La storia della famiglia angolana bloccata da sei mesi in un aeroporto coreano
Padre, madre e 4 figli si trovano a Incheon da dicembre dopo che l'ufficio immigrazione ha respinto la loro richiesta d'asilo
Da sei mesi una famiglia angolana composta da due genitori e dai loro quattro figli con meno di nove anni è bloccata nell’aeroporto di Incheon, in Corea del Sud, dov’era arrivata in cerca di asilo: la famiglia non può uscire dall’aeroporto e si rifiuta di tornare in Angola, dove l’uomo – sostiene – verrebbe ucciso. La storia è stata seguita dal Korea Herald, un giornale di Seul in lingua inglese, e raccontata da Asian Boss (una start-up dedicata a storie e notizie soprattutto dall’Asia, che possono essere inviate da chiunque) in un video pubblicato su YouTube il 24 giugno. Nel video Nkuka Lulendo, il padre, racconta la sua storia, che non può essere verificata e si poggia soltanto sulla sua testimonianza, quindi va ascoltata comunque con un po’ di cautela: si contraddice anche con quanto detto dal suo avvocato, Lee Sang-hyun, al Korea Herald, e cioè che l’uomo temeva di essere perseguitato in Angola dopo averla lasciata per andare in Congo in cerca di migliori opportunità.
Nel video Lulendo racconta che a causa della crisi economica in Angola lasciò il lavoro, dove non veniva più pagato, e si mise a fare il tassista. Il 16 novembre del 2018 stava guidando in una zona molto trafficata mentre i poliziotti inseguivano i venditori di strada della zona; improvvisamente un gruppo di persone gli tagliò la strada, lui per non investirle fece una deviazione e andò a sbattere contro un’auto della polizia. Un poliziotto lo minacciò e si accorse che era di etnia bakongo, che in Angola è una minoranza malvista che vive nel nord del Paese, e che è invece la maggioranza nella vicina Repubblica democratica del Congo. Lulendo venne circondato da altri poliziotti, picchiato e arrestato senza processo; dopo 10 giorni di tortura un poliziotto lo aiutò a evadere, probabilmente – dice Lulendo – perché era a sua volta un bakongo. Venne soccorso in una chiesa locale e chiamò subito la moglie, che lo raggiunse insieme ai figli e gli raccontò di essere stata stuprata dai poliziotti il giorno della sua evasione. A quel punto, anche su consiglio dei fedeli che li avevano aiutati, la famiglia decise di scappare. Lulendo racconta di essere andato a chiedere il visto turistico all’ambasciata della Corea del Sud, perché la sede si trovava nel quartiere in cui abitava.
Al di là del racconto di Lulendo, quel che si sa per certo è che la famiglia arrivò all’aeroporto di Incheon il 28 dicembre del 2018 con un visto turistico. Fece subito richiesta di asilo ma il 9 gennaio l’ufficio immigrazione gliela negò, dicendo che non «c’erano ragioni chiare» per concedergliela. Secondo la legge sudcoreana sui rifugiati in vigore dal 2013, i richiedenti asilo possono fare domanda nel luogo in cui arrivano e l’ufficio immigrazione ha sette giorni di tempo per decidere se ammetterli o no nel paese. Le persone respinte devono ritornare nel loro paese o fare ricorso contro la decisione e aspettare la sentenza vivendo in aeroporto, nella zona di passaggio o nella zona detentiva dell’aeroporto.
Il 25 aprile, a 4 mesi dall’arrivo della famiglia in Corea, un tribunale stabilì che la decisione dell’ufficio immigrazione era «legittima» e che «i querelanti non hanno segnalato nessun problema di procedura». Le associazioni per i diritti dei rifugiati che avevano seguito il caso criticarono la decisione, dicendo che i Lulendo erano stati privati del diritto di richiedere l’asilo senza una legittima ragione. La famiglia ha fatto appello e dovrà attendere la nuova decisione del tribunale in aeroporto.
Nel frattempo sopravvive in condizioni difficili: Lulendo ha ricordato che d’inverno non avevano coperte e che era come trovarsi all’aperto, e che all’inizio venivano presi in giro e addirittura fotografati dalle persone intorno. Si lavano nei bagni pubblici dell’aeroporto e sopravvivono grazie alla generosità di chi gli regala un po’ di soldi o un po’ di cibo. Lulendo ha raccontato qualche aneddoto, per esempio di quando aveva trovato nella cappella in cui prega di solito delle uova e una lettera a lui indirizzata con dei soldi dentro; oppure che la sua famiglia era arrivata con solo 4 valigie e ora ne ha una trentina, piene di vestiti, pacchi di cibo e altre donazioni. Sempre ad Asian Boss ha detto di non poter tornare nel suo paese perché teme di essere arrestato e ucciso; si augura di poter uscire dall’aeroporto al più presto e di vedere i suoi figli andare a scuola.