C’è un buddismo radicale e violento
In Myanmar e Sri Lanka le frange più estremiste della religione pacifista per eccellenza stanno raccogliendo sempre più consensi: il loro nemico sono i musulmani
Da qualche anno in alcune aree dell’Asia meridionale e nel sudest asiatico è emersa una nuova forma di radicalismo religioso legato al nazionalismo più intransigente: in paesi come Myanmar e Sri Lanka, alcune frange molto estremiste del buddismo – considerata da molti la religione pacifista per eccellenza – hanno cominciato a raccogliere sempre più consensi. I discorsi d’odio e gli episodi di violenza si sono rivolti per lo più contro le comunità musulmane locali, che pur essendo una netta minoranza della popolazione sono viste come una seria minaccia alla sopravvivenza della stragrande maggioranza buddista dei due stati. Le stesse autorità in più occasioni hanno chiuso un occhio di fronte ai crimini commessi dagli estremisti buddisti, alimentando il clima di ostilità e tensione, ha raccontato tra gli altri Hannah Beech sul New York Times.
L’idea che sta alla base delle forme più radicali di buddismo è simile a quella che negli ultimi anni si è sentita spesso formulare da alcuni esponenti dell’estrema destra europea più islamofoba: ovvero che la crescita del numero di musulmani all’interno di società in cui la maggioranza della popolazione professa un’altra religione sia una minaccia all’esistenza stessa di queste società.
Nel caso del buddismo, è un’idea che ha trovato terreno fertile per lo più nella scuola dei theravada, letteralmente “scuola degli anziani”, la scuola buddista più antica e prevalente in Myanmar, Sri Lanka, Thailandia, Cambogia e Laos. Nonostante in questi paesi i buddisti siano la stragrande maggioranza della popolazione, negli ultimi anni diversi monaci radicali hanno continuato ad alimentare tensioni e incitare alla violenza, preoccupati dagli alti indici di crescita demografica fatti registrare dalle comunità musulmane. Alcuni monaci, ha scritto Beech sul New York Times, «sono entrati nell’era di un tribalismo militante, descrivendo loro stessi come combattenti spirituali che devono difendere la loro fede contro forze esterne».
In Myanmar la retorica della minaccia esistenziale non è cambiata nemmeno dopo le enormi operazioni militari compiute negli ultimi due anni dall’esercito birmano contro la minoranza musulmana dei rohingya, costretta per lo più a scappare nel vicino Bangladesh. Diverse organizzazioni internazionali hanno parlato esplicitamente di pulizia etnica, ma alcuni dei monaci buddisti più radicali del Myanmar hanno continuato a insistere sul rischio di «invasione» e sulla necessità di proteggere il buddismo e gli stati buddisti «con ogni mezzo». Lo scorso maggio il più noto tra loro, Ashin Wirathu, conosciuto anche come il “bin Laden buddista”, ha pubblicamente elogiato l’esercito del Myanmar per quanto fatto con i rohingya, nonostante in precedenza i rapporti tra militari e religiosi buddisti avessero attraversato momenti di enorme tensione.
La cosa più preoccupante, ha scritto Beech, è che negli ultimi anni non sono stati solo i monaci più fanatici a prendere posizioni pubbliche di questo tipo contro le comunità musulmane, ma anche religiosi più moderati e rispettati.
Tra loro c’è per esempio l’82enne Ashin Nyanissara, più conosciuto come Sitagu Sayadaw, il monaco buddista più influente del Myanmar, costretto a vivere diversi anni in esilio negli Stati Uniti per essersi messo contro proprio l’esercito birmano. Nel maggio scorso una foto di un sorridente Sitagu Sayadaw insieme ad alcuni soldati fu pubblicata su una pagina Facebook legata all’esercito. Il monaco non si limitò a fare qualche dichiarazione pubblica di appoggio dei militari: tra le altre cose, disse al comandante delle forze armate birmane che gli oltre 400mila monaci buddisti del Myanmar sarebbero stati pronti a schierarsi a fianco dell’esercito contro i musulmani, se fosse stato necessario. «Quando qualcuno di così rispettato come Sitagu Sayadaw dice qualcosa, anche se è qualcosa di molto sprezzante nei confronti di un particolare gruppo di persone, la gente ascolta», ha detto Daw Khin Mar Mar Kyi, antropologo dell’Università di Oxford: «Le sue parole giustificano l’odio».
Il Myanmar non è l’unico paese asiatico in cui il buddismo è stato attraversato da spinte estremiste e radicali. Anche in Sri Lanka, dove il buddismo theravada è professato dal 70 per cento della popolazione e l’Islam da meno del 10, si è visto qualcosa di simile.
Qui molti influenti monaci buddisti hanno accusato i musulmani dei crimini più disparati: per esempio di fabbricare biancheria intima in grado di rendere le donne buddiste infertili o spargere le pillole anticoncezionali nel curry consumato dai buddisti. Le tensioni in Sri Lanka sono aumentate molto negli ultimi mesi, soprattutto dopo gli attentati compiuti dallo Stato Islamico nel giorno di Pasqua, in cui sono state uccise 253 persone.
Iselin Frydenlund, docente di studi religiosi alla Scuola norvegese di Teologia, con sede a Oslo, ha detto al New York Times: «C’è questa idea che gli uomini musulmani, che hanno molte mogli, siano iperfertili. Ma Ba Tha [gruppo buddista birmano molto influente, ndr] ha attinto da questa retorica, e ha cominciato a considerare le donne buddiste come simboli nazionali e a rischio di stupro da parte degli uomini musulmani». Il fatto invece che le forze armate birmane abbiano usato lo stupro sistematico come arma durante l’offensiva contro i rohingya non viene riconosciuto dai monaci del Ma Ba Tha, gruppo in teoria fuorilegge dal 2017, ma nella pratica ampiamente tollerato dalle autorità. Uno di loro, U Rarza, ha detto: «Non penso che qualcuno possa stuprare le donne bengalesi, che sono brutte e disgustose».
Nonostante gli estremisti siano solo una piccola parte del buddismo in Myanmar, in Sri Lanka e in altri paesi asiatici, le loro idee hanno avuto negli ultimi anni una diffusione molto estesa, grazie soprattutto all’uso di Facebook. Finora l’emergere di frange estremiste ha portato a un inasprimento di rapporti tra comunità religiose, e a diversi episodi di violenza, ma non è escluso che la situazione possa peggiorare ulteriormente nel prossimo futuro.