea alla facoltà di Ingegneria di Brevard, Florida, fino ad allora aperta a soli bianchi; oggi una borsa di studio per studenti meritevoli porta il suo nome.

Gli uomini afroamericani non furono i soli dimenticati dalla storia spaziale degli anni Sessanta. Dato che impiegati e dirigenti della NASA erano prevalentemente bianchi e uomini, anche le donne non ricoprivano quasi mai ruoli apicali e non godevano di parità salariale.

Una di loro, Frances “Poppy” Northcutt, a soli 25 anni fu la prima donna a far parte del Centro di Controllo di Houston per il programma Apollo. Fu responsabile del calcolo della traiettoria di ritorno per la missione Apollo 8, che portò gli astronauti ad orbitare intorno alla Luna, e diede un importante contributo nel riportare a terra gli astronauti dell’Apollo 13 dopo l’incidente del 1970 (quello del famoso «Houston, abbiamo un problema»). Northcutt studiò Matematica all’università del Texas perché, come disse in un’intervista del 2008 per lo Houston Oral History Project, «era un lavoro da uomini… sapevo che poteva essere vantaggioso evitare i lavori “da donne” e ambire a un salario migliore».

Northcutt iniziò a lavorare come “calcolatrice”: alla maggior parte delle donne assunte dalla NASA veniva infatti chiesto di fare, rifare e controllare calcoli di ogni tipo, come dei computer umani, cosicché gli altri ingegneri, fisici e matematici potessero dedicarsi ad altro. C’erano anche donne afroamericane che si occupavano dei calcoli: venivano chiamate “coloured computers” – “computer di colore” – lavorando, pranzando e usando servizi igienici diversi da quelli delle colleghe bianche. La storia di tre di loro – Katherine Johnson, Mary Jackson e Dorothy Vaughan – è stata raccontata nel recente film Il diritto di contare, uscito in Italia lo scorso marzo e basato sull’omonimo libro di Margot Lee.


Negli anni successivi l’integrazione delle minoranze proseguì e la NASA diventò un modello per tutto il paese. Nel 1964 Wernher von Braun, direttore del Marshall Space Flight Center, pronunciò un discorso contro la discriminazione razziale e criticò in particolare la tassa elettorale, che imponeva il pagamento di un’imposta per iscriversi alle liste degli elettori e così scoraggiava e impediva a molti afroamericani di votare. Il suo discorso diede una forte spinta per l’affermazione dei diritti civili e nello stesso anno Lyndon B. Johnson, diventato presidente degli Stati Uniti dopo l’assassinio di John F. Kennedy, firmò il Civil Rights Act, che rese illegale qualsiasi tipo di discriminazione e abolì la segregazione in ogni ambito della vita pubblica.

Wernher von Braun, direttore del Marshall Space Flight Center, spiega le operazioni per il lancio da Cape Canaveral al presidente John F. Kennedy, sulla destra, durante una visita nel novembre del 1963 (NASA/MSFC)

Nel 1967 Robert Henry Lawrence Jr. diventò il primo astronauta afroamericano, ma dopo pochi mesi dal suo arruolamento morì a causa di un incidente durante un’esercitazione. Non raggiunse mai lo Spazio e i suoi meriti vennero riconosciuti dalla NASA solo trent’anni dopo, nel 1997, quando il suo nome fu aggiunto al Memoriale degli Astronauti del Kennedy Space Center, in Florida. Nel 1978 un gruppo di astronauti fu scelto per le future missioni della NASA: ne facevano parte sei donne, un uomo di origini asiatiche e tre afroamericani. Nel 1983 uno di questi, Guion S. Bluford, diventò il primo afroamericano ad andare nello Spazio, partecipando a quattro missioni.

Guion Bluford al Johnson Space Center di Houston, Texas, 5 settembre 1983 (AP photo)

Secondo i dati del 2018 la NASA ha una forza lavoro eterogenea dal punto di vista del genere e dell’etnia, grazie a un programma triennale di inclusione richiesto dalla stessa agenzia governativa fondata dall’amministrazione Kennedy e guidata da Johnson. Tra i suoi 17 mila dipendenti, quasi il 30 per cento appartiene infatti a minoranze etniche.

Questo e gli altri articoli della sezione Come andammo sulla Luna sono un progetto del workshop di giornalismo 2019 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.

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