Quarant’anni fa fu ucciso Giorgio Ambrosoli
"Il culmine di un certo modo di fare finanza, di un certo modo di far politica, di un certo modo di fare economia"
La notte dell’11 luglio del 1979, quarant’anni fa, l’avvocato Giorgio Ambrosoli venne ucciso con tre colpi di pistola sotto casa a Milano, in via Morozzo della Rocca: aveva 45 anni. Dal 1974 era commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, un istituto portato quasi al fallimento dal banchiere siciliano Michele Sindona, che aveva consolidati rapporti con pezzi molto importanti della politica, della finanza e della criminalità organizzata siciliana. Il giorno dopo la sua morte, il 12 luglio del 1979, Ambrosoli avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale per confermare la necessità di liquidare la banca e attribuire la responsabilità della situazione a Michele Sindona.
Giorgio Ambrosoli veniva da una famiglia borghese milanese, politicamente era vicino ai monarchici, era cattolico, aveva studiato Giurisprudenza a Milano e si era specializzato nel settore fallimentare. Nel 1974 Guido Carli, l’allora governatore della Banca d’Italia, gli affidò l’incarico di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, un avvocato che con operazioni bancarie azzardate e ottime relazioni era riuscito a raccogliere molti soldi in Italia e negli Stati Uniti.
Nel 1961 Sindona aveva comprato la sua prima banca, la Banca Privata Finanziaria, ma nel 1967 erano iniziati i primi problemi: l’Interpol statunitense aveva iniziato a indagare su di lui a causa dei suoi legami con la mafia, segnalandolo al governo italiano che però non trovò alcuna irregolarità nelle sue attività. Nel 1971 Sindona aveva fatto delle operazioni finanziarie finite male, ma l’anno dopo era riuscito a prendere il controllo di una delle maggiori 20 banche statunitensi dell’epoca, la Franklin National Bank di Long Island. Giulio Andreotti lo aveva definito “il salvatore della lira” ma pochi mesi dopo, nell’aprile 1974, aveva portato la Franklin al fallimento.
Ambrosoli aveva il compito di esaminare la malmessa situazione economica della BPI e si rese conto, durante le sue indagini, che c’erano gravi irregolarità nei conti, che i libri contabili erano stati falsati, che erano state portate avanti articolatissime operazioni, alcune palesi, altre occulte. In quegli anni Sindona aveva infatti inserito nelle sue società finanziarie gli investimenti del mafioso americano John Gambino: attraverso Sindona e Gambino, i boss Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e Rosario Spatola investivano il loro denaro illecito in società finanziarie, per ripulirlo.
In quel periodo Ambrosoli cominciò anche a ricevere pressioni e tentativi di corruzione perché impostasse il suo rapporto in modo da evitare l’arresto e l’incriminazione di Sindona. Le pressioni diventarono poi minacce di morte. Compresa la complessità della questione derivante dagli intrecci tra finanza, politica, criminalità organizzata siciliana e massoneria, un anno più tardi Ambrosoli scrisse alla moglie una lettera che non le consegnò, ma che la moglie ritrovò solo più tardi tra i fascicoli del suo lavoro:
«Anna carissima, è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I. (Banca Privata Italiana n.d. r.) atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente di ogni colore e risma non tranquillizza affatto. È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese.
Ricordi i giorni dell’Umi (Unione Monarchica Italiana n.d.r.), le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito.
Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo.
I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [… ]. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa.
Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro [… ].
Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi. Hai degli amici, Franco Marcellino, Giorgio Balzaretti, Ferdinando Tesi, Francesco Rosica, che ti potranno aiutare: sul piano economico non sarà facile. Ma – a parte l’assicurazione vita – (…).
Giorgio»
Dopo cinque anni Ambrosoli concluse il procedimento di liquidazione, impedendo il salvataggio della Banca Privata Italiana. Collaborò anche con la magistratura statunitense e l’FBI per incriminare Sindona, tanto che alcuni giornali italiani si riferirono a lui definendolo il “nemico di Sindona”. Quando un giornalista gliene chiese conto esplicitamente, Ambrosoli rispose: «È molto semplice, mi pare, sono diventato il nemico di Sindona ma non l’amico dei potenti. Ho dovuto pestare i piedi a troppa gente che sta nel Palazzo».
Il 12 luglio del 1979 Ambrosoli avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale per confermare la sua analisi sulla situazione della banca. La sera prima era a casa sua a Milano con degli amici, per vedere un incontro di boxe. Squillò il telefono e rispose, ma dall’altra parte l’interlocutore restò in silenzio. Dopo la fine dell’incontro Ambrosoli accompagnò in macchina i suoi amici nelle loro case. Tornando indietro, mentre parcheggiava sotto casa sua, un uomo si accostò e con un pretesto lo fece scendere dall’auto, per poi sparargli. Era il mafioso italoamericano William Aricò, che poi si scoprì essere stato ingaggiato proprio da Michele Sindona e pagato con 25mila dollari in contanti e altri 90mila accreditati su una banca di Lugano. Ambrosoli morì poco dopo sull’ambulanza. Ai suoi funerali non partecipò alcuna autorità pubblica, a parte alcuni esponenti della Banca d’Italia.
Indagato anche dalle autorità statunitensi, Sindona inscenò un sequestro arrivando a farsi sparare a una gamba per rendere la storia più veritiera. Nel 1980 però venne arrestato e condannato negli Stati Uniti per frode, spergiuro e appropriazione indebita. Il governo italiano chiese di estradare Sindona per poterlo processare per l’omicidio Ambrosoli: il 18 marzo 1986 venne condannato all’ergastolo. Morì due giorni dopo, nel carcere di Voghera, per avvelenamento da cianuro di potassio messo in un caffè. Come ricorda Giorgio Bocca in un lungo articolo pubblicato su Repubblica nel 1999, il secondino che gli aveva portato il caffè non venne indagato: «Era arrivato pochi giorni prima da un istituto di pena siciliano. I potenti si sono tolti dai piedi un testimone pericoloso uno che avrebbe potuto raccontare molte cose sul loro conto».
Giulio Andreotti, così come Licio Gelli, furono più volte accostati a Sindona. Durante un’intervista a La storia siamo noi, il programma di Giovanni Minoli, al giornalista che gli chiedeva perché Ambrosoli fosse stato ucciso, Andreotti rispose: «Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando». Poi si scusò e disse di essere stato frainteso.
La vicenda di Giorgio Ambrosoli è stata molto raccontata, da giornali, libri e film, ed è considerata emblematica di un particolare periodo storico italiano. Pochi giorni dopo il delitto, il professor Marco Vitale pubblicò su Il Giornale Nuovo un articolo intitolato “Perché Ambrosoli”. A un certo punto, diceva così:
L’assassinio di Ambrosoli è il culmine di un certo modo di fare finanza, di un certo modo di far politica, di un certo modo di fare economia. I magistrati inseguono esecutori e mandanti del delitto, ma dietro ci sono i responsabili, i responsabili politici. E questi sono tutti coloro che hanno permesso che la malavita crescesse e occupasse spazi sempre più larghi nella nostra vita economica e finanziaria, e questi sono gli uomini politici che definirono Sindona salvatore della lira, sono i governatori della Banca di Italia che permisero che i Sindona penetrassero tanto profondamente nel tessuto bancario italiano, pur avendo il potere e il dovere di fermarli per tempo; sono i partiti che presero tangenti formate da denari rubati ai depositanti sapendo esattamente che di questo si trattava: sono quelli il cui nome è scritto nella lista dei cinquecento che hanno nascosto i soldi oltre frontiera, tutti quelli che da venti anni al vertice della politica e della economia hanno perso persino il senso di cosa sia la professionalità, cioè il subordinare la propria fetta di potere piccola o grande che sia, agli scopi dell’ordinamento, delle istituzioni, della propria arte o professione, all’interesse pubblico.