Queste proteste fanno bene a Hong Kong?
Il New York Times ha raccolto i dubbi e gli argomenti di diversi residenti informati e non plagiati dalla censura cinese
Lunedì le grandi manifestazioni organizzate nell’ultimo mese a Hong Kong sono entrate in una nuova fase: meno pacifica e più aggressiva e disgregata, cosa che ha portato alcuni esperti, tra cui Li Yuan e Javier C. Hernández in due diversi articoli sul New York Times, a chiedersi se le proteste stiano danneggiando Hong Kong più che aiutarlo e se il movimento rischi di sgretolarsi presto.
Le proteste erano cominciate all’inizio di giugno in opposizione a una legge proposta e appoggiata dalla governatrice locale Carrie Lam, che avrebbe consentito l’estradizione degli abitanti di Hong Kong in Cina per alcuni reati gravi come omicidio e stupro. Secondo gli oppositori sarebbe stato un potente strumento nelle mani del governo centrale cinese per reprimere il dissenso e introdurre l’illiberale sistema giuridico dell’entroterra: per quanto sotto il controllo cinese Hong Kong ha infatti mantenuto il sistema giuridico di quando era una colonia britannica. Fino a ieri le proteste, che in alcuni casi avevano coinvolto fino a due milioni di persone, erano state sempre pacifiche tranne alcuni scontri avvenuti con i poliziotti che avevano avuto una reazione, a detta dei manifestanti, troppo violenta, impiegando sfollagente e spray urticanti.
I manifestanti hanno ottenuto la sospensione dell’emendamento sull’estradizione e le scuse della governatrice per l’eccessiva repressione. Molti però restano convinti che la filo-cinese Lam proverà a reintrodurre l’emendamento in autunno, contando sull’indebolimento del movimento, quindi anche dopo la prima vittoria politica le proteste sono proseguite. Nel weekend c’è stata un’altra grossa manifestazione e poi alcune meno coordinate e più contenute.
Le cose sono cambiate ieri, il giorno in cui si commemorava il trasferimento della sovranità di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina, avvenuto il primo luglio 1997; ogni anno per l’occasione viene organizzata una protesta da chi chiede maggiore democrazia e contesta l’influenza cinese. Ieri, mentre Lam brindava con alcuni funzionari e assisteva alla trasmissione del video dell’alzabandiera della Cina e di Hong Kong nel centro congressi della città, centinaia di migliaia di persone sono scese nelle strade per protestare pacificamente. Quando la polizia ha caricato i manifestanti per allontanarli dalla sede del Consiglio legislativo, un gruppetto di giovani mascherati si è avventato contro l’entrata e – ignorando l’invito a desistere dei parlamentari vicini alla loro causa – è riuscito a entrare spaccando le porte vetrate con aste e carrelli di metallo. Ha poi vandalizzato le pareti del Consiglio con slogan anti-cinesi – tra cui “regime assassino” – e occupato l’interno dell’aula per tre ore: c’era chi strappava copie della costituzione del 1997 che regola i rapporti tra Cina e Hong Kong e chi ha issato una bandiera britannica per ricordare il periodo coloniale; molti chiedevano nuove elezioni, libere da qualsiasi controllo e sorveglianza cinese. Dopo tre ore gli occupanti hanno lasciato il Consiglio e la polizia ha sgomberato quelli radunati fuori. A fine giornata Lam ha condannato l’assalto e lodato il senso di responsabilità della polizia.
Anche se la maggioranza dei manifestanti non è stata aggressiva o violenta, le tv e i giornali di tutto il mondo hanno mostrato soprattutto le foto delle porte spaccate e dei danni dentro al Consiglio. Secondo alcuni queste immagini potrebbero essere facilmente strumentalizzate dal presidente cinese Xi Jinping nel presentare Hong Kong come un pericolo da contenere, come spiega per esempio Jean-Pierre Cabestan, analista politico alla Hong Kong Baptist University: «Ora Pechino ha una buona scusa per essere ancora più intransigente». Le violenze hanno anche sfaldato la compattezza del movimento. Alcuni le hanno condannate, altri hanno giustificato l’esasperazione, parlando di frustrazione comprensibile di fronte alla repressione e alla minaccia della Cina: «Non sostengo la violenza in nessun caso, ma capisco perché la gente la usi», ha detto l’ex parlamentare Emily Lau. Natalie Fung, una 28enne che ieri aveva portato cibo e acqua per i ragazzi che avevano occupato la sede del Consiglio, ha detto al New York Times che «in passato siamo stati troppo pacifici e ora la polizia pensa di poterci reprimere facilmente. Ora i più giovani stanno rischiando la loro sicurezza e il loro futuro per tutti noi».
L’episodio ha fatto emergere uno dei più grossi problemi delle proteste, cioè la mancanza di un coordinamento e di un leader: finora le manifestazioni erano state facilmente organizzate utilizzando messaggi criptati ma adesso che bisogna prendere decisioni, stabilire obiettivi e strategie per perseguirli al di là della semplice opposizione a un legge, il movimento ha mostrato le prime crepe. «È entrato in un periodo di incertezza. È possibile che ci saranno degli arresti. Tra i manifestanti stanno crescendo le divisioni. Senza un gruppo di leader riconosciuti le manifestazioni perdono senso», ha spiegato Hernández. La situazione mostra anche uno scontro generazionale e di pensiero tra gli attivisti più adulti e pronti a fare compromessi con il regime, e quelli più giovani, che in molti casi vorrebbero l’indipendenza. A separarli c’è il cambiamento avvenuto a Hong Kong negli ultimi vent’anni: la regione è passata dall’essere un crocevia culturale e un modello di prosperità e di progresso a una zona gravemente colpita dalla crisi economica del 2007, nonché uno dei posti più cari al mondo in cui vivere (dopo ore e ore di lavoro quotidiano ci si può permettere un appartamento di pochi metri quadri, in alcuni casi soltanto una “gabbia”). La Cina nel frattempo ha vissuto un percorso esattamente inverso.
Negli anni Ottanta e Novanta, racconta il cinese Li Yuan sul New York Times, molti cinesi guardavano a Hong Kong con invidia: i film e le pubblicità che arrivavano da là mostravano un mondo ricco, all’avanguardia, senza problemi; molti giovani imparavano il cantonese – il principale dialetto di Hong Kong – e quando l’ex colonia britannica ritornò alla Cina si sentirono pieni di orgoglio e di speranza che anche il resto del paese potesse diventare come Hong Kong. «Questo avveniva prima che la Cina diventasse la seconda economia più grande al mondo e una superpotenza in crescita», scrive Yuan. «Ora c’è uno spostamento nel modo in cui la gente vede il resto del mondo. Molti cinesi sono sprezzanti verso l’antica metropolitana di New York e le buche nelle autostrade della Silicon Valley, così come hanno perso interesse per il modello di Hong Kong, con i suoi liberi confini e la libertà di parola. Molti addirittura pensano che Hong Kong non sarebbe così ricca senza la Cina».
Ora è Hong Kong a inseguire l’entroterra: i suoi grattacieli sono oscurati da quelli di Shenzen e Shanghai, i suoi abitanti imparano il mandarino – il principale dialetto cinese – e dipendono dagli investimenti e dagli acquisti dei ricchi cinesi dell’entroterra. Allo stesso tempo, gli abitanti di Hong Kong nutrono un senso di rivalsa e di disprezzo: considerano i nuovi ricchi cinesi rozzi, ignoranti, e colpevoli di aver fatto aumentare – acquistando le residenze migliori – i costi delle case. La speranza di una Cina riunificata sembra fallita nel risentimento di entrambe le parti e potrebbe essere aggravata dalle proteste: come spiega Victor Shih, professore associato di economia alla University of California di San Diego, il governo cinese userà la sua rete di influenza a Hong Kong – fatta di funzionari pubblici, dirigenti locali, giornali – per reprimerle, minacciando per esempio gli impiegati nelle aziende cinesi i cui figli hanno preso parte alle manifestazioni.
In Cina molti non considerano le proteste di Hong Kong come una lotta per i diritti civili, spiega Yuan, ma come l’iniziativa di separatisti e piantagrane che verranno messi a posto dal Partito Comunista. C’è anche chi si è spinto oltre, dipingendo i manifestanti come un pericolo potenziale per la Cina. Tian Feilong, professore associato di diritto a Pechino, ha scritto che le proteste erano sostenute da forze straniere che avrebbero creato il caos a Hong Kong e danneggiato in ultimo luogo la Cina. Un altro articolo molto condiviso su WeChat (il principale social network cinese) si intitola «Si può salvare Hong Kong?» ed è stato scritto da Zhao Haoyang, cinese laureato a Hong Kong: sostiene che i giovani manifestanti non fossero cattivi ma semplicemente stupidi, viziati e arroganti, danneggiati dai valori occidentali.
Molti cinesi – anche quelli cresciuti in famiglie benestanti e istruiti in Occidente – fanno fatica a condividere le ragioni delle proteste e la richiesta di libertà democratiche. Spesso la loro visione del mondo è strettamente pratica ed economica: Zhao Jianfei, un dirigente di Pechino, ha spiegato a Yuan che «negli ultimi 40 anni abbiamo parlato solo di affari e nient’altro. Tutto quello che pensiamo si basa sulla convinzione che siamo animali economici». Cecilia Zhang, cinese dell’entroterra che ha studiato negli Stati Uniti e che da quattro anni lavora nel settore finanziario a Hong Kong, ha commentato che «quest’anno l’economia di Hong Kong sarà tremenda a causa di tutti questi scioperi. Perché dovresti fare qualcosa che non ti dà vantaggi? Che te ne può venire?». Poi ha aggiunto: «Voglio il meglio per Hong Kong ma non parteciperò a queste cose locali. Se non c’è ritorno nel tuo investimento, allora a che serve?»