Gli altri muri nel mondo
Tanti sulla superficie terrestre, tanti nella storia dell'umanità, per tenere le persone fuori o per tenere le persone dentro
di Maddalena Valle
Il 9 novembre 2019 si celebra il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino che divise in due la città per quasi trent’anni. Non fu però l’ultima separazione costruita per separare due territori o dividere una popolazione; negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale infatti il numero di barriere erette nel mondo con questi obiettivi aumentò notevolmente.
Nel 2014 un centro di studi strategici e diplomatici dell’Università del Québec a Montreal, in Canada, ha censito e riportato su una mappa tutte le barriere di confine presenti nel mondo.
Gli studiosi hanno considerato barriere di vari materiali, come filo spinato, mattoni e cemento, arrivando a contarne più di 70 sparse in diversi continenti, dall’America all’Asia. Tra il 1945 e il 1991 erano 19 e diminuirono a 12 subito dopo la fine della Guerra fredda. Questa tendenza però si è invertita negli ultimi 20 anni, con un numero totale di muri triplicato. Alcuni risalgono al Novecento, mentre altri sono ancora in fase di progettazione.
È evidente però come siano cambiati nella storia la loro funzione e lo scopo per cui vengono costruiti. Se in passato servivano a difendere i territori da invasioni e pericoli esterni, nel Novecento divennero fondamentali per la definizione di confini instabili. Oggi uno degli obiettivi è invece il controllo e il disincentivo dell’immigrazione.
Elisabeth Vallet, che ha coordinato lo studio, ricorda che solo in Europa sono stati costruiti circa mille chilometri di muri dal 2015, l’equivalente di più di sei volte la lunghezza del muro di Berlino, e un terzo delle barriere nel mondo sono state progettate per tenere fuori da un Paese gli abitanti degli Stati vicini.
L’Asia ha il numero più alto di muri, circa trentasei, ma bisogna tener conto che è il continente più esteso al mondo (tra i muri più importanti ci sono quelli tra Macao, Hong Kong e la Cina, la barriera tra Israele e Cisgiordania, quella tra Corea del Nord e Corea del Sud e i muri tra India e Pakistan).
L’Europa occupa il secondo posto, superando America e Africa, e ospita circa sedici muri situati soprattutto nella zona orientale (come quelli ai confini tra Ungheria, Serbia e Croazia) insieme alle barriere che tra Africa ed Europa separano Ceuta e Melilla dal Marocco.
I muri importanti nella storia
La costruzione di barriere è un’idea molto antica che si è ripetuta nella storia per millenni. Le prime tracce di muri sono state trovate in Turchia e risalgono a dodicimila anni fa. Quasi tutte le città del mondo antico erano circondate da mura; le prime furono la biblica Gerico, nell’attuale Cisgiordania, e la sumerica Uruk, seguite poi da Babilonia in Mesopotamia, Troia in Turchia e Atene in Grecia, solo per citarne alcune. Molte di queste mura sono menzionate da autori dell’antichità tra cui Omero o lo storico greco Polibio: servivano a proteggere le popolazioni da invasioni e incursioni nemiche.
Il primo muro di confine che non circondava una città fu innalzato invece da un re sumero nel secondo millennio a.C. Si estendeva per 250 chilometri tra il Tigri e l’Eufrate e aveva l’obiettivo di tenere lontani gli Amoriti, antichi abitanti della Palestina e della Siria. Anche la grande muraglia di Gorgan, costruita nel terzo secolo a.C. dalla popolazione dei Parti nell’attuale Iran, può essere considerata una delle prime barriere di frontiera, insieme alla Grande muraglia cinese e ai valli romani. Nel continente americano importanti sono le mura in Perù a Sacsayhuaman, capitale dell’impero Inca, costruite con massi giganti che le rendono visibili ancora oggi.
La Grande muraglia cinese
La Grande muraglia cinese è una lunga serie di mura costruite a partire dal terzo secolo a.C. dall’imperatore Qin Shi Huang, lo stesso che fece realizzare l’esercito di terracotta di Xi’an, un insieme di statue che si trovano nel mausoleo del sovrano e che si credeva dovessero servirlo nell’Aldilà. La costruzione del complesso proseguì fino al quattordicesimo secolo, alternando materiali diversi. Per le prime parti si utilizzarono terra battuta, sassi e legno, mentre le ultime furono realizzate in mattoni, piastrelle, calce e pietra. Gli operai impegnati nei lavori trasportarono i materiali a mano, con carri o a dorso di animali. La struttura è costituita da merli per la difesa, parapetti e camminamenti, molti dei quali percorribili ancora oggi. Diverse torrette di segnalazione permettevano alle guardie di controllare la zona circostante e comunicare rapidamente in caso di pericolo. Lo scopo principale per cui fu eretta la Grande muraglia era infatti difensivo: doveva proteggere la Cina dai popoli delle steppe. Nonostante la sua imponenza però non riuscì a impedire alcune invasioni come quelle dei Liao, dei Mongoli e dei Manciù.
Secondo una ricerca dell’Amministrazione Statale del Patrimonio Culturale cinese il complesso si estende per 21.196,18 chilometri, da Jiayuguan, una zona desertica nel nord-ovest della Cina, fino al distretto di Shanhaiguan, a est di Pechino; una lunghezza pari a metà di quella dell’equatore. Se invece si considerano solo le parti costruite durante la dinastia Ming (1368-1644) il totale è di 8.850 chilometri. La grandezza e la struttura massiccia però non bastano a renderla visibile dallo spazio, come sostiene una diffusa leggenda metropolitana.
Il Vallo di Adriano
Costruito per volere dell’imperatore Adriano, il Vallo era un’imponente fortificazione di pietra che segnava il confine nordoccidentale dell’impero romano. Il nome deriva dal latino “vallum”, una parola che nell’antica Roma serviva a indicare la palizzata o lo steccato di legno piantato sopra un argine difensivo, per rinforzarlo. I lavori, portati avanti dai soldati delle legioni, iniziarono nel 122 d.C. e vennero completati in una decina di anni.
Il Vallo si estendeva per 117 chilometri da Wallsend, sul fiume Tyne, fino alla costa del Solway Firth, era alto cinque metri e largo due metri e mezzo con torri di avvistamento e fortini. L’obiettivo per cui venne eretto era la protezione del confine dell’impero dalle incursioni delle tribù barbare del nord, come i Pitti che vivevano nell’attuale Scozia. Alcuni storici sostengono che tra gli scopi per cui venne costruito ci fosse anche la prevenzione dell’immigrazione e del contrabbando. Estesi resti del muro esistono ancora nel suo tratto centrale.
Il Muro del pianto
Il Muro del pianto o Muro occidentale è da migliaia di anni un simbolo fondamentale per le tre grandi religioni monoteiste: è ciò che rimane del tempio di Gerusalemme, che venne costruito in calcare nel decimo secolo a.C., demolito dal re babilonese Nabucodonosor nel 586 a.C., e poi ricostruito da Erode il Grande, re della Giudea nel 19 a.C.: il tempio fu distrutto definitivamente dai Romani nel 70 d.C. Solo il muro di cinta occidentale del cortile esterno rimase in piedi e viene chiamato Muro del pianto proprio per ricordare le lacrime versate dagli Ebrei dopo l’abbattimento del tempio.
Il muro si trova lungo la parete occidentale della Spianata delle Moschee, una zona rialzata di Gerusalemme così chiamata perché ospita alcuni importanti luoghi di culto musulmani, la moschea Al Aqsa e la Cupola della roccia. Nella stessa area si ritrovano quindi a pregare ebrei, cristiani e musulmani che considerano il luogo sacro per diverse ragioni. Per gli ebrei il punto dove sorge il Muro del pianto è quello in cui ci si può avvicinare di più a Dio e perciò seguono la tradizione di infilare nelle fessure tra le pietre di calcare, piccoli fogli di carta con le loro preghiere. I cristiani riconoscono la zona come il luogo dove Gesù ha vissuto alcuni momenti importanti della sua vita e nei pressi della quale sorge anche la Basilica del Santo Sepolcro, dove secondo la tradizione è stato sepolto. I musulmani invece considerano il complesso il terzo luogo sacro più importante al mondo, dopo la Mecca e Medina, in Arabia Saudita. La moschea di al Aqsa e la Cupola della roccia infatti sono state costruite nel luogo dove, secondo l’Islam, il profeta Maometto è salito in cielo. Anche per gli ebrei inoltre è importante la roccia, conservata all’interno della cupola, sulla quale avvenne questa ascensione. Si crede infatti che sia quella su cui il patriarca biblico Abramo avrebbe avuto intenzione di sacrificare suo figlio Isacco, come richiestogli da Dio.
Dal 1967, dopo la guerra dei sei giorni, i militari israeliani controllano l’accesso alla Spianata delle Moschee e al Muro del Pianto, e l’area è suddivisa in zone di preghiera riservate ai musulmani, agli ebrei e ai cristiani.
I muri che separano
Altri muri sono storicamente e universalmente meno famosi ma hanno un ruolo importante tra quelli costruiti per separare luoghi o popolazioni.
Ceuta e Melilla
Da circa mezzo millennio le città di Ceuta e Melilla sono due exclave spagnole in territorio marocchino e sono l’unica zona di confine terrestre tra Europa e Africa. La prima si trova sullo stretto di Gibilterra, mentre la seconda è sul litorale orientale. Per bloccare l’immigrazione illegale, negli anni ’90 vennero costruite delle barriere di filo spinato che isolano le città dal territorio marocchino, trasformandole in zone di frontiera, delimitate da un lato dal mare e dall’altro dalle recinzioni.
Queste barriere, dette “valla” cioè recinti, si estendono per otto chilometri a Ceuta e per dodici chilometri a Melilla. Sono alte sei metri e sono formate da due file di reticolato elettrificato; in mezzo c’è una strada che viene sorvegliata con speciali sensori elettronici e telecamere a infrarossi, mentre le pattuglie della Guardia civile spagnola si alternano giorno e notte per fermare i migranti africani.
La linea verde di Cipro
Dopo la nascita nel 1960 della nuova Repubblica di Cipro, ex colonia inglese, le tensioni tra la comunità greca e quella turca si inasprirono sempre di più. Nel 1964 le Nazioni Unite decisero perciò di inviare un contingente di pace in aiuto alle forze britanniche guidate dal generale Peter Young, famoso per aver tracciato con una matita verde sulla cartina della capitale Nicosia una linea che stabiliva una zona cuscinetto di cessate il fuoco tra i quartieri a prevalenza turca e quelli a maggioranza greca. Era la cosiddetta “linea verde” che in un primo momento divise solo la città di Nicosia e poi l’intera isola. Nel 1974 Cipro fu divisa in due: a nord la Repubblica Turca e a sud la Repubblica di Cipro.
La linea verde si estende per 180 chilometri, dal paese di Mòrfou a quello di Famagosta, ed è controllata dai caschi blu delle Nazioni Unite. Occupa un’area pari circa al tre per cento del territorio dell’isola e nel suo punto più ampio si espande per sette chilometri e mezzo. È formata da un muro vero e proprio solo in alcuni tratti; nella maggior parte dei casi il confine è segnato da filo spinato, strutture di metallo, barricate di bidoni, sacchi di sabbia e pezzi di muratura ed è visibile soprattutto nella capitale Nicosia. Nelle aree disabitate la linea è più che altro simbolica, ma ci sono posti di blocco e torrette di guardia che controllano i passaggi da una zona all’altra. Gli spostamenti sono permessi dal 2003 quando vennero aperti per la prima volta alcuni varchi, e risale solo al 2008 la simbolica apertura di una porta nel centro storico di Nicosia, da Ledra Street a Lokmaci Street nella parte turca. Ci sono stati negli anni diversi tentativi di negoziato, l’ultimo nel 2017, per riunificare le due zone dell’isola, ma non hanno ancora portato a una soluzione.
Le Peace Lines di Belfast
Le cosiddette Peace Lines o Peace Walls sono una serie di muri costruiti in Irlanda del Nord per separare le comunità cattoliche da quelle protestanti. Queste barriere di cemento, mattoni e filo spinato si trovano soprattutto nelle città di Belfast, Derry, Portadown e Lurgan; raggiungono una lunghezza massima di cinque chilometri e un’altezza di otto metri e sono sorvegliate dalla polizia. Ci sono dei cancelli che consentono il passaggio da una zona all’altra solo durante il giorno, mentre di notte rimangono chiusi.
Vennero costruite a partire dal 1969, durante i “Troubles”, il periodo in cui lo scontro tra cattolici e protestanti fu più violento. I residenti di Short Strand, una parte cattolica nell’area est di Belfast, iniziarono a costruite dei muri di protezione per difendersi dagli attacchi dei protestanti. Le barriere vennero poi rinforzate e avevano lo scopo di proteggere le comunità da azioni violente reciproche, come il lancio di sassi o di bottiglie incendiarie. Inizialmente si pensava fossero strutture temporanee che dovevano rimanere in piedi per soli sei mesi, ma con gli anni il loro numero aumentò. Passarono da una ventina di strutture nel 1990 ad una sessantina nel 2017 e raggiunsero una lunghezza totale di trentaquattro chilometri, la maggior parte a Belfast. Paradossalmente il loro numero crebbe dopo l’annuncio del cessate il fuoco nel 1994 e il Good Friday Agreement, lo storico Accordo di Pasqua del 1998. Decorate con decine di murales, oggi le Peace Lines sono diventate un’attrazione turistica.
Nel maggio del 2013 il governo nord-irlandese annunciò di volerle abbattere, ma non prima del 2023. La convivenza tra cattolici e protestanti infatti sembra ancora molto difficile e da uno studio della University of Ulster pubblicato nel 2012, risulta che solo il 14 per cento dei residenti di Belfast vorrebbe la distruzione del muro in un prossimo futuro.
Il muro di separazione tra Israele e Cisgiordania
La storia del muro tra Israele e Cisgiordania è strettamente legata al conflitto israeliano-palestinese. Definito dagli israeliani “chiusura di sicurezza” o “barriera anti-terrorista” e dai palestinesi “muro dell’apartheid” o “muro della vergogna”, questo sistema di barriere fisiche fu costruito a partire da giugno 2002 per volere del Consiglio dei ministri israeliano, in seguito all’avvio della seconda intifada nel 2000, con cui i palestinesi avevano cercato di ribellarsi all’occupazione israeliana.
L’obiettivo dichiarato era impedire ai palestinesi senza permesso di entrare in Israele dalla Cisgiordania.
La barriera è formata per la maggior parte da recinzioni elettroniche con sentieri lastricati, filo spinato e fossati, mentre nelle aree urbane, come quelle di Gerusalemme e Betlemme, consiste in un vero e proprio muro di cemento, con torri di guardia e telecamere, che raggiunge gli otto-nove metri di altezza. È lunga 712 chilometri, se si considerano le parti già edificate, quelle in costruzione e quelle in attesa di essere iniziate. Una lunghezza che risulta più del doppio della cosiddetta Green Line, la linea d’armistizio stabilita negli accordi arabo-israeliani alla fine della guerra del 1948-1949 che ha segnato il confine israeliano fino alla Guerra dei sei giorni del 1967.
Un caso particolare riguarda la città di Gerusalemme che venne divisa in due dalla Green Line, dopo l’armistizio del 1949: la zona a ovest della città vecchia controllata dagli Israeliani e quella a est, abitata per la maggior parte da palestinesi, sotto il dominio della Giordania, che durante la guerra aveva occupato parte della città e dell’attuale Cisgiordania. Nel 1967 però, dopo la vittoria della Guerra dei sei giorni, Israele conquistò diversi territori, compresa Gerusalemme est. Oggi mantiene il controllo militare di quest’area e dei quartieri limitrofi, nonostante l’ONU e molti paesi occidentali non abbiano mai riconosciuto questa annessione e considerino palestinese la zona occupata dagli Israeliani.
In seguito alla costruzione del muro di separazione nel 2002, Gerusalemme est è stata isolata dal resto della Cisgiordania e i suoi abitanti, non essendo cittadini israeliani, hanno ottenuto un diritto di residenza permanente. La barriera si estende per circa 202 chilometri e divide a nord Ramallah da Gerusalemme mentre a sud attraversa i quartieri arabi, come quelli di di Abū Dis e di Azariyye, e arriva al confine con Betlemme. Il suo percorso era stato pianificato sulla base dei confini municipali della città, stabiliti da Israele nel 1967, e in diversi punti supera il limite della Green Line, come nell’area meridionale dove si estende per ben cinque chilometri all’interno della Cisgiordania. In altre zone invece l’itinerario si discosta dai confini municipali, isolando le aree del campo profughi di Shu’fat e di Kafr’Aqab, che ospitano 140 mila palestinesi.
Secondo il quotidiano israeliano Haaretz invece, circa 90 mila persone, quasi un quarto degli abitanti palestinesi di Gerusalemme est, vivono nei quartieri “a sinistra” del muro, separati da Gerusalemme.
Come afferma l’organizzazione israeliana non governativa B’Tselem, se l’intera barriera tra Israele e i territori palestinesi venisse completata seguendo il percorso pianificato, 52.667 ettari di terra sarebbero tagliati fuori dalla Cisgiordania. L’anno scorso, secondo quanto riportato da Internazionale, erano già stati costruiti 570 chilometri dei 712 pianificati.
Il muro ha separato i residenti di più di cento comunità palestinesi dalle loro terre, compresi pascoli e terreni agricoli, e nonostante ci siano 84 porte nella barriera, migliaia di palestinesi sono obbligati a fare lunghe file ai checkpoint controllati dall’esercito per andare a lavorare in Israele. Secondo i dati dell’OCHA, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, nel 2016 solo nove di questi cancelli sono stati aperti ogni giorno, dieci solo per pochi giorni alla settimana e 65 solo in occasione della raccolta delle olive. Molti palestinesi inoltre vivono in zone intrappolate tra la linea verde e il muro e devono richiedere permessi di soggiorno per poter rimanere in queste aree.
Nonostante le oltre 150 petizioni che hanno messo in discussione la legittimità della barriera, la Corte Suprema d’Israele in un primo momento approvò con diverse sentenze la costruzione del muro. Il nove luglio 2004 la Corte internazionale di giustizia dell’Aia si espresse sulla questione definendo illegale la costruzione della barricata a causa della violazione dei diritti umani dei palestinesi, secondo il diritto internazionale. Un anno dopo anche la Corte Suprema israeliana ritenne fuori legge la parte del muro in territorio occupato. Israele avrebbe dovuto perciò sospendere la costruzione della barriera e smantellare le parti che erano già state edificate in Cisgiordania, pagando un risarcimento ai palestinesi che subirono dei danni.
Nonostante ciò, le divisioni sembrano rafforzarsi sempre di più, come dimostra l’apertura vicino a Gerusalemme della “Route 4370” detta anche “strada dell’apartheid”, perché divisa da un muro alto otto metri che separa ancora una volta israeliani e palestinesi.
Il confine tra le due Coree
Una delle più famose divisioni nel continente asiatico è sicuramente quella tra Corea del Nord e Corea del Sud, legata ancora alle dinamiche della Guerra Fredda.
Anche se non si trova un vero e proprio muro, il confine è segnato dalla cosiddetta linea di demarcazione militare o linea dell’armistizio che si estende lungo il 38° parallelo e per 250 chilometri. Ai lati della linea c’è la Zona Demilitarizzata coreana, una striscia di terra che ha la funzione di cuscinetto tra le due Coree e che si espande lungo tutta la frontiera con una larghezza di quattro chilometri. Sia la linea di demarcazione sia la Zona Demilitarizzata vennero definite alla fine della Guerra di Corea, con l’armistizio del 27 luglio 1953. Nonostante il nome, è uno dei confini più presidiati del mondo: 1.292 cartelli segnalano la linea e numerosi tratti sono occupati da filo spinato, tunnel, barricate e vecchi missili. I militari controllano la zona attraverso posti di blocco e in alcuni casi utilizzano attrezzature sofisticate, come il Kinect, uno strumento che secondo il giornale coreano Hankooki è in grado di distinguere persone, animali e oggetti, grazie alla rilevazione di battiti cardiaci e fonti di calore.
Negli ultimi anni ci sono stati però dei segni di apertura tra le due Coree. L’intera Zona Demilitarizzata è diventata un luogo turistico, in cui è presente addirittura un parco di divertimento nel villaggio di Imjingak, e nel 2007 la ferrovia che attraversava l’area è stata rimessa in funzione. Come ricordano alcuni reportage di L’Espresso e La Repubblica, anche i tunnel utilizzati in passato dai nord coreani per fuggire al sud, sono diventati tappe dei principali tour turistici.
Nel 2018 inoltre il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in si sono incontrati per ben due volte: il 27 aprile e il 26 maggio.
I muri di confine in India
Le frontiere indiane sono segnate da diverse barriere, costruite principalmente per contenere le migrazioni e rafforzare il confine in zone che hanno visto aspri conflitti negli ultimi anni.
Un muro di mattoni e una rete metallica, sormontata da filo spinato, corrono lungo la frontiera con il Bangladesh per più di quattromila chilometri. Progettata nel 1993 dal governo indiano, la barriera venne eretta in gran parte prima del 2007 con un triplice obiettivo: impedire traffici illegali, bloccare le infiltrazioni terroristiche e soprattutto fermare i migranti irregolari provenienti dal Bangladesh. I militari pattugliano la zona e hanno l’ordine di sparare a vista, causando ogni anno centinaia di morti tra i bengalesi.
Anche la tanto contesa regione del Kashmir è segnata da confini insanguinati. La cosiddetta “Line of Control” separa sia lo stato indiano del Jammu sia il Pakistan dalla regione, con 550 chilometri di filo spinato e numerose mine piazzate nel territorio di frontiera.
La storica rivalità tra India e Pakistan si nota poi nei tremila chilometri di barriera metallica e filo spinato, presidiati costantemente da guardie armate lungo il confine tra i due Paesi.
In tutti i casi l’obiettivo dichiarato per la costruzione di queste barricate è frenare il terrorismo, i trafficanti di droga e i mercanti di armi, anche se la principale ragione è il contrasto dell’immigrazione clandestina.
Il “muretto” di Gorizia
Anche in Italia si può ricordare il caso di un muro che per quasi sessant’anni ha diviso una città in due: il muro di Gorizia, centro friulano sull’attuale confine con la Slovenia.
La barriera alta due metri era formata da una base in calcestruzzo di mezzo metro e da un reticolato dipinto di verde alto un metro e mezzo, ed è stata definita «il muretto» proprio per il suo aspetto poco imponente rispetto, ad esempio, al muro di Berlino.
Venne costruita dopo la Seconda guerra mondiale, in seguito alla firma del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947. L’accordo stabilì il nuovo confine tra Jugoslavia e Italia che perse le città di Pola, Fiume, Zara, parte della provincia di Gorizia e altri territori a est della cosiddetta linea di Morgan, una delimitazione che prese il nome dal generale degli Alleati Morgan e che spartì tra Alleati e Jugoslavi i territori della Venezia Giulia italiana tra il 1945 ed il 1947.
Il muro di confine venne costruito a Gorizia e divise in due la città: da un lato c’erano le zone italiane, dall’altro quelle jugoslave, come i quartieri periferici e la stazione ferroviaria della linea austro-asburgica Transalpina, che collegava Trieste e Vienna. Il luogo simbolo di questa separazione divenne proprio piazza della Transalpina che fu divisa a metà. Subito dopo la spartizione, il governo jugoslavo di Tito diede inizio alla costruzione di Nova Gorica, cioè “Nuova Gorizia” , città che voleva proporsi come esempio del modello socialista jugoslavo.
Anche il muro di Gorizia infatti diventò un emblema della contrapposizione tra i due blocchi, quello comunista e quello capitalista, durante la guerra fredda. Come ricorda lo storico Lucio Fabi, autore dell’unica storia completa della città, «quando nel ’47 si stesero i reticolati, l’innaturalità del confine emerse subito». I contadini non avevano più un mercato dove vendere la propria merce e i mercanti e i trasportatori erano senza lavoro. I rapporti tra le comunità di frontiera perciò continuarono come prima e nel 1950 ci fu un primo tentativo di forzare il valico, durante la cosiddetta “domenica delle scope”. Migliaia di cittadini jugoslavi invasero pacificamente Gorizia, sfondando il blocco doganale della Casa Rossa, così chiamata per il colore delle pareti esterne. Nonostante fosse una domenica di agosto, i negozi aprirono e la gente iniziò a comprare e scambiarsi cibo e merci. Tra gli oggetti più ricercati c’erano le scope di saggina che, essendo introvabili a Nova Gorica perché non previste dalla pianificazione socialista, andarono a ruba e divennero il simbolo dell’incontro tra le due comunità.
Diversi anni più tardi ci fu un altro episodio in cui si cercò di abbattere la barriera. Il 22 novembre 1989, qualche giorno dopo la caduta del muro di Berlino, Gianfranco Fini, allora segretario del Movimento sociale italiano, organizzò una manifestazione a Gorizia. Insieme a circa cinquanta simpatizzanti e deputati missini, muniti di picconi cercarono di demolire il muretto, ma furono bloccati, dopo un breve scontro, dai Carabinieri e dai poliziotti del secondo reparto Celere di Padova.
Nonostante la caduta dei regimi comunisti nel 1991 e la disgregazione della Jugoslavia, la barriera rimase in piedi ancora per diversi anni. Solo nel 2004, con l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea, venne abbattuta definitivamente. Le ruspe iniziarono la distruzione dei primi 46 metri a febbraio in piazza della Transalpina, alla presenza dei sindaci di Gorizia, Vittorio Brancati, e di Nova Gorica, Mirko Brulc, davanti a una folla di persone. Un sondaggio dello stesso anno aveva dimostrato infatti che il 78 per cento dei cittadini era favorevole alla rimozione del muro.
La notte tra il trenta aprile e il primo maggio vennero diminuiti i controlli di confine, grazie all’ingresso della Slovenia nell’Unione europea che fu celebrato dai cittadini in piazza della Transalpina, con la partecipazione dell’allora presidente della Commissione europea, Romano Prodi. Il 21 dicembre del 2007 la Slovenia entrò anche nell’area Schengen e i 280 chilometri di confine furono aperti definitivamente, permettendo alle persone di attraversare i valichi senza esibire documenti.
La piazza della Transalpina è tornata così ad essere un spazio pubblico aperto, condiviso da due Stati dell’Unione europea. Un mosaico circolare situato al centro della piazza e attraversato da una striscia di pietre ricorda il muro di confine.
I muri ghetto
Se da un lato sorgono muri con l’obiettivo di tenere fuori da un luogo alcuni individui, dall’altro esistono barriere che chiudono dentro a un ghetto centinaia di persone, isolandole completamente. Anche in questo caso lo scopo è dividere e evitare contatti tra chi è fuori e chi è dentro i confini del muro.
Un importante esempio storico è sicuramente il ghetto di Varsavia. Costruito dai nazisti a partire dal 1940, rinchiuse tra le sue mura più di quattrocentomila ebrei che furono costretti a vivere in massa in una piccola area della città, soffrendo la fame e altri gravi disagi. Era il passo prima della grande deportazione nei campi di concentramento del 1942.
Oggi possiamo trovare alcuni muri che creano dei ghetti anche in Europa, come quello di Baia Mare in Romania o quello di Padova in Italia. Il primo, costruito nel 2011, separa la comunità di etnia rom dal resto degli abitanti della città, mentre nel caso italiano la recinzione venne innalzata nel 2006 per isolare cinque edifici, abitati per lo più da stranieri, in cui si diceva che si svolgessero attività illegali.
Un servizio del giornale brasiliano Folha de S. Paulo sulle barriere nel mondo, riportato nel 2018 da Internazionale, ricorda altri due casi di muri simili a questi, uno in Brasile e l’altro in Perù.
L’obiettivo sembra lo stesso per entrambe le barriere: nascondere la povertà.
Il muro che rinchiude la favela brasiliana
Nel maggio del 2016 venne costruito nella zona orientale dello stato brasiliano di São Paulo un muro di calcestruzzo alto tre metri e lungo un chilometro.
La barriera si estende sul chilometro 58 dell’autostrada “dos Imigrantes” che unisce la città di São Paulo alla costa atlantica e la sua costruzione è costata più di tre milioni di euro. L’obiettivo dichiarato da Ecovia, la concessionaria che gestisce il tratto stradale, è il miglioramento delle condizioni di sicurezza degli automobilisti che percorrono l’autostrada. Di fianco a essa infatti si estende la favela di Vila Esperança, sorta nel 1972. Questa zona, priva di infrastrutture, servizi igienici e sistema fognario, ospita circa 25mila persone, di cui il 14 per cento guadagna un salario minimo e il 12 per cento è disoccupato. Dopo diversi furti a danno degli automobilisti bloccati nel traffico, è stato costruito il muro che separa l’autostrada dalla favela, isolandone gli abitanti in una specie di ghetto.
La barriera tra ricchi e poveri a Lima, in Perù
In seguito al continuo aumento della popolazione e all’espansione delle cosiddette “barriadas”, cioè insediamenti giovani, nella capitale peruviana, i gesuiti del collegio dell’Immacolata concezione innalzarono nel 1985 il primo tratto di un muro che aveva l’obiettivo di impedire ai nuovi edifici di avvicinarsi troppo all’istituto. La costruzione di questa barriera proseguì negli anni seguendo lo sviluppo dell’immensa baraccopoli che passò da duecentomila abitanti nel 1961 a quattro milioni nel 2007, pari al quaranta per cento della popolazione dell’intera città. Negli anni ottanta e novanta ci fu un nuovo incremento dovuto all’arrivo delle persone che fuggivano dalla guerriglia scoppiata sulle Ande tra il governo e un’organizzazione maoista.
Oggi il muro si estende sulle colline di Lima per dieci chilometri e divide la baraccopoli di Pamplona Alta, con 96mila abitanti, dal ricco distretto La Molina. Le autorità sottolineano che la barriera serve a proteggere questo quartiere benestante dalla continua espansione degli insediamenti abusivi. In realtà sembra più che altro sottolineare le già marcate differenze tra zone ricche e zone povere, ed è perciò conosciuto anche come muro della vergogna.
I muri di attualità
La barriera tra Stati Uniti e Messico
Il confine tra Stati Uniti e Messico è segnato da una serie di barriere non continue che hanno l’obiettivo di impedire l’immigrazione illegale dal Sud al Nord America.
Le strutture che fanno da muro si estendono per 1120 chilometri, circa un terzo dei 3200 chilometri di frontiera, sia in zone urbane, come a San Diego in California, El Paso in Texas o Nogales, tra Arizona e Messico, sia in zone disabitate e desertiche.
Cinquecento chilometri sono occupati da una barriera alta due metri e mezzo che serve a impedire il passaggio dei veicoli, mentre più di 560 chilometri sono percorsi da una recinzione alta dai cinque agli otto metri. Il resto del confine è segnato da ostacoli naturali come montagne e corsi d’acqua. Oltre alle barriere fisiche, ci sono anche quelle virtuali costituite da sensori, telecamere a visione notturna, radar, elicotteri e droni che consentono alle pattuglie del Border Patrol, il principale ente di controllo del confine, di monitorare la zona e intervenire in caso i migranti cerchino di attraversare la frontiera.
Le prime sezioni del muro vennero costruite vicino all’Oceano Pacifico nel 1993, sotto la presidenza di Bill Clinton, e il loro progetto si inserì in tre grandi operazioni che avevano lo scopo di impedire il traffico illegale di droghe prodotte in America Latina e di ridurre l’immigrazione clandestina. Il piano di costruzione delle recinzioni e rinforzo dei controlli sul confine messicano continuò sia sotto l’amministrazione di George H. W. Bush, con la firma nel 2006 del Secure Fence Act, sia sotto la presidenza di Obama.
L’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che aveva già manifestato in campagna elettorale la volontà di proseguire con la costruzione di un vero e proprio muro lungo tutto il confine, si sta impegnando in ogni modo nella realizzazione di questo progetto.
Nel dicembre del 2018 aveva proposto di includere alla legge che periodicamente rifinanzia le attività federali un fondo da 5,7 miliardi di dollari per costruire un muro al confine col Messico. I Democratici, che hanno la maggioranza alla Camera, però rifiutarono e hanno proposero al presidente dei compromessi che non furono accettati. Il 21 dicembre è iniziato così lo shutdown più lungo nella storia del Paese, cioè una chiusura parziale delle attività pubbliche che si è protratta per 35 giorni, fino al 25 gennaio.
Il 15 febbraio 2019 Trump ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, con cui sperava di poter ottenere otto miliardi per costruire il muro. Un mese dopo, entrambe le camere del Congresso hanno approvato una risoluzione che boccia l’emergenza nazionale. Il 16 marzo Trump ha risposto usando per la prima volta il suo potere di diritto di veto e costringendo così la risoluzione a tornare al Congresso, dove avrà bisogno di una maggioranza dei due terzi in entrambe le Camere per passare. È più probabile però che rimanga in vigore lo stato di emergenza.
Secondo un articolo del New York Times di maggio 2019, il Pentagono avrebbe reindirizzato abbastanza soldi per costruire 256 miglia di barriere lungo il confine sud-occidentale, tra cui 63 miglia in sei mesi. Il segretario della difesa Patrick M. Shanahan ha dichiarato infatti che verrà costruito ogni giorno più di un chilometro di muro, utilizzando i fondi riallocati dai Depositi del Dipartimento della Sicurezza Nazionale e del Tesoro.
La barriera ungherese
Il primo ministro ungherese Viktor Orbán decise di costruire il muro lungo il confine con Serbia e Croazia nel 2015, dopo che oltre quattrocentomila persone avevano attraversato la frontiera per raggiungere altri Paesi europei. I lavori cominciarono a luglio, dopo l’annuncio del ministro degli Esteri dell’Ungheria, Peter Szijjarto, che indicava come motivazione principale di questa scelta l’aumento del numero di migranti entrati illegalmente e l’impossibilità per l’Ungheria di sostenere i costi dell’accoglienza. Circa novecento persone, appartenenti per lo più all’esercito, lavorarono alla costruzione della barriera che venne completata a settembre dello stesso anno.
Il muro è formato da una rete metallica con filo spinato, è alto quattro metri e si estende lungo il confine con la Serbia per 175 chilometri e per 41 chilometri lungo quello croato. I rimanenti 330 chilometri di frontiera della Croazia sono segnati dal fiume Davra, molto difficile da attraversare.
Nel marzo 2017 fu completata, con un costo di circa 120 milioni di euro, una seconda barriera dotata di sensori che danno scosse elettriche e venne istituita una divisione della polizia chiamata Cacciatori di frontiera per rinforzare ulteriormente il confine.
Il muro ungherese però non è l’unico a rendere sempre più complicata la cosiddetta rotta dei Balcani. I migranti che cercano di entrare in Europa infatti devono scontrarsi anche con altre barriere sorte negli ultimi anni sui confini della Grecia e della Bulgaria con la Turchia.
I muri che (in teoria) proteggono
Il muro del Marocco
Conosciuto anche come muro del Sahara Occidentale o Berm, il muro marocchino è formato da una serie di barriere che si sviluppano per più di duemila chilometri, rendendolo il secondo muro più lungo del mondo dopo la Grande muraglia cinese.
Il governo lo fece costruire in sei fasi diverse tra il 1980 e il 1987, con l’obiettivo di proteggere il Marocco dagli attacchi terroristici del Fronte Polisario, un’organizzazione militante e un movimento politico del Sahara Occidentale che cerca di ottenere la realizzazione del diritto all’autodeterminazione.
È strutturato come una vera e propria zona militare difensiva, con bunker, fossati, filo spinato e un campo minato che risulta per estensione il più grande al mondo. Le fortificazioni si trovano soprattutto in aree disabitate e sono formate da sabbia, muri di pietra e terrapieni alti fino a tre metri. Ogni quattro o cinque chilometri si trova un presidio militare per un totale di centomila soldati marocchini coinvolti. Vengono utilizzati anche radar per lo scambio di informazioni tra le truppe.
Per quanto il governo marocchino abbia più volte ribadito lo scopo difensivo del muro, la barriera è definita muro della vergogna e soggetta a forti critiche da parte della popolazione Sahrawi, cioè del Sahara, dal momento che i territori occupati dalla frontiera sono molto strategici e redditizi. Ci sono infatti le miniere del Sahara Occidentale e la costa atlantica, importantissima per la pesca e i giacimenti petroliferi, controllati per il momento dalle Nazioni Unite. Dal 1991 l’obiettivo difensivo inoltre ha perso quasi del tutto la sua ragione d’esistere, dal momento che i Sahrawi hanno deciso di impegnarsi con azioni legali e non violente per arrivare all’autodeterminazione.
La barriera incompleta tra Kenya e Somalia
Un altro Paese che ha cominciato a costruire una barriera con l’obiettivo principale di difendersi dalle incursioni terroristiche è il Kenya.
Dopo la guerra civile del ’90 che causò migliaia di profughi, nel 2006 iniziò ad affermarsi in Somalia il gruppo di militanti islamici al-Shabab che vuole ancora oggi imporre uno stato fondato sulla sharia. Nei tre anni successivi questo gruppo prese il controllo della Somalia centro-meridionale e iniziò a sferrare una serie di attacchi suicidi e di operazioni di guerriglia anche nei Paesi vicini, come il Kenya. Gli ultimi attentati sono quelli del 2013 nel centro commerciale Westgate di Nairobi, capitale del Kenya, e del 2017 a Mogadiscio in Somalia, dove morirono più di seicento persone.
A causa di queste sanguinose vicende i profughi somali che fuggono nei Paesi vicini aumentano continuamente e la barriera progettata dal governo keniota nel 2014 mira anche al contenimento di questo flusso migratorio. I somali in Kenya sono attualmente più di trecentomila, ma negli ultimi quattro anni sono stati rimpatriati in 78mila e il governo ha manifestato più volte la volontà di chiudere il campo profughi di Dadaab, dove abitano più di duecentomila persone.
I lavori per la costruzione della barricata cominciarono nel 2015 sotto la supervisione dell’esercito. Inizialmente era stato previsto un vero e proprio muro in calcestruzzo con fossati, recinti e punti di osservazione che si dovevano sviluppare lungo tutto il confine, per settecento chilometri, dall’Oceano Indiano fino alla regione di confine di Mandera, dove Kenya, Somalia ed Etiopia si incontrano. Attualmente però la barriera è formata da una rete metallica e filo spinato ed è lunga solamente dieci chilometri. Nonostante ciò il costo per la sua realizzazione ha raggiunto i tre milioni di dollari a chilometro, per un totale di trentacinque milioni di dollari. Una cifra davvero esorbitante che supera di un milione la spesa sanitaria nazionale ed è più del doppio del denaro messo da parte dal governo keniota per le scorte alimentari strategiche annuali. Secondo un articolo dei BBC, alcuni membri del Parlamento hanno perciò richiesto l’apertura di un’indagine con il sospetto di corruzione. John Mbadi, leader di una minoranza nell’assemblea nazionale, ha ribadito che la costruzione di un muro non servirà a nulla se non a sprecare fondi e che il Kenya dovrebbe investire piuttosto in nuove tecnologie finalizzate a fermare gli attacchi di al-Shabab. Nel frattempo il parlamento ha bloccato tutti i finanziamenti al muro e ha aperto un’indagine per fare maggiore chiarezza.
Questo e gli altri articoli della sezione La fine del Muro di Berlino sono un progetto del corso di giornalismo 2019 del Post alla scuola Belleville, progettato e completato dagli studenti del corso.