In fuga dallo Strega
Claudia Durastanti riflette sull'esperienza di "essere in cinquina" al premio letterario più famoso, e racconta la convivenza con gli altri quattro
di Claudia Durastanti
Premio Strega 2019, secondo giorno del tour con la dozzina di autori in gara.
Siamo diretti al Teatro della legalità di Casal di Principe per incontrare i ragazzi di alcune scuole campane, ma l’autobus si ferma a metà strada; il portellone laterale non si chiude e rischia di mietere alberi e passanti. L’autista prova a intervenire ma il suo stato di evidente smarrimento fa sì che alcuni finalisti prendano in mano la situazione. Il primo a scendere è Marco Missiroli: so che non ha inforcato i Ray Ban e non si è infilato un giubbotto di pelle da aviatore, ma è così che lo immagino mentre cerca di recuperare dei materiali di fortuna a bordo strada per creare dei puntelli o fare qualsiasi cosa si faccia quando il portellone di un autobus non vuole chiudersi. Il secondo a intervenire è Antonio Scurati, armato del libro di Benedetta Cibrario, Il rumore del mondo, un romanzo che in questa circostanza prova a dimostrare quanto la letteratura abbia una funzione pratica nelle nostre esistenze, ma neanche quando viene usato come spessore l’autobus riesce a rimettersi in marcia. Per un attimo Missiroli e Scurati restano lì a scambiarsi pareri sulle varie metodologie di intervento, e nel giro di pochi minuti scendono anche gli altri candidati – lo Strega non verrà deciso dalla propria superiorità in fatto di motori –, la stessa Benedetta Cibrario che nel corso del tour si rivelerà forte in pensiero e azione, editor, uffici stampa e membri della Fondazione Bellonci, mentre io rimango seduta a fissarli dal finestrino pensando che se questa fosse una lotta per la sopravvivenza, se fossimo in una giungla come quella di Lost, io sarei spacciata. Continuo a guardarmi attorno incredula mentre dico a tutti che non ho il minimo senso pratico. E non ho la minima idea di come me la caverò insieme a queste persone per i tre mesi successivi.
È questo il primo momento in cui siamo una specie di gruppo, in cui tutti i retropensieri e le smanie apocalittiche della sottoscritta convinta di essersi imbarcata in una specie di reality show a eliminazione, in cui si lotta tanto con gli scrittori del presente quanto con i miti letterari inscalfibili e arroganti del passato, vengono un po’ meno.
Mentre sono seduta lì, mi chiedo perché vogliamo esserci, perché ci importa così tanto.
Per un po’ è tutto un «e Pavese che avrebbe fatto?», veramente Natalia Ginzburg calcolava i voti degli Amici della Domenica con una specie di quadrato semiotico, se uno non vince e poi twitta «Io bevo champagne», come Malaparte, fa la figura del cafone? Il confronto con il passato ci fa sentire un po’ più nobili, dotati di senso. Certo, si fa lo Strega anche per il desiderio di vendere copie e di emanciparsi da un altro lavoro che non sia la scrittura, ma considerati i numeri del mercato editoriale attuale e il calo dei lettori questo desiderio è irrilevante, immateriale, mortifero e forse suicida. È l’altro desiderio che crea una febbre: la parte viva dello Strega, la più bella, quella che cerca di capire come si tiene insieme il presente del proprio libro con il passato di tutti gli altri. E in tanti brevi intervalli ognuno di noi ha proprio questa luce qui, che si riflette su tutto, una luce in cui lo scrittore è solo e la scrittrice è sola, non ha editori, non ha agenti, non ha consiglieri e neanche amici della Domenica, ma ha solo la misura di sé e del proprio lavoro. Sono momenti di solitudine rara, ma anche quelli che aiutano a continuare a giocare senza provare un profondo imbarazzo per se stessi.
Nel corso delle prime settimane, intanto che si allevia la paranoia subentra anche una specie di esaltazione, qualcosa da inizio della gita scolastica, prima che arrivino i cuori infranti dell’ultimo giorno, i capelli brutti e gonfi lavati con gli shampoo degli alberghi e l’odore insopportabile che si crea in un bus pieno di persone in preda a una scossa ormonale. Penso già di sapere di chi diventerò amica, per chi proverò un’infatuazione laica, chi ricoprirà un ruolo da fratello maggiore e a chi farò da sorella io, e manco il pronostico: non perché sbaglio ad assegnare i ruoli alle persone, ma perché alla fine di tutta quest’esperienza, le varie persone e i ruoli si saranno fusi completamente, così come si saranno fusi i nostri libri a furia di parlarne.
In questo, il Premio Strega ricorda il Frankenstein di Mary Shelley: io resto dell’idea che quest’anno abbia vinto un libro che parla di idealismo di gioventù, di rivoluzione che poi diventa conformismo e di desiderio che si confonde con la religione, e di tutti i padri che non abbiamo mai ammazzato. Non c’erano legami troppo ovvi tra gli ultimi cinque libri rimasti in gara, ma è pur vero che questi legami si sono creati nel corso degli incontri con il pubblico, sono emerse le parti nascoste a cui non avevamo mai pensato prima, e i nostri libri hanno iniziato a flirtare per i fatti loro, a scegliersi e respingersi a vicenda.
Ma queste cose, seduta sull’autobus in panne lungo la strada, intanto che ci ritroviamo a familiarizzare tra noi, io non le so ancora. A un certo punto finiamo in un parcheggio, circondati dalle nostre valigie, davanti a quella che si rivela essere una clinica psichiatrica lungo una strada periferica campana. Dodici scrittori e l’armata editoriale che li sostiene dispersi lì, dove è estremamente facile varcare la soglia. Restiamo a fissare i cancelli in preda all’ilarità, e io mi chiedo se Clarice Lispector o chi per lei abbia mai scritto un racconto del genere, dodici scrittori in una visita guidata che poi vengono internati, ma Clarice Lispector era una scrittrice ucraina naturalizzata brasiliana e sicuramente ci avrebbe messo dentro dei fantasmi e la scissione dell’io, quando questa storia dello Strega può essere scritta solo in lingua italiana, una lingua festosa, barocca, a tratti sporchissima e comunque, come mi ha detto una candidata a pranzo durante un’altra tappa, questa è la cosa «più arcitaliana di sempre», dove non c’è tanto un io che si scinde, ma un noi improbabile che si compatta.
Quando a marzo ho saputo che ero entrata nella dozzina del Premio Strega, ho ripensato a un concerto commemorativo dei Big Star a cui ero stata, quando qualcuno aveva detto che Alex Chilton si metteva sempre defilato sul palco anche se era il cantante. Chilton sosteneva che era la posizione migliore e più bella in cui stare.
E allora, come si sta al margine, come si sta laterali nel Premio che mette tutto al centro?
Ci si sta capendo che c’è del margine nel Premio Strega così come c’è una componente major nel mondo editoriale che sta fuori, e che si tiene lontano da questa manifestazione e dalla sua intrinseca e insopprimibile popolarità. Perché di fatto questo è un premio genuinamente popolare, che porta prima dodici libri e poi ne porta cinque libri in tanti festival e tante piazze diverse, e per quanto ci faccia divertire o infuriare pensare a macchinazioni editoriali e a intrighi di potere, l’impressione è che ai lettori che vengono agli incontri, di questo chiacchiericcio importi poco. A volte è come se chi sta dentro lo Strega si convincesse di essere un personaggio di House of Cards o Game of Thrones, ma senza che lo sappia il pubblico da casa, per il quale si tratta solo di una partita di campionato un po’ più avvincente del solito. Dove magari è vero che tanto alla fine vince la Juve, a meno che non resusciti l’Inter, ma non per questo si smette di tifare Roma, o si inizia a pensare che la Roma non debba partecipare alla Serie A. Ci immaginiamo tutti villain, outsider, eroine, principi maledetti e madri assassine nel corso del Premio, ma faremmo fatica a spiegare chi è chi, al lettore che vuole solo leggere un bel libro.
Durante il viaggio da Ragusa a Verbania e in altre città di Italia toccate dal tour, capita anche di soffermarsi su questioni laterali, che laterali non sono: la presenza di un doppio margine. Quest’anno in cinquina eravamo tre donne, di cui due meridionali, nere di capelli e ossessionate dalle belle scarpe (io e Nadia Terranova, ma pure Benedetta Cibrario ha origini campane) e se è evidente la scarsa presenza di donne vincitrici nel corso del premio, anche la questione geografica ha un suo peso. Di 71 vincitori, solo 13 scrittori sono nati e rimasti a sud, dato che diventa ancora più ristretto quando appunto si interseca con il genere.
Concorrere allo Strega significa imporsi su quest’alternanza continua di megalomania e martirio, significa saper cambiare posizione, accettare che in alcune presentazioni va meglio qualcuno, che in altre si dicono solo fesserie, ognuno di noi ha sbagliato una battuta almeno una volta mettendo i compagni sul palco nella posizione di battere le mani perché nel pubblico non rideva nessuno, qualche volta ho pure sentito la frase «In questa piazza vado forte» ma a un certo punto credo di averla detta anche io, prima di pentirmene nella stanchezza semilisergica delle quattro del mattino, man mano che gareggiamo e ci fotografano e ci decomponiamo e ci si disfano i volti, che impariamo a memoria le abitudini alimentari degli altri, che parliamo di sesso (molto), di romanzo europeo (qualche volta), della serie Chernobyl e di Hilary Mantel (uno dei nomi che ci mette quasi tutti d’accordo), e a ben pensarci parliamo soprattutto di tantissime scrittrici, da Anna Banti a Sally Rooney, e confessiamo le nostre insicurezze nel mestiere. Questa insicurezza è un dato importante: non tutti gli autori sono performer nati e sono in grado di esporsi durante gli incontri del tour, tanto che a un punto ci chiediamo come si possono ovviare queste asimmetrie ed evitare la sindrome dell’applausometro. Un Premio, per quanto spettacolarizzato e basato sulla condivisione, dovrebbe accogliere sempre anche chi non ha questa vocazione retorica e presa sul pubblico.
Vivo all’estero da molti anni, e la prima domanda che mi viene rivolta quando parlo del Premio Strega è: ma è poi necessaria questa convivenza tra candidati in competizione, questa prossimità fisica non è ipocrita e tossica? A lungo ho pensato che la mondanità fosse la morte della letteratura, ma Francis Scott Fitzgerald e Tom Wolfe di questo scrivevano, di feste sepolcrali e fuori moda, di funzionari arricchiti, di mecenati svaniti, e l’umanità espressa in quei contesti e in quelle pagine non era migliore. Forse era migliore il modo che questi scrittori sapevano raccontarla, ma alla fine di questa esperienza mi capita di pensare che non è vero che lo Strega non merita una certa letteratura: forse la letteratura non merita la sua congenita bizzarria, e non sa raccontare la sua promiscuità con il potere e gli effetti radioattivi dell’ambizione, delle aspettative non ripagate, e non sa neanche restituire il senso delle amicizie che si possono creare, perché l’amicizia risulta noiosa, quando di fatto è molto più noiosa e conformista la disgregazione. Non sa raccontare la mancanza che si prova, di ogni singola persona che ne ha fatto parte, una mancanza che mi fa pensare ai finali di Stephen King, quando le vecchie bande si ritroveranno ma mai complete: si vedranno a gruppi di due, o di tre, ma il cerchio magico non si chiuderà mai, e ognuno scriverà i propri libri e diventerà un altro tipo di autore altrove.
L’impressione è che i risentimenti che si provano, a un certo punto, sono innanzitutto per sé stessi, perché dopo un po’ ci si annoia del suono della propria voce.
Nei giorni finali del tour so che a un certo punto Marco racconterà di quella volta che Flannery O’Connor da bambina si mise a far camminare i pavoni all’indietro, che Nadia parlerà del concetto di trasfigurazione in letteratura per compiere il passaggio alchemico dal vero al falso e viceversa, che Benedetta dirà «noi siamo immaginazione», portando il 1838 che racconta nel suo libro in zona 1968 e con un sussulto eroico di cui ho nostalgia, so che Antonio dirà che lui viene dalle pale d’altare e che abbiamo relegato il passato ai margini e abbandonato il culto dei morti, so che loro mi sentiranno parlare per l’ennesima volta della funzione poetica dell’errore, e di necessità e desiderio nella migrazione, sentendoci tutti sconvenientemente intimi e anche estranei rispetto a questo momento delle nostre vite.
Ma è proprio a causa di questa ripetitività, che io inizio a sviluppare nuove ossessioni, legate a questa particolare stagione letteraria e a questa cinquina: è poi vero che la letteratura ha una funzione pedagogica come sostiene Scurati? È sensato dire che in questo momento di estrema trascurabilità della letteratura invece di avviare lotte fratricide tra gruppi editoriali forse dovremmo goderci la libertà che deriva proprio dalla sensazione di essere irrilevanti? E perché il romanzo di Cibrario che parla di un’adolescente straniera in un paese alla vigilia di una rivoluzione viene inquadrato come romanzo storico e non come romanzo politico? E non è forse vero che in alcune parti di Fedeltà Missiroli si è avvicinato al racconto horror, nello specifico quelle relative all’acquisto di una casa al di sopra della propria possibilità, e non è in parte horror e connesso a Shirley Jackson Addio fantasmi di Terranova, in cui l’anima si disfa come si disfa una casa? E chissà se questo sfaldarsi tra generi non farà sì che nei prossimi anni in cinquina arrivino libri genuinamente devoti al fantastico, o stanchi del realismo sociologico, o del ricatto della contingenza.
Intanto anche questa tornata dello Strega è diventata un fatto del passato, un pettegolezzo o un eterno fenomeno di passaggio, un rito che sfascia e riforma, e comunque ci restituisce un’idea più intima, sempre magnificamente ambigua, del tempo in cui siamo dentro, e dei libri che gli sopravvivono.