Gli streaming truccati della musica
L’industria discografica perde ogni anno centinaia di milioni di dollari a causa dei bot programmati per ascoltare canzoni e aumentarne la popolarità
Dopo anni di grande difficoltà, dovuta in larga parte alla diffusione dei download illegali di dischi e brani musicali, la situazione dell’industria discografica ha iniziato a cambiare con l’arrivo dei servizi di streaming musicali. Le riproduzioni in streaming delle canzoni su servizi come Spotify, Apple Music, Deezer, Tidal e simili portano agli artisti e alle case discografiche guadagni sempre maggiori, e sono sempre di più il parametro in base a cui valutare la fama di un artista, molto più delle tradizionali classifiche che mettono insieme i dischi più venduti. Anche per questo motivo, però, qualcuno si sta industriando per falsificare le riproduzioni in streaming delle canzoni, per incassare di più e “gonfiare” la percezione del proprio successo.
Perché una canzone ottenga molti ascolti in streaming in qualche caso può funzionare il passaparola, e può essere determinante l’inserimento di una canzone in una playlist molto ascoltata; poi esistono naturalmente diverse strategie commerciali e di marketing, che ovviamente funzionano meglio nel caso l’artista sia già famoso. Parliamo di vere operazioni di marketing, non poi così diverse da quelle che i discografici adottavano anni fa quando ancora si vendevano molti dischi. Le case discografiche però non hanno nessun controllo diretto sulla quantità di riproduzioni di una canzone: tutto sta nelle mani dei singoli utenti che decidono di ascoltare un brano. Cosa succede quindi se qualcuno crea di proposito degli account falsi sui servizi di streaming per riprodurre di continuo una canzone, allo scopo di farla salire nella classifica di quelle più ascoltate?
È accaduto nel 2018, per esempio, quando due playlist create in Bulgaria, e piene di canzoni di artisti sconosciuti o quasi, erano arrivate ai primi posti di quelle più ascoltate in tutto il mondo. Analizzando i dati di una delle due playlist, si scoprì che ogni canzone era stata ascoltata in media da 1.200 persone al mese, una cifra molto bassa che si poteva spiegare solo in un modo: qualcuno in Bulgaria aveva creato circa 1.200 account falsi di Spotify per riprodurre in continuazione quelle canzoni. Che dietro quegli account ci fossero effettivamente delle persone fisiche o dei software collegati a migliaia di dispositivi (smartphone o computer) in grado di riprodurre una canzone potenzialmente all’infinito, non si può sapere con sicurezza. Di certo c’è che teoricamente chi lo aveva fatto non aveva violato nessun regolamento di Spotify.
Quello bulgaro è stato un caso molto palese di quelle che in gergo si chiamano “fabbriche di bot”, un fenomeno sempre più esteso ma difficile da quantificare. Anni fa è circolato molto su internet un video che mostrava il funzionamento di una di queste fabbriche, dove centinaia di smartphone riproducevano di continuo delle canzoni per aumentarne il numero degli ascolti sui servizi di streaming. Generalmente si inizia a sospettare l’utilizzo di una “fabbrica di bot” quando ad avere molti ascolti sono artisti poco famosi, ma negli ultimi anni sono stati accusati di averle usate anche alcuni cantanti molto famosi. Nel 2018, per esempio, il servizio di streaming musicale Tidal, di proprietà del rapper americano Jay-Z, fu accusato di aver gonfiato i numeri degli ascolti di due dischi, Lemonade di Beyoncé e The Life of Pablo di Kanye West.
Il tema è stato affrontato questa settimana durante la Indie Week di New York, una serie di incontri sulle etichette discografiche indipendenti. Durante una delle conferenze, riporta il Financial Times, è stato stimato che il numero degli streaming illeciti ammonterebbe oggi al 3-4 per cento del totale. Secondo Louis Posen, fondatore dell’etichetta indipendente Hopeless Records, in totale si parla di circa «300 milioni di dollari di potenziali entrate perse ogni anno» (circa 265 milioni di euro).
Il direttore di un’altra casa discografica ha detto al Financial Times che molti manager del settore acquistano ascolti illegali tramite bot, «per cercare di aiutare i loro artisti a iniziare bene [la carriera] o nel caso in cui questi siano in corsa per la prima posizione in classifica. Alcune aziende lo considerano come una spesa di marketing». Un po’ come per l’acquisto di follower su Instagram, non serve molto per un artista o per una casa discografica per ottenere qualche ascolto in più. Basta cercare su Google “Acquistare ascolti/stream/play su Spotify” per trovare centinaia di siti che vendono servizi che promettono l’incremento del numero di ascolti per una canzone, con prezzi che vanno da poche decine a migliaia di euro.
Per questo motivo 24 società che si occupano di musica – tra cui le case discografiche Sony, Warner e Universal e i servizi di streaming Amazon, Deezer e Spotify – hanno annunciato per la prima volta la sottoscrizione comune di un codice di condotta per contrastare la manipolazione degli ascolti in streaming come quelli avvenuti nel 2018 in Bulgaria. John Phelan, direttore della Federazione Internazionale degli Editori Musicali (ICMB), ha detto a Rolling Stone che «la manipolazione degli streaming è diventata una piaga per tutto il settore negli ultimi anni, portando a un flusso di entrate completamente distorto e a modelli di ascolto completamente distorti. Qualcosa deve essere fatto».
Per Spotify è complicato capire se gli ascolti siano reali o artificiali: un modo per farlo è vedere se un artista passa nel giro di poco tempo da pochissimi a moltissimi ascolti, oppure se la maggior parte di questi si ferma a 31 secondi. Infatti Spotify registra solamente gli ascolti che abbiano raggiunto almeno 30 secondi, e molte “fabbriche di bot” sono programmate per ascoltare una canzone solo per 31 secondi per poi passare a un’altra. Secondo alcuni manager musicali che sono intervenuti alle conferenze, Spotify non avrebbe fatto abbastanza in questi anni per contrastare il fenomeno, e non avrebbe investito nella tecnologia necessaria per intervenire in tempo e bloccare i bot. Nel 2018 Spotify aveva detto di essere a conoscenza del problema, ma di non poter intervenire in alcuni casi per rimuovere gli utenti falsi a causa di «limitazioni nella capacità di identificare i loro account».