L’ultima volta che l’Iran provò a cambiare
Era il giugno 2009, c'erano appena state le elezioni e il regime diede la vittoria al conservatore Ahmedinejad, tra molte contestazioni: iniziarono così le proteste dell'Onda verde
di Elena Zacchetti
Il 20 giugno 2009, dieci anni fa, iniziò a circolare su Internet un video girato lo stesso giorno a Teheran, in Iran, che in pochissimo tempo fu visto da milioni di persone, tra cui capi di stato e di governo di tutto il mondo. Il video durava meno di 40 secondi: mostrava una giovane donna gravemente ferita, in strada, circondata da alcuni uomini che tentavano di prestarle soccorso. La donna guardava verso il cellulare che stava filmando, con gli occhi spalancati, prima di cominciare a perdere molto sangue dalle orecchie e dal naso, e morire. Lei si chiamava Neda Agha-Soltan, e aveva 26 anni.
Attenzione: il video è molto impressionante
Neda Agha-Soltan fu uccisa da un cecchino delle forze di sicurezza iraniane mentre andava a una delle tante manifestazioni che si stavano tenendo nel giugno 2009 per protestare contro i presunti brogli elettorali che avevano permesso la vittoria alle elezioni presidenziali del conservatore Mahmud Ahmadinejad. Pochi giorni prima, il 15 giugno, c’era stata la più grande manifestazione di protesta dalla nascita della Repubblica Islamica, nel 1979, manifestazione definita dal giornalista Borzou Daragahi «uno dei momenti più significativi della storia dell’Iran».
Milioni di persone stavano partecipando a quelle che furono poi chiamate le “proteste dell’Onda verde”, dal colore usato dal principale avversario di Ahmadinejad, il riformista Hossein Mousavi.
Neda Agha-Soltan divenne uno dei simboli più potenti di quel movimento, che durò dalla metà del 2009 all’inizio del 2010, quando fu definitivamente e brutalmente represso. Quella fu anche l’ultima volta che la Repubblica Islamica dell’Iran provò davvero a cambiare.
Le elezioni del 2009 e i brogli elettorali
Il 12 giugno 2009 in Iran si tennero le elezioni per eleggere il nuovo presidente, colui che presiede il governo ma che sta al di sotto della carica religiosa e politica più importante del paese, la Guida Suprema. I principali candidati erano due: Mahmud Ahmadinejad, conservatore e populista, che aveva governato durante i precedenti quattro anni; e Hossein Mousavi, leader del movimento “riformista”, una specie di moderatissima sinistra iraniana. Il 13 giugno il ministero dell’Interno iraniano diffuse i risultati ufficiali del voto: aveva vinto Ahmedinejad con il 62,6 per cento dei voti, Mousavi aveva preso il 34 per cento, l’affluenza era stata altissima: l’85 per cento.
Fin da subito le opposizioni e diversi osservatori internazionali parlarono di brogli. Mousavi, che in campagna elettorale aveva promesso di rivedere le politiche più conservatrici adottate da Ahmadinejad, si dichiarò vincitore delle elezioni e chiese alla Guida Suprema, Ali Khamenei, di intervenire e far ricontare i voti. Il 13 giugno, però, Khamenei fece un discorso in diretta televisiva per congratularsi con Ahmadinejad della vittoria, lasciando poco spazio a passi indietro e ripensamenti.
Quella di Mousavi era probabilmente una battaglia persa in partenza. Khamenei era il rappresentante e massimo esponente dell’ala più intransigente e conservatrice del regime iraniano: alla fine degli anni Novanta aveva tollerato l’elezione a primo ministro di un altro riformista, Mohammad Khatami, ma nel giro di poco tempo era tornato a essere estremamente ostile verso il progressismo dei riformisti e aveva cominciato a opporsi a qualsiasi tentativo di liberalizzazione della società iraniana (è una dinamica che si vede ancora oggi in Iran, con il governo moderato del presidente Hassan Rouhani frenato dal potere ultraconservatore della Guida Suprema e dei suoi alleati).
Sabato, lo stesso giorno del discorso televisivo di Khamenei, iniziarono le proteste in diverse città iraniane, che furono fin da subito le più intense e partecipate dell’ultimo decennio. «Where is my vote?», «Dov’è finito il mio voto?», dicevano i cartelli di molti manifestanti che si riunivano nelle strade e nelle piazze di Teheran, Shiraz, Isfahan e altre città iraniane. «Non sembrava un clima post elettorale. Sembrava più che altro un colpo di stato», ha scritto il giornalista Borzou Daragahi.
L’uccisione di Neda Agha-Soltan e la repressione
L’uccisione di Neda Agha-Soltan ebbe un’enorme risonanza internazionale – fu raccontata anche da un documentario di HBO, For Neda – ma non fu il primo episodio di repressione contro l’Onda verde.
Fin da subito il regime iraniano rispose ai manifestanti con la violenza. La polizia e le milizie paramilitari Basij, che furono create nel 1979 e fanno parte delle Guardie rivoluzionarie, picchiarono, arrestarono e torturarono migliaia di manifestanti in tutto il paese. Ci furono decine di morti, anche se non si sa con precisione il numero. Nei mesi successivi alla repressione si cominciò a parlare di stupri sistematici compiuti dalle forze di sicurezza e da altri detenuti nei confronti di donne e uomini incarcerati per ragioni politiche. «Le guardie carcerarie stanno distribuendo preservativi ai criminali e li stanno incoraggiando a violentare sistematicamente i giovani attivisti che si trovano in carcere con loro», scrisse nel giugno 2011 il giornalista del Guardian Saeed Kamali Dehghan, citando diverse lettere e testimonianze di persone detenute nelle prigioni iraniane.
I principali leader riformisti furono arrestati. Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, altro candidato riformista alle elezioni del 2009, si trovano ancora oggi agli arresti domiciliari. Molto di quello che stava succedendo arrivò ai giornali stranieri ore e giorni dopo: le autorità iraniane avevano chiuso molti siti Internet e non permettevano ai giornalisti occidentali di seguire le proteste. In quelle settimane i manifestanti riuscirono a comunicare verso l’esterno usando soprattutto Twitter e i blog.
Le proteste comunque durarono solo qualche mese, finché la repressione violentissima del regime raggiunse il suo obiettivo. Alla fine del 2010, di quel movimento praticamente senza precedenti non era rimasto quasi più niente.
Cosa è rimasto oggi dell’Onda verde?
Non c’è un’unica risposta e ci sono opinioni diverse.
Se si guarda l’Onda verde come un movimento per i diritti civili e non come una rivoluzione, ha scritto su Foreign Policy il giornalista statunitense-iraniano Hooman Majd, si può parlare di “vittoria” sotto diversi aspetti: per esempio «se vittoria significa che molti iraniani non sono più rassegnati agli aspetti antidemocratici di un sistema politico che negli ultimi tre decenni è regredito, invece che progredire, nel garantire ai suoi cittadini i diritti promessi dalla stessa Costituzione dell’Iran». L’Onda verde fece capire alla parte più conservatrice del regime iraniano che elezioni come quelle del 2009 non erano più possibili, ha scritto Majd, così come sarebbe stato molto difficile eliminare gli elementi democratici che continuavano a sopravvivere all’interno del complicato sistema istituzionale iraniano.
Se la si guarda però dalla parte del movimento riformista, dell’Onda verde oggi rimane poco. Dopo la presidenza di Khatami, e dopo la repressione nel 2009, i conservatori iraniani si convinsero che anche una democrazia limitata potesse essere una minaccia a un regime teocratico, e cominciarono a non ammettere sistematicamente i candidati riformisti da qualsiasi elezione (l’organo che seleziona i candidati si chiama Consiglio dei Guardiani, ed è controllato di fatto dalla Guida Suprema). Da qualche anno i riformisti hanno cominciato ad appoggiare il movimento dei moderati, il cui massimo esponente oggi è il presidente Hassan Rouhani, che però continua ad avere poteri molto limitati.
«Il campo dei riformisti in Iran è in una crisi profonda di rilevanza e legittimità», ha scritto l’analista Maysam Behravesh sul sito Middle East Eye. In altre parole, ha concluso Behravesh, la fine del riformismo avrebbe reso negli ultimi anni la politica iraniana sempre più omogenea e appiattita sulle posizioni degli ultraconservatori, e avrebbe reso più deboli le istituzioni democratiche che continuano a resistere nel paese, come le elezioni.