Per vincere le elezioni americane serve sapere lo spagnolo?
Potrebbe sembrare di sì, a giudicare da quanti candidati Democratici lo usino nei comizi e nei dibattiti, ma forse non proprio
Nei giorni successivi al primo dibattito tra i candidati alle primarie dei Democratici per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, si è parlato molto del fatto che alcuni candidati hanno provato a rispondere in spagnolo alle domande dei moderatori. In passato si erano già visti tentativi del genere – l’ultimo era stato Jeb Bush durante le primarie dei Repubblicani del 2015 – ma la quantità e la qualità dello spagnolo utilizzato durante il primo dibattito dei Democratici ha spinto osservatori e analisti a individuare una tendenza.
Lo spagnolo è la seconda lingua più parlata negli Stati Uniti dopo l’inglese: secondo gli ultimi dati disponibili lo parlano 40 milioni di persone. «Ma la storia dello spagnolo negli Stati Uniti, e di chi si sente a proprio agio a parlarlo, è complicata», ricorda il New York Times. Lo spagnolo è la lingua più parlata dai milioni di migranti arrivati negli Stati Uniti dai paesi più poveri del Centro e del Sud America, che per decenni hanno subito discriminazioni e pressioni per uniformarsi ai costumi e alla lingua parlata dagli americani.
Sin dagli anni Ottanta l’approccio inclusivo nei confronti delle minoranze etniche è uno dei tratti più riconoscibili dei Democratici, che infatti tendono a essere il partito più votato dagli ispanici (con alcune eccezioni, per esempio gli esuli cubani che fuggono dal regime comunista): alle elezioni presidenziali del 2016 la candidata Democratica Hillary Clinton fu votata da due elettori ispanici su tre, mentre quattro anni prima il 71 per cento di loro votò per Barack Obama. Inoltre i cosiddetti latinos, gli statunitensi che hanno origini centroamericane o sudamericane, sono il secondo gruppo etnico che si espande più velocemente dopo gli americani di origine asiatica.
Era solo questione di tempo, quindi, prima che lo spagnolo e le questioni che si porta dietro assumessero questa rilevanza in una competizione politica. Fra l’altro il primo dibattito dei Democratici – spalmato su due serate – si è tenuto a Miami, una delle poche grandi città americane in cui sono i bianchi a essere in netta minoranza, ed era lecito aspettarsi che qualcuno dei candidati provasse a parlare in spagnolo.
Il primo è stato Beto O’Rourke, a soli tre minuti dall’inizio del primo dibattito. Rispondendo a una domanda sulle tasse, O’Rourke ha pronunciato alcune frasi in uno spagnolo piuttosto fluido, suscitando l’ammirazione di un altro candidato, Cory Booker, diventata quasi subito un meme (o forse era solo spaesamento, dato che poco dopo lo stesso Booker ha detto un paio di frasi in uno spagnolo stentato, evidentemente preparate a tavolino). O’Rourke è nato e cresciuto a El Paso, una città del Texas situata al confine col Messico e separata soltanto dal fiume Rio Grande dalla città messicana di Juárez. Già durante la sua campagna per entrare al Senato, nel 2018, nei suoi comizi alternava pezzi in inglese e in spagnolo, che aveva imparato al liceo e continuato a praticare.
Beto O'Rourke gave a long monologue in Spanish. And Cory Booker, not to be outdone, also answered a question in Spanish.
And the full stop in Julián Castro's closing statement was his "Adios" to President Donald Trump pic.twitter.com/o1wG4O7ckm
— POLITICO (@politico) June 27, 2019
Durante la seconda serata del dibattito anche Pete Buttigieg ha parlato molto brevemente in spagnolo, senza dilungarsi più di tanto. Buttigieg – che parla bene lo spagnolo – conosce una decina di lingue fra cui l’arabo, l’italiano e il norvegese.
Maneggiare lo spagnolo non è da tutti. Lo ha capito Cory Booker, che non ha fatto una gran figura quando è stato il suo turno di parlare spagnolo – «è stato quasi incomprensibile», ha osservato Vox – ma soprattutto Bill de Blasio, il sindaco di New York entrato nella corsa alle primarie soltanto due mesi fa. Il giorno successivo al dibattito, de Blasio ha visitato un gruppo di dipendenti dell’aeroporto di Miami che avevano indetto uno sciopero: alla fine di un breve discorso de Blasio ha gridato «Hasta la victoria siempre», una frase che per la comunità ispanica di Miami ha un significato non indifferente: fu resa famosa dal comandante cubano Che Guevara nei primi anni della rivoluzione castrista, che spinse moltissimi cubani a scappare e rifugiarsi proprio a Miami. Il giorno dopo de Blasio ha detto che non sapeva del legame fra la frase in spagnolo e Che Guevara.
Fra quelli che con lo spagnolo se la sono cavata così così, almeno stando alla pagella del Miami Herald, c’è anche Julián Castro, peraltro l’unico candidato che abbia origini ispaniche. Castro è il nipote di immigrati messicani, ma è cresciuto parlando inglese: il suo spagnolo è talmente rudimentale che spesso non lo usa nemmeno durante i comizi.
Eppure, scrive il New York Times, «la sua storia è rappresentativa di molti elettori ispanici». Secondo un recente sondaggio del Pew Research Center, soltanto il 13 per cento degli ispanici iscritti ai registri elettorali americani parla lo spagnolo come prima lingua. Fra gli stessi elettori ispanici, inoltre, solo il 28 per cento ritiene che sapere lo spagnolo sia essenziale per identificarsi come ispanico: e la capacità di parlare spagnolo è arrivata ultima in una serie di priorità stilate dagli elettori ispanici secondo un altro recente sondaggio; molto più in basso di «valorizzare la diversità» e «lavorare con entrambi i partiti», fa notare il New York Times.
Alcuni osservatori temono che i candidati Democratici che parlano in spagnolo possano essere accusati di Hispandering, un termine che fonde hispanic e pandering e che si può tradurre con «sfruttare la comunità ispanica»: in pratica, il loro tentativo potrebbe essere considerato come una scorciatoia per accattivarsi la simpatia della comunità ispanica, facendo leva su un elemento immediato ma tutto sommato superficiale come la lingua. Negli Stati Uniti, fra l’altro, è in corso da anni un dibattito sulla legittimità delle cosiddette identity politics, cioè quelle strategie di consenso e di governo che si rivolgono a singole comunità con argomenti identitari – etnici, di genere, di orientamento sessuale – e che secondo alcuni alimentano la frammentazione del dibattito politico.
Altri tendono a minimizzare e a considerare l’uso dello spagnolo un gesto perlopiù simbolico: Melissa Michelson, una scienziata politica esperta di strategie elettorali rivolte alle minoranze etniche, ha spiegato a USA Today che «gli elettori latinos con una maggiore sensibilità politica presteranno maggiore attenzione alla sostanza che il candidato ha da offrire: per loro, questa specie di simbolica mano tesa dal candidato è attraente, e li invoglia a continuare ad ascoltare».