Per Erdoğan è arrivato il momento di pagare i debiti
La tumultuosa crescita economica della Turchia, sostenuta per anni dal denaro preso in prestito, sta rallentando e ha contribuito alle prime sconfitte del leader che guida il paese da oltre 16 anni
Domenica scorsa il candidato del partito del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha perso l’elezione per la scelta del sindaco di Istanbul. È stata una grande sconfitta politica per il presidente che guida il paese da 16 anni con modi spesso definiti autoritari. Istanbul non è solo la città dove Erdoğan all’inizio degli anni Novanta cominciò la propria vera carriera politica facendosi eleggere sindaco, e una roccaforte del suo partito, l’AKP, che in città non perdeva un’elezione da oltre 20 anni. Istanbul è anche la città più importante della Turchia con i suoi 15 milioni di abitanti, nonché centro economico del paese.
Chiunque venga eletto sindaco di Istanbul diventa insomma uno dei politici più importanti della Turchia, con una grandissima visibilità e il controllo sull’enorme macchina amministrativa cittadina. Il vittorioso candidato dell’opposizione, Ekrem Imamoglu (la cui vittoria di domenica è stata la seconda, dopo che quella che aveva ottenuto lo scorso 31 marzo era stata annullata dalla commissione elettorale), è già considerato da molti il futuro sfidante designato dell’attuale presidente.
Secondo un articolo pubblicato questa settimana dal New York Times, questa grave sconfitta politica rischia di essere per Erdoğan soltanto l’inizio di una crisi ben più grave, le cui radici però non hanno tanto a che fare con il suo consenso personale o le sue tendenze autoritarie. È una crisi che invece ha ragioni in gran parte economiche. Erdoğan, ricorda il New York Times, ha basato per anni il suo successo su un mix di nazionalismo, religione, conservatorismo e misure economiche che hanno portato una crescita robusta che ha spesso raggiunto percentuali degne della Cina, con tassi annui del 6 e del 7 per cento.
Questa crescita – sia economica che di consenso per Erdoğan – si è vista con particolare chiarezza proprio a Istanbul, una città che ha visto la realizzazione di giganteschi progetti ingegneristici, come il terzo ponte sul Bosforo, il tunnel sotterraneo tra la costa europea e quella asiatica e l’aeroporto che punta in pochi anni a diventare il più trafficato del mondo. Negli ultimi 20 anni gli abitanti della città sono aumentati moltissimo anche grazie all’arrivo di milioni di persone provenienti dalle aree rurali dell’Anatolia, in gran parte poco istruite, di orientamento conservatore e fedeli elettori dell’AKP di Erdoğan.
Secondo il New York Times, che cita l’opinione di numerosi esperti ed economisti, almeno una parte di questa rapida crescita economica è stata ottenuta con una sorta di “doping” monetario: credito facile concesso alle società, in particolare nel settore delle costruzioni, legate agli alleati politici di Erdoğan. In altre parole i grandi palazzi e i condomini, i ponti e gli altri monumenti spuntati come funghi a Istanbul e intorno alle altre grandi città turche non avrebbero potuto nascere senza un massiccio ricorso all’indebitamento. Alla fine del 2018 il settore privato turco aveva circa 328 miliardi di dollari di debiti denominati in valuta estera (che, in altre parole, non si possono ripagare semplicemente stampando la propria moneta nazionale). Con un PIL annuale di poco meno di 800 miliardi di dollari, è chiaro perché molti considerino la Turchia, insieme all’Argentina, uno dei paesi a maggior rischio di fallimento nei prossimi anni.
Questa situazione, in realtà, non era così grave fino a qualche tempo fa, quando il credito a livello mondiale era facile e a buon prezzo. Ma da un paio d’anni il denaro in circolazione ha cominciato a diminuire e per i creditori ritenuti non proprio solidissimi, come la Turchia, la situazione si è rapidamente fatta complicata. Gli investitori internazionali hanno iniziato a temere che le società turche non fossero più in grado di ripagare i loro debiti denominati in valuta straniera: per reazione, hanno iniziato a liberarsi dei loro beni e altre attività denominate in lire turche. Sotto l’impulso di queste vendite la moneta turca ha perso valore, arrivando a scendere del 40 per cento nei confronti del dollaro.
A sua volta, questa situazione ha prodotto inflazione, poiché gli importatori turchi sono costretti a spendere di più per acquistare all’estero la stessa quantità di merci con una lira deprezzata. Di conseguenza i prezzi in Turchia si alzano e questo fa alzare il tasso di inflazione, che negli ultimi mesi si avvicina sempre di più al 20 per cento annuo.
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Per cercare di controllare questa situazione, la banca centrale Turca ha fissato un tasso di interesse altissimo: 24 per cento (nell’eurozona questo tasso al momento è negativo). In sostanza la banca centrale chiede moltissimi soldi in cambio dei prestiti che fa al settore finanziario. In questo modo punta a ottenere due obiettivi: da un lato cerca di mettere un freno alla circolazione di moneta e impedire così all’inflazione di andare fuori controllo (con tassi così alti, le banche saranno più restie a prendere soldi in prestito dalla banca centrale); dall’altro crea un forte incentivo a tenere i propri capitali in Turchia, visto che nel paese gli investimenti pagano un tasso di interesse così alto (se il tasso base della banca centrale è così alto, significa che posso prestare i miei capitali a un tasso potenzialmente ancora più elevato).
Ma c’è ovviamente un effetto collaterale in questa politica: tassi di interesse così alti significano che è molto costoso ricevere soldi in prestito, per esempio ricevere un finanziamento per acquistare un’automobile, o contrarre un mutuo per comprare una casa. Questa situazione contribuisce a rallentare l’attività economica e a mantenere il tasso di disoccupazione a un livello molto alto per un paese in via di sviluppo come la Turchia: il 14 per cento.
Secondo il New York Times, Erdoğan ha ancora un paio di strumenti di politica economica per cercare di risolvere la sua situazione. Potrebbe, per esempio, imporre alla banca centrale di abbassare il tasso di interesse. In questo modo, probabilmente, l’inflazione rimarrebbe alta (e forse crescerebbe ancora), ma le grandi società turche strozzate dai debiti potrebbero prendere un po’ di fiato grazie all’ondata di credito facile che ne uscirebbe. Allo stesso tempo Erdoğan può utilizzare la leva della spesa pubblica. La Turchia ha ancora oggi un debito pubblico piuttosto basso (appena il 53 per cento del PIL), che significa che ha spazio per spendere soldi con lo scopo di tenere a galla l’economia in generale o, magari, aiutare qualche grande azienda degli alleati del presidente.
Queste misure potrebbero anche avere successo. Spesso, negli ultimi anni, l’inflazione è cresciuta meno di quanto molti temessero, mentre le operazioni di stimolo monetario hanno avuto molti meno effetti collaterali di quelli che si temevano. L’andamento generale dell’economia mondiale sarà probabilmente altrettanto importante per il paese e un quadro meno fosco di quello che esperti ed economisti prevedono per i prossimi mesi potrebbe contribuire significativamente a migliorare la situazione del paese.
Tutto però può anche finire molto male. L’affidabilità di Erdoğan come leader in grado di mantenere il controllo sull’economia turca è stata scossa pesantemente negli ultimi anni. Prima ha scelto suo genero per un’importantissima posizione di consulente economico del governo, poi ha detto che gli alti tassi di interesse praticati dalla banca centrale turca hanno contribuito a far alzare l’inflazione (come abbiamo visto le cose funzionano esattamente nella maniera opposta).
La vittoria di Imamoglu a Istanbul domenica scorsa è un segnale del fatto che una parte significativa dei turchi che vivono nelle aree urbane del paese non è più soddisfatta dalla direzione presa dal paese negli ultimi anni. Ma il fatto che la sua vittoria sia stata accolta bene anche dai mercati, che hanno visto salire la lira turca nel corso del lunedì successivo, dimostra che lo stesso pensiero sta iniziando a diffondersi anche tra gli investitori.