La conferenza di pace su Israele e Palestina, senza israeliani e palestinesi
Inizia tra poco in Bahrein, organizzata dagli Stati Uniti: l'assenza dei principali protagonisti potrebbe essere solo uno dei tanti problemi
Dal 25 al 26 giugno in Bahrein, un piccolo paese di poco più di un milione di abitanti nel Golfo Persico, si terrà un’attesa conferenza sulla pace fra israeliani e palestinesi, protagonisti di una delle contese territoriali più complesse al mondo, e l’emancipazione economica dei palestinesi. La conferenza sarà organizzata dagli Stati Uniti e farà parte di una più ampia proposta per la pace – che Donald Trump definisce potenzialmente come «l’accordo del secolo» – che il governo statunitense intende presentare agli israeliani e ai palestinesi, e di cui si parla praticamente dall’insediamento della nuova amministrazione. Uno dei problemi principali è che alla conferenza del Bahrein non ci saranno ufficialmente né gli israeliani né i palestinesi.
Gli israeliani non sono stati invitati per non «politicizzare» la conferenza, dicono gli statunitensi, mentre i palestinesi hanno boicottato l’evento perché considerano gli statunitensi troppo schierati a favore degli israeliani. A queste condizioni il rischio che la conferenza si concluda con un sostanziale fallimento è altissimo: «quello che doveva essere un passo ambizioso per mettere insieme l’accordo del secolo si trasformerà in un seminario accademico in cui Jared Kushner [il responsabile del governo statunitense] terrà un discorso motivazionale che nessuno vuole ascoltare», ha scritto sul Washington Post Daniel W. Drezner, che insegna politica internazionale alla Tufts University di Boston.
La conferenza ha l’obiettivo di immaginare come stabilizzare l’economia palestinese, una delle più fragili del mondo: alla riunione sono stati invitati i principali stati che hanno interessi nell’area, grandi aziende, banche e organizzazioni internazionali. «È un’opportunità che capita una volta in una generazione», ha scritto in un articolo ospitato da CNN l’inviato del governo statunitense per i negoziati internazionali, Jason Greenblatt.
Ma l’assenza di delegazioni ufficiali provenienti da Israele e Palestina è solo il primo di una serie di problemi. Diversi altri importanti invitati non parteciperanno alla conferenza. Non ci saranno né la Cina né la Russia, due degli stati più interessati a includere il Medio Oriente nella propria sfera di interesse. L’Unione Europea, storicamente il finanziatore straniero più importante per gli interessi palestinesi, manderà soltanto alcuni funzionari, mentre la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo manderà «qualcuno», non è chiaro chi. Anche gli amministratori delegati delle principali banche statunitensi hanno declinato l’invito.
Non ha avuto un particolare effetto nemmeno la decisione del governo statunitense di diffondere informazioni e notizie sul “braccio economico” della sua proposta per la pace fra Israele e Palestina. Il piano, in lavorazione da quasi tre anni, dovrebbe consistere nel trasferimento di 50 miliardi di dollari ai palestinesi e agli stati arabi loro vicini, nell’ambito di un progetto economico chiamato “Peace to Prosperity”. I soldi non arriverebbero direttamente dalle casse degli Stati Uniti, ma da quelle dai paesi del Golfo Persico e da investitori privati: non è ancora chiaro come gli Stati Uniti concilieranno la “raccolta fondi” con l’inevitabile volontà dei donatori di condizionare politicamente il processo di pace tra israeliani e palestinesi.
La parte economica del piano preparata da Kushner è stata molto criticata dal mondo arabo, tra cui alcuni dei paesi del Golfo che avrebbero dovuto essere coinvolti nella sua realizzazione. La principale critica fatta a Kushner riguarda la mancanza di un progetto politico, ovvero la parte più complicata da formulare ma anche la più importante, che la Casa Bianca sta rimandando da tempo. Dal Sudan al Kuwait, ha scritto Reuters, opinionisti e comuni cittadini stanno definendo la proposta di Kushner usando espressioni come «colossale perdita di tempo» e «morta in partenza». L’analista egiziano Gamal Fahmy, ha detto: «Le patrie non possono essere vendute nemmeno per tutto il denaro del mondo. Questo è un piano che nasce da un’idea di broker finanziari, non di politici». Bernard Avishai, un rispettato economista che insegna all’università ebraica di Gerusalemme, ha scritto sul New Yorker che questo approccio «equivoca il funzionamento delle imprese»:
Nei paesi in via di sviluppo come i territori palestinesi – o come Israele negli anni Ottanta – è vero che le opportunità diventano visibili come conseguenza di un investimento straniero da parte di aziende regionali o internazionali. Ma questo presuppone un contesto che raggiunga normali standard di trasparenza: che permetta di proteggere la proprietà, di registrare le imprese, far rispettare i contratti, e che non pretenda una mazzetta ad ogni curva. In sostanza, serve un apparato burocratico affidabile.
La burocrazia palestinese è tutto meno che affidabile: alcuni mesi fa i palestinesi ritenevano la corruzione il secondo problema più urgente da risolvere, dopo la crisi economica e prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, che pure secondo diversi leader palestinesi è la causa diretta della scarsa affidabilità della struttura para-statale di cui dispongono al momento. «Il potenziale economico può essere realizzato solo con la fine dell’occupazione israeliana e il rispetto delle leggi internazionali», aveva commentato Erekat rifiutando l’invito del governo americano alla conferenza in Bahrein.
Risolvere la questione politica significherebbe soprattutto dare un governo stabile ai palestinesi, che potrebbe lavorare sulla risoluzione dei problemi più pressanti che affrontano ogni giorno, specialmente se vivono nella Striscia di Gaza: «Kushner e Greenblatt dovrebbero concentrarsi su un piano di stabilizzazione a breve termine che si occupi di elettricità, acqua, gestione dei rifiuti, e di come creare lavoro nelle terribili condizioni in cui versa Gaza», suggerisce Foreign Policy.
C’è poi un problema più ampio che riguarda il ruolo degli Stati Uniti come mediatori. Sin dal suo insediamento, l’amministrazione Trump è venuta incontro a molte richieste che la destra nazionalista israeliana avanzava da tempo: sia perché diverse persone del circolo più ristretto di Trump hanno legami con la destra israeliana, sia perché l’appoggio incondizionato a Israele sta molto a cuore all’elettorato del Partito Repubblicano. Negli ultimi due anni, fra le altre cose, gli Stati Uniti hanno spostato la loro ambasciata israeliana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconosciuto la sovranità israeliana sui territori contestati delle Alture del Golan, e tagliato i fondi all’agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi.
Nessuna di queste misure è stata bilanciata da altrettanti passi in avanti per la causa palestinese, cosa che ha provocato una notevole ostilità della classe dirigente palestinese nei confronti di Trump. Le scelte di Trump potrebbero aver funzionato dal punto di vista del consenso interno, ma non da quello strategico: sono state così plateali che i palestinesi perderebbero ogni credibilità se oggi tornassero a negoziare con gli americani.
Incidentalmente, il probabile fallimento della conferenza tornerà buono anche al primo ministro uscente Benjamin Netanyahu, che poche settimane fa ha deciso di indire nuove elezioni politiche per settembre dopo il fallimento delle trattative per la formazione del nuovo governo: «una proposta di pace è l’ultima cosa di cui Netanyahu ha bisogno nel mezzo di una inaspettata campagna per la sua rielezione», scrive Haaretz, spiegando che eventuali nuovi negoziati potrebbero favorire i partiti alla destra del suo.