In Italia esiste la “vigilanza etnica”

Gli imprenditori stranieri sono sottoposti da anni a controlli mirati e più intensi della norma, nonostante la Costituzione proibisca discriminazioni basate su etnia e lingua

di Davide Maria De Luca

(EPA/DUMITRU DORU)
(EPA/DUMITRU DORU)

Durante il luglio del 2018, a meno di un mese dall’insediamento del governo sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle, un’insolita circolare è arrivata nelle 74 sedi territoriali dell’Ispettorato del Lavoro, il principale tra gli enti che in Italia si occupano di fare controlli nelle aziende e negli esercizi commerciali. Il documento si intitolava «Vigilanza etnica» e conteneva l’ordine – rivolto alle sedi territoriali dell’ispettorato – di condurre nei mesi successivi una «vigilanza straordinaria nei confronti di aziende a caratterizzazione etnica», ossia una «specifica attività ispettiva» nei confronti «di imprese gestite da imprenditori stranieri».

Nonostante la Costituzione della Repubblica italiana vieti le discriminazioni delle persone in base alla loro etnia o alla loro lingua, quindi, lo Stato aveva deciso di intensificare i controlli su una determinata categoria di persone, identificata esplicitamente – «vigilanza etnica», «imprenditori stranieri» – con l’etnia. Chi difende queste norme sostiene che nelle attività commerciali gestite da imprenditori stranieri si verifichino più irregolarità della media – un dato molto discutibile, come vedremo – ma le norme in questione non mirano ad aumentare i controlli sugli esercizi commerciali che di solito presentano più irregolarità, bensì semplicemente ed esplicitamente in quelle gestite da stranieri, e proprio in quanto gestite da stranieri.

«Nel momento in cui non vi sono altri elementi sostanziali per procedere a un’ispezione, ma solo la presenza di stranieri», ha detto Marco Paggi, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), «dobbiamo ritenere di trovarci di fronte a una forma discriminazione». Paggi sostiene di non aver mai visto un documento così esplicito nel proporre in Italia una “profilazione etnica”, la pratica di sospettare o sorvegliare con particolare attenzione una categoria di persone in base alla loro lingua, alla loro nazionalità o alla loro etnia. Ma quella circolare non è un caso isolato.

La profilazione etnica è considerata discriminatoria dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e da numerose altre organizzazioni internazionali: nonostante questo è una pratica frequente e non soltanto in Italia, anche se di solito viene negata o nascosta dalle autorità. Nel Regno Unito, uno dei pochissimi paesi in cui la polizia è obbligata a diffondere i dati sulle persone che vengono fermate dagli agenti, una persona nera ha quasi dieci volte le possibilità di essere controllata dalla polizia rispetto a una persona bianca. Nel 2015 si discusse molto del sistematico ricorso alle pratiche di profilazione etnica nei confronti dei neri da parte della polizia di Ferguson, la città statunitense dove l’uccisione di un adolescente da parte di un agente di polizia causò settimane di proteste.

In Italia, in seguito alle disposizioni sulla «vigilanza etnica», gli ispettori del lavoro hanno condotto negli ultimi cinque mesi del 2018 quasi 6 mila ispezioni in aziende ed esercizi commerciali con titolari stranieri, cioè circa 60 al giorno. «Queste indicazioni in sede di pianificazione delle ispezioni preoccupano», dice l’avvocato Paggi, «perché distolgono risorse da accertamenti ad altre imprese anche più pericolose: in agricoltura sappiamo cosa succede per esempio». Gli accertamenti dell’Ispettorato contro il caporalato in agricoltura sono stati 7 mila nel 2018, ma distribuiti nel corso di tutto l’anno.

L’Ispettorato del lavoro ha difeso la sua circolare, sostenendo che non sia un documento discriminatorio. La vigilanza, ha scritto l’Ispettorato in una mail al Post, riguarda le imprese con titolari stranieri ma anche quelle italiane con «caratterizzazione etnica», e ha indicato come esempio di queste ultime i ristoranti etnici. L’Ispettorato sostiene di aver deciso di concentrarsi su questo tipo di imprese perché le ritiene particolarmente a rischio di illeciti.

Guardando però al resoconto realizzato dallo stesso Ispettorato sulle ispezioni effettuate nel 2018, non risulta una particolare tendenza alla delinquenza nelle imprese guidate da stranieri. Il tasso di irregolarità nel corso dei controlli straordinari sugli stranieri è stato del 70 per cento, esattamente lo stesso riscontrato nelle ispezioni ordinarie. L’avvocato Paggi ricorda inoltre che se si concentrano per metà dell’anno le ispezioni su una sola categoria «è ovvio poi che in quella categoria di violazioni se ne troveranno parecchie».

Fonti del ministero del Lavoro e l’Ispettorato negano che la “vigilanza etnica” sia stata ordinata da Luigi Di Maio, che all’epoca della circolare era appena stato nominato ministro del Lavoro, o che sia arrivata in seguito a una richiesta politica (l’operazione era stata ordinata dal direttore uscente, Paolo Pennesi, il cui incarico sarebbe scaduto a novembre, ma che è stato sostituito anticipatamente a settembre). Da allora, però, la politica ha fornito diversi “input” all’Ispettorato. Lo scorso ottobre il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva accusato i «negozi etnici» di essere «un ricettacolo di spacciatori, di gente che beve fino alle tre di notte, che pisciano e cagano», mentre poche settimane fa Di Maio ha chiesto pubblicamente di «iniziare» a fare controlli mirati sui negozi di proprietà di «cinesi e pakistani», accusati di evadere le tasse e vendere prodotti «non registrati, nocivi, facendo concorrenza sleale e danneggiando la nostra economia».

Interpellato sui suoi programmi per il 2019, l’Ispettorato ha fatto sapere al Post che anche «il nuovo Capo dell’Ispettorato» – il generale Leonardo Alestra, scelto da Di Maio – «ha ritenuto di proseguire nella vigilanza» sulle «imprese gestite da imprenditori stranieri o comunque (seppur facenti capo ad imprenditoria italiana) a caratterizzazione etnica».

Anche se il testo sulla «vigilanza etnica» dello scorso luglio è stato definito dagli addetti ai lavori uno dei più espliciti in proposito, non è la prima volta che le autorità di controllo italiane adottano pratiche che possono essere definite di profilazione etnica o razziale. Sul sito dell’INPS, per esempio, è ancora visibile una circolare in cui ordina ai suoi ispettori di privilegiare per il 2009 «l’azione di vigilanza nei confronti delle realtà economiche gestite da minoranze etniche».

Secondo Pierluigi Rausei – dirigente dell’Ispettorato del Lavoro, docente universitario e uno dei principali esperti italiani di ispezioni e di diritto sanzionatorio – è dal 1906, quando venne fondato il primo ispettorato del lavoro nazionale, che esiste una tradizione, diciamo così, che porta a focalizzare parte dell’attenzione degli ispettori sugli imprenditori e i lavoratori stranieri. «È nel nostro stesso DNA fornire una tutela precipua nei confronti dei lavoratori che non facendo parte della comunità nazionale conoscono poco le nostre regole», dice oggi Rausei.

Alla domanda se gli imprenditori stranieri commettano più illeciti degli italiani, Rausei risponde che per certi territori «la risposta è tendenzialmente affermativa», anche se alla base non c’è una maggiore tendenza a violare le norme dovuta all’essere stranieri, ma piuttosto il frutto di una serie di cause contingenti. Le numerose violazioni in materia di pagamento dei contributi e in generale sulla regolarità delle assunzioni, per esempio, deriverebbero in buona parte dal fatto che «molti lavoratori e imprenditori stranieri che provengono da paesi con cui l’Italia non ha convenzioni o intese contributive non si curano della nostra previdenza, perché contano di tornare nei loro paesi e non intendono riscuotere una pensione in Italia».

Matteo Ariano, ispettore del lavoro e sindacalista CGIL del pubblico impiego, spiega che i controlli mirati sono un fenomeno che ritorna ciclicamente. Ammette che spesso si trovano più irregolarità della media in alcuni tipi di imprese straniere, in parte spiegate con i maggiori controlli, ma prosegue dicendo che focalizzare l’attenzione su di loro è «un’arma di distrazione di massa». Prendere di mira le attività straniere, sostiene, «fa presa sull’opinione pubblica, fa vedere che ti occupi di qualcosa» ed è più comodo che «prendersela con gli italiani» – anche se, continua, «i problemi veri sono altri». Nelle piccole imprese di proprietà degli stranieri ci si può imbattere con frequenza in «microirregolarità», continua Ariano, «ma quando abbiamo a che fare con grosse irregolarità, con caporalato, appalti e subappalti illeciti, di solito non si tratta di un’aziendina di cinesi o pakistani, ma di un’attività in mano agli italiani».

Anche se la pratica di concentrare l’attenzione degli ispettori sugli stranieri ha una lunga storia, non tutti i governi vi hanno fatto ricorso nella stessa maniera. La senatrice Teresa Bellanova, dirigente del PD, ex sottosegretaria al Lavoro ed ex viceministra allo Sviluppo economico, ricorda che nei precedenti governi Renzi e Gentiloni «non si emanavano direttive o circolari che puntassero a controlli straordinari nelle imprese etniche», perché così facendo «si rischia di avallare e rafforzare quel pregiudizio discriminatorio che purtroppo nel nostro paese si sta diffondendo a piene mani». Bellanova ricorda che il numero di imprenditori stranieri in Italia è in crescita e che in alcune regioni le imprese con titolari non italiani sono una componente strutturale dell’economia locale: «Criminalizzarle a prescindere non solo è una palese violazione del dettato costituzionale, è allucinante».

A occuparsi di controlli in esercizi commerciali e impianti industriali sono principalmente otto enti differenti, in Italia. L’Ispettorato del Lavoro è il principale e coordina il lavoro di INPS e INAIL, la Guardia di Finanza si occupa dei controlli fiscali, i Vigili del Fuoco si occupano delle norme di sicurezza antincendio, le ASL in materia di igiene e di sicurezza sul lavoro, i carabinieri dei NAS di regolamenti sanitari e norme a protezione della salute, la Polizia Municipale di tutto ciò che riguarda i regolamenti comunali.

Tra questi enti, al Post non risulta che INAIL o Vigili del Fuoco abbiamo mai ricevuto disposizioni di effettuare “ispezioni etniche” concentrate sugli stranieri; INPS e l’Ispettorato del Lavoro, invece, hanno organizzato “ispezioni etniche” in passato e lo stesso hanno fatto i carabinieri dei NAS. L’ultima operazione di questo tipo è stata condotta a maggio ed è stata promossa dal ministero della Salute. Stando a quanto hanno scritto gli stessi carabinieri, ha avuto come principale obiettivo i “ristoranti etnici”, di cui sono titolari quasi sempre cittadini stranieri. I giornali hanno parlato molto dell’operazione, anche perché è risultato che circa il 50 per cento delle attività ispezionate presentava irregolarità. Non è un risultato particolarmente eclatante: nel corso di controlli simili il tasso di irregolarità si aggira tra il 50 e il 70 per cento, per le imprese italiane come per le altre.

L’ambito dove i controlli discriminatori sono più frequenti è probabilmente quello comunale, dove sindaci e comandanti della polizia municipale hanno ampia discrezione su chi controllare e come; peraltro negli ultimi anni i loro poteri in materia si sono moltiplicati. Nel corso dell’ultimo decennio, per esempio, sono diventate famose le “ordinanze anti-kebab” con cui i sindaci cercano di ostacolare un tipo particolare di ristorante di cui quasi sempre gli stranieri sono titolari. Un altro obiettivo frequente sono gli internet point e i phone center, altre attività quasi sempre di proprietà e utilizzate dagli stranieri.

Un caso estremo è quello di Arzignano, un comune in provincia di Vicenza dove nel 2010 il regolamento comunale assegnò un premio di produzione a quegli agenti della polizia municipale che avessero controllato un certo numero di stranieri e ispezionato almeno un rivenditore di kebab. In altri casi le ordinanze dei sindaci sono state formulate in toni apparentemente neutri, ma in realtà pensate per colpire quasi esclusivamente le attività detenute da stranieri. È il caso delle ordinanze dell’allora sindaco di Padova Massimo Bitonci con le quali tra 2015 e 2016 venne imposta la chiusura alle 20 a tutte le attività che fornivano cibo da asporto in una serie di vie intorno alla stazione (quasi esclusivamente kebab e paninerie di proprietà di stranieri). L’obbligo fu poi esteso a un’altra serie di attività detenute in genere da stranieri, come i phone center e gli internet point.

L’ordinanza è stata revocata dal nuovo sindaco di centrosinistra, eletto nel 2017, che ha spiegato: «Un negozio aperto garantisce più sicurezza rispetto a una serranda abbassata». Ma non sempre la sinistra è stata più aperta del centrodestra su questi temi. Nel 2008, per esempio, divenne celebre la decisione del sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio, oggi capogruppo del PD alla Camera, di approvare un’ordinanza ribattezzata dallo stesso comune “anti-kebab” con la quale si imponevano limiti orari agli esercizi commerciali che vendevano cibo da asporto. Più di recente è stato il sindaco di Firenze Dario Nardella ad adottare atteggiamenti duri nei confronti dell’imprenditoria straniera. Tra 2016 e 2018 una serie di ordinanze ha colpito mini-market e i rivenditori di kebab, due attività con una forte presenza di titolari stranieri. Un assessore promise che per assicurare il rispetto delle ordinanze la polizia avrebbe controllato gli esercizi etnici «ogni notte».

A Milano invece, dopo un periodo di forti tensioni tra le passate amministrazioni di centrodestra e gli imprenditori stranieri, la profilazione etnica è stata abbandonata. L’assessore al Commercio del comune di Milano, Cristina Tajani, dice oggi che i controlli «andrebbero fatti sulla base di esposti o segnalazioni, non certo sulla base della nazionalità dei titolari», e che il testo della circolare sulla «vigilanza etnica» le sembra «veramente molto rischioso in termine di costituzionalità». 

Proprio a Milano in passato si sono viste le conseguenze più pericolose della “profilazione etnica”, che nei casi più estremi può condurre gli imprenditori stranieri all’esasperazione e persino alla rivolta. È quello che accadde in città nel 2009, quando un diverbio tra un’agente della polizia locale e una cittadina cinese si trasformò in una grossa rissa e una protesta collettiva dei commercianti della Chinatown locale, localizzata intorno a via Sarpi, che accusavano la polizia locale di discriminazione e di effettuare controlli continui, eccessivi e vessatori. Un imprenditore cinese disse al Corriere della Sera che negli ultimi mesi aveva ricevuto dagli agenti della polizia locale una multa ogni due giorni.

Un altro episodio si verificò nel 2016 a Prato, la città italiana con la comunità cinese più attiva, con centinaia di imprese che operano soprattutto nel settore del tessile per conto dei grandi e piccoli marchi della moda italiana. La situazione di Prato è stata per lungo tempo molto problematica dal punto di vista del rispetto della normativa sul lavoro, e nel 2013 un grave incendio in  un capannone che non rispettava le norme sulla sicurezza causò la morte di sette operai cinesi. La Toscana, il comune di Prato, l’ASL e l’Ispettorato del lavoro hanno risposto intensificando ulteriormente i controlli che la comunità cinese subiva già da anni. Nel 2016 uno di questi controlli è degenerato in uno scontro fisico tra alcuni agenti e degli operai cinesi. Come a Milano quasi un decennio prima, centinaia di imprenditori e lavoratori cinesi sono scesi in strada per protestare contro i controlli asfissianti a cui erano sottoposti e la situazione invivibile nella quale dichiaravano di trovarsi.

Da allora la situazione è molto migliorata, sia dal punto di vista della convivenza che del rispetto delle norme di sicurezza. A Milano la zona di via Sarpi ha beneficiato della pedonalizzazione della strada principale, di regole più chiare e degli ottimi risultati del mercato immobiliare del vicino quartiere Isola. I vecchi grossisti del tessile, che causavano problemi ai residenti con le loro frequenti operazioni di carico e scarico, sempre più di frequente sono sostituiti da bar, negozi e ristoranti take-away spesso di gamma media o alta. A Prato i controlli e gli accordi con le associazioni degli imprenditori cinesi hanno portato a sensibili miglioramenti degli standard, anche se Paggi, l’avvocato dell’ASGI, nota che raramente questo ha portato a perseguire o comunque far pagare un qualche prezzo ai marchi italiani che, grazie ai bassissimi prezzi offerti dal distretto di Prato, hanno fatto enormi profitti. «È una discriminazione intrinseca. Nel mondo delle imprese per conto terzi rappresenta un’ulteriore discriminazione non perseguire l’ultimo anello della catena».

Ma la discriminazione più grossa, almeno stando alle principali definizioni adottate a livello internazionale, è la pratica adottata da tante istituzioni italiani di promuovere campagne di controlli e ispezioni che prendono di mira stranieri e minoranze etniche soltanto in quanto stranieri e minoranze etniche. Considerato l’attuale clima politico, questo tipo di operazioni sembra oggi destinato a proseguire se non addirittura ad allargarsi ad altri ambiti, con profili legali e costituzionali sempre più dubbi. Finora però nessuno, né singoli né associazioni, ha provato a mettere in discussione questo sistema nelle aule di tribunale.