Non importa chi sei, ma come ti racconti
Le cose che scegliamo di ricordare delle nostre vite – e come lo facciamo – influenzano quello che siamo, dicono studi recenti
Christian Jarrett, fondatore del blog della British Psychological Society – l’associazione degli psicologi britannici – ha raccolto e raccontato su BBC alcuni nuovi studi secondo cui il modo in cui le persone descrivono e rappresentano la propria vita – a se stessi e agli altri – dipende dalla loro personalità e può influenzare il loro benessere psicologico ed emotivo; da questi studi si deduce che immaginare in modo nuovo la propria biografia possa avere effetti positivi e aiutare le persone a modificare alcuni aspetti del loro carattere. Come per le altre ricerche sulla psicologia, risultati e conclusioni di questi studi sono comunque da prendere con cautela, considerate le difficoltà in questo ambito a replicarli e sostanziarli.
Jarrett spiega che tutti portiamo dentro una sorta di “libro personale” in cui abbiamo scritto la nostra storia, che continuiamo ad aggiornare e interpretare. Non è solo una successione cronologica di eventi: è una selezione di quelli che riteniamo più importanti e significativi, di come hanno cambiato la traiettoria della nostra vita e di come li ricordiamo, se ci concentriamo sugli aspetti positivi o negativi, se ricordiamo più i successi personali, le sconfitte o le serate con gli amici. Le nuove ricerche mostrano che gli aspetti su cui ci concentriamo di più presentano alcuni tratti comuni che dipendono dal carattere di una persona e che si consolidano nel tempo, contribuendo a forgiarlo ancora di più.
Secondo uno studio di Kate McLean della Western Washington University pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, «le storie che ci raccontiamo su di noi rivelano chi siamo, costruiscono la nostra personalità e ci sostengono nel tempo». Dan P. McAdams, uno dei collaboratori di McLean, ha spiegato nel suo studio – The Psychology of Life Stories – che «le persone si distinguono nel modo in cui definiscono le storie della loro vita, così come si distinguono nelle caratteristiche psicologiche più convenzionali». L’idea richiama quella dei cosiddetti “Big Five”, i cinque tratti usati in psicologia per descrivere le persone: estroverse-introverse, gradevoli-sgradevoli, coscienziose-negligenti, nevrotiche-emotivamente stabili, mentalmente aperte-mentalmente chiuse.
Lo studio condotto da McLean su mille volontari ha individuato tre tratti principali anche nel modo in cui narriamo le nostre biografie. Il primo riguarda i temi motivazionali e affettivi, che considerano le storie personali sotto la luce delle relazioni con gli altri, nel loro essere positive o negative e nel risolversi in situazioni migliori o peggiori. La seconda riguarda le riflessioni che vengono fatte sulla propria storia personale: il significato che si dà alle cose che succedono, la ricerca delle relazioni tra i fatti e l’analisi di com’è cambiato, o non è cambiato, il nostro comportamento in situazioni simili. L’ultimo aspetto riguarda la struttura del racconto e quanto le storie che ci raccontiamo abbiano senso in termini cronologici e di contesto.
In un altro studio, Robyn Fivush della Emory University ha chiesto a quasi 100 volontari di raccontare la loro storia, per poi cercarli di nuovo e farsela raccontare ancora quattro anni dopo. Il modo in cui le persone parlavano della propria vita, anche aggiornata agli eventi recenti, rifletteva sempre gli stessi meccanismi e sottolineava gli stessi campi di interesse, a dimostrazione che l’idea che abbiamo di noi stessi e di quel che abbiamo vissuto ritorna nel tempo. Studi simili dimostrano che la narrativa autobiografica di una persona si forgia dall’adolescenza e si solidifica mano mano che si invecchia; inoltre alcuni tratti presenti da giovani diventano sempre più frequenti e ricorrenti: sono quelli su cui ci concentriamo di più finendo per ritrovarli, o perseguirli.
Le conseguenze di queste scoperte sono importanti e si inseriscono nelle tesi già sostenute dalla psicologia narrativa, un tipo di psicoterapia sviluppata tra gli anni Settanta e Ottanta che aiuta ad affrontare i propri problemi ripercorrendo e reinterpretando in modo positivo la propria storia. Qualche anno fa Jonathan Adler del Franklin W. Olin College of Engineering analizzò autobiografie e scoprì che alcuni modi di interpretare la propria vita erano legati a maggiore o minore soddisfazione personale o benessere.
Per esempio, le persone che esaltano molto gli aspetti di redenzione della propria storia (anche nelle piccole cose, come un licenziamento indesiderato che ha portato a un lavoro migliore) sono più soddisfatte e hanno una migliore salute mentale. Vale anche per quelle che si sentono protagoniste degli eventi e padrone della loro vita, e per quelle che ricordano soprattutto gli episodi di vicinanza e di divertimento con gli altri. Anche dare un senso alla propria vita e strutturarla in uno schema aiuta a godersela di più. Al contrario chi si sente in balia degli eventi, indipendentemente che sia così o meno, o che non riesce a dare peso ai momenti felici con gli altri, soffre di più.
Jarrett si chiede allora: «Puoi riscrivere la tua storia? Per esempio: dando peso alle cose positive nate da quelle negative, puoi sviluppare una personalità più sana e solida?». E si risponde che «non è un’idea così forzata». Racconta, per concludere, un esperimento condotto su 100 studenti, che erano stati invitati a scrivere fatti personali concentrandosi sulle sequenze di redenzione, ovvero sulle cose positive portate da un evento infelice. Paragonati con gli altri studenti che non erano stati spinti a considerare quest’aspetto, mostravano una maggiore solidità nel perseguire gli obiettivi a distanza di settimane e tendevano a portare a termine quello che avevano iniziato. La ricerca ha concluso che «non solo queste scoperte dimostrano che la narrativa personale può essere riscritta, ma anche che spostare i modi in cui le persone pensano e parlano di eventi importanti nella loro vita può influenzarne l’andamento».