Come va al Manifesto
È sempre comunista, è sempre senza soldi, ma questa settimana ha compiuto 50 anni: storia, numeri e un giro in redazione
di Giulia Siviero
La redazione del manifesto si trova su due piani di un palazzo non proprio nuovo a Trastevere, a Roma. Le stanze si aprono alla destra e alla sinistra di due lunghi corridoi pieni di scaffali, di faldoni, di prime pagine incorniciate e di campagne storiche: “Fate attenzione, su questo bus c’è un comunista!”, “Oggi facciamo la rivoluzione”, “Massacro” (in riferimento all’invasione del Kuwait). E poi, nell’ufficio di Norma Rangeri, la direttrice, una accanto all’altra, “È la fine” “È l’inizio”.
Quei due titoli uscirono insieme, nel 2016, per annunciare la fine della liquidazione coatta amministrativa, della paura di essere comprati o venduti e per raccontare l’inizio di un quotidiano nuovo, nato da un’impresa senza precedenti in Italia: tre anni fa, la cooperativa autogestita dai lavoratori e dalle lavoratrici – «e creata per remunerare il lavoro, non per fare profitti» – è riuscita a recuperare e a riacquistare una testata fallita con le sole forze della redazione e dei lettori.
«E chi ce sta là dentro? Ce stanno dei comunisti con tre narici?», dice Matteo Bartocci, che è il direttore editoriale de il manifesto: «Per raccontare questa cosa epocale sono venuti da tutto il mondo», mentre dai giornali italiani non è stata mandata «manco mezza persona. Manda un regazzetto a vedere che se fa qua dentro, no? In fondo potevamo finire come l’Unità con Belpietro, non è che il manifesto non interessasse a nessuno».
Lì dentro, in effetti, c’è la sensazione che si faccia qualcosa di diverso, che è il motivo per cui ci sono stata mandata dal Post: per spiegare che cos’è il manifesto, questa settimana in cui compie cinquant’anni.
La risposta sta in parte nella sua storia. Il manifesto era ed è un quotidiano dichiaratamente “comunista” – c’è tuttora scritto, sotto la testata – ed era ed è un quotidiano indipendente «da partiti, da poteri e da padroni». Dei tanti giornali nati in Italia negli anni Sessanta e Settanta dalle esperienze di gruppi di intellettuali e di giornalisti “eretici” rispetto alle linee ufficiali della sinistra (a quel tempo il Partito Comunista Italiano era il più grande tra i paesi del Patto Atlantico e dunque del blocco occidentale) è anche l’unico sopravvissuto al nuovo millennio. Fin dall’inizio è stato autogestito da chi ci lavorava e fin dall’inizio è stato sempre senza soldi.
Questa cosa che il manifesto «non ha padroni» viene ripetuta spesso, insieme alla rivendicazione comunista: «Ma quella testatina lì sopra non è una dichiarazione astratta, la facciamo vivere nella sua concretezza. Dà un’indicazione interna di coerenza tra ciò che scriviamo e ciò che siamo, e che ci avvicina al nostro ideale: i giornalisti, i poligrafici, tutti eleggono il direttore, c’è una tendenziale uguaglianza nei diritti, nei doveri e nei compensi. E forse per questo siamo vivi e siamo sopravvissuti: sia politicamente che culturalmente abbiamo trovato gli anticorpi per andare avanti. Nelle scelte editoriali essere un giornale comunista è una rivendicazione di autonomia totale dal mondo che ci circonda: in concreto, significa non solo criticare la destra ma criticare anche e soprattutto la sinistra. Come abbiamo sempre fatto. Significa stare dalla parte degli oppressi sempre e a qualsiasi costo, in qualunque parte del mondo si trovino».
Bartocci lo definisce «un giornale “di formazione”, una palestra di pensiero importante soprattutto nei momenti di crisi della società o di crescita personale. Non è un giornale che si legge per passare il tempo, ma fin dal titolo di prima pagina deve provare a far muovere i neuroni, anche quando non si è d’accordo con quello che si legge. Essendo del tutto slegati da obiettivi commerciali siamo sempre a caccia di fenomeni nuovi, di ciò che conta, del succo delle cose. Viste le nostre dimensioni e forze ridotte siamo costretti sempre ad anticipare gli altri. Se facessimo come tutti, chiuderemmo nell’arco di pochi mesi. Roberto Saviano, per citarne solo uno, ha cominciato a scrivere a livello nazionale sulle nostre pagine. Il manifesto è stato una sorta di fabbrica di Gomorra, uscito poi in volume per Mondadori con un successo senza precedenti. All’epoca, nessun giornale “serio” pubblicava articoli in cui la camorra veniva descritta nel modo di Saviano, era impensabile».
Parafrasando la famosa frase di Gertrude Stein («una rosa è una rosa è una rosa») Luigi Pintor, il primo direttore de il manifesto, diceva: «Un giornale è un giornale è un giornale». Intendeva opporsi alla semplificazione che un giornale debba solo rilanciare, come un amplificatore, una certa linea politica: «Il manifesto è nato dalla consapevolezza che si può essere comunisti senza avere una tessera» dice Bartocci «perché la tessera può essere il padrone che ti paga o il partito che ti dice cosa scrivere. Noi non abbiamo padrini politici».
Il giornale è organizzato in modo tradizionale nella sua edizione cartacea: oltre al quotidiano pubblica quattro inserti settimanali fissi e un mensile: «C’è un desk centrale e c’è la redazione dove lavorano circa 50 persone. Pur essendo il più piccolo dei giornali nazionali pubblichiamo corrispondenze regolari tramite giornalisti professionisti regolarmente assunti dal Medio Oriente, dagli Stati Uniti, dalla Francia, oltre a preziosi collaboratori da tutti i paesi europei. Lo sguardo internazionale è una caratteristica del manifesto fin dal primo numero». E lo è la parte culturale, molto inventiva e attenta a fenomeni meno mainstream: «Un terzo del giornale tutti i giorni è dedicato a culture e visioni, e nel weekend ospitiamo due inserti chiamati Alias dedicati a arti, libri, musica, ozio. Tutti i giovedì pubblichiamo un inserto specifico dedicato all’ambiente chiamato l’ExtraTerrestre e dal 5 luglio il mondo di Alias si farà in tre con un nuovo inserto settimanale dedicato a fumetti e videogiochi chiamato Alias Comics. All’interno del giornale, infine, il martedì e il mercoledì escono inserti tematici di approfondimento di 4 pagine, dossier trasversali e sui temi più vari: dall’anniversario su Fausto Coppi alle criptovalute». Poi c’è il mensile francese Le Monde Diplomatique, che «dal 1994 il manifesto pubblica in esclusiva italiana».
Nel manifesto digitale – social network, app e sito che è senza pubblicità «perché crediamo di dover salvaguardare il rapporto a due tra chi ti legge e te che scrivi» – prosegue Bartocci, «l’organizzazione è più orizzontale: si lavora su inchieste e articoli specifici concordandoli di volta in volta con la direzione, il desk o il direttore editoriale. Il sito del manifesto è uno dei più antichi d’Italia, è online dal 1995 e dal 2013 è stato il primo a dotarsi di un paywall che consente ai non abbonati di leggere gratuitamente otto articoli al mese previa registrazione. È stato un successo, tanto che attualmente il sito del manifesto conta più di 240 mila iscritti. In un certo senso, il manifesto non è mai stato letto quanto oggi. Il problema, come noto, sono i ricavi: che diminuiscono sulla parte cartacea e non vengono compensati dalla parte digitale».
La maglietta che mi ha regalato appena sono entrata ha la scritta “Io rompo”, che è il nome di una campagna iniziata a metà maggio e ha a che fare sia con la convinzione che «un giornale è un giornale è un giornale» sia con la sopravvivenza e la sostenibilità del giornale (questione così eterna nella vita del manifesto che tuttora la domanda più frequente che viene fatta a nominarlo in giro è “ah, come stanno messi?”). Vito Crimi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’Editoria dell’attuale governo, ha stabilito la progressiva chiusura del Fondo per l’editoria di cui beneficia anche il manifesto, fino a farlo sparire del tutto dal 2022: «Per noi questo significherà 600 mila euro in meno nel 2019, dunque 50 mila euro in meno ogni mese, 1 milione e 200 mila nel 2020, cioè 100 mila euro in meno al mese, e 1 milione e 800 mila euro nel 2021, dunque 150 mila euro in meno al mese».
Shendi Veli, giovane giornalista del manifesto, sta seduta di fronte a noi e si è occupata di recente dei tagli all’editoria: «Apparentemente informarsi non è mai stato così semplice ed economico. Basta uno smartphone e una connessione internet, due condizioni che oggi in Italia vengono soddisfatte per circa 50 milioni di persone. Eppure il giornalismo vive uno dei momenti più critici della sua storia. Uno studio pubblicato dal Wall Street Journal dice che la metà dei quotidiani degli Stati Uniti cesserà di esistere entro il 2021. Gli unici a sopravvivere saranno quelli più avanti nella corsa al digitale. Ma c’è un’ombra che incombe su questa conversione all’online: se non si può più contare sulle copie cartacee vendute, come si sostengono i costi del giornalismo?». Il manifesto vende 8mila copie – tra edicola e abbonamenti – più 2mila in digitale: i suoi conti sono esposti con completezza e ordine online. Nel 2017 il giornale ha avuto ricavi per 3,7 milioni di euro dalle vendite più 350mila di abbonamenti digitali e 427mila euro di pubblicità: aggiungendo 3 milioni di contributo pubblico si superano di poco i 7 milioni di spese annuali.
Con la campagna “Io rompo“, al manifesto si sono dunque orientati verso il sistema del “patronato“, ovvero una raccolta di contributi di diverse entità che dovrebbero sostituire il finanziamento pubblico per 1 milione e 200mila euro: a oggi ha raccolto 1185 adesioni e quasi un ventesimo dell’obiettivo, è scritto sul sito. «L’esperimento ha come chiave politica quella di rompere dei muri e se raggiungiamo l’obiettivo, pari sostanzialmente ai tagli, offriremo il manifesto digitale gratuitamente a tutti. Quando chiedi dei contributi volontari a chi ha a cuore il giornalismo indipendente e professionale, a chi ha a cuore le sfide che attraversano il mondo e comprende il valore dell’informazione critica con il potere politico ed economico, ti trasformi: sei a servizio non di un pubblico pagante, ma della comunità».
Il “lavoro” che deve essere “collettivo” dava il titolo al primo editoriale della prima copia del manifesto che uscì il 23 giugno del 1969: era una rivista di 75 pagine, la pubblicazione era autofinanziata, gli stipendi, scarsi, erano uguali per tutti e ogni decisione politica era assunta in un regime assembleare. Bartocci ne recupera una copia da un raccoglitore, me la mette davanti, la sfoglia, mi mostra le firme: Lucio Magri, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Aldo Natoli, Valentino Parlato, ma anche Jean Paul Sartre, Noam Chomsky, K.S. Karol e altre ancora. Mi legge qualche riga: «Questa pubblicazione nasce da un convincimento, che pensiamo non solo il nostro: il convincimento (…) che molti schemi consacrati di interpretazione della realtà e molti modi di comportamento siano saltati senza rimedio; che la crisi sociale e politica che ci circonda non possa essere vissuta e fronteggiata con la normale amministrazione».
Il manifesto stesso nacque da una rottura con la normale amministrazione. I suoi fondatori e le sue fondatrici erano vicine a Pietro Ingrao che, dopo la morte di Togliatti, aveva assunto una posizione di dissenso rispetto alla segreteria del Partito Comunista. «La strategia» ricorda Luciana Castellina sulle quattro pagine che qualche giorno fa sono uscite con il quotidiano per celebrare i 50 anni, «non poteva essere quella intesa a rendere il paese più simile agli altri europei, ma di contestare direttamente la modernità capitalista entro il cui orizzonte l’ineguaglianza era destinata ad accrescersi». Nel ’69 i principali animatori del manifesto e poi tutti i redattori furono radiati dal Partito Comunista.
I primi dieci numeri della rivista raccontarono le lotte di fabbrica, i problemi del movimento comunista internazionale, le lotte nella scuola e quelle per la casa, ma anche le questioni internazionali. L’ultimo numero, il decimo, uscì nel dicembre del 1970, e annunciava la trasformazione della rivista in quotidiano. Venne lanciata la sottoscrizione con l’obiettivo di 50 milioni di lire e il primo numero de il manifesto quotidiano comunista uscì il 28 aprile del 1971. Passati cinquant’anni «il gigante non c’è più e rimane questo calabrone», dice Bartocci, fumando e sorridendo.
Oggi il manifesto parla ancora di cose che hanno a che fare con la lotta politica: ha proposto negli anni diverse manifestazioni ed è stato tra gli organizzatori di campagne critiche contro gli interventi militari, soprattutto quando l’Italia era coinvolta direttamente.
La campagna di finanziamento sta andando «così così», mi dicono, perché stavolta manca un senso di urgenza: «Forse è una campagna un po’ cerebrale rispetto alle altre. Ma ci hanno risposto, finora, centinaia di persone. Questi mesi ci serviranno a mettere a fuoco i nostri limiti. Abbiamo comunque l’onestà di dire ci rimettiamo in gioco, rompiamo anche con le abitudini nostre: il nostro muro non è astratto».
Si sono fatte quasi le sei, e il giornale sta per chiudere: «Chiudiamo in anticipo rispetto agli altri, perché così si spende di meno». E i titoli? (una domanda classica, perché i giochi di parole nei titoli del manifesto sono famosi e hanno contagiato negli anni quasi tutti i quotidiani, e che faccio con un po’ di pudore. Ma comunque: e i titoli?). Norma Rangeri – che è direttrice dal 2010 e che scrive sul manifesto dal 1974, prima come critica televisiva con la rubrica “I Vespri” – inizia a spiegarmi che ci sono diverse persone brillanti, all’interno della redazione, che hanno il talento di giocare con le parole, sempre per aprire un discorso. Mentre parliamo si affaccia un uomo-brillante-della-redazione alla porta.
Lei mi dice “lupus in fabula”. Lui “Bot da orbi”.